Nei suoi oltre centoquarant’anni di vita, Carmen di Georges Bizet è stata tutto e il contrario di tutto: opéra-comique per pochi intimi e succès à scandale per l’esigente élite della minuscola Salle Favart, quindi grand-opéra a forti tinte, intramontabile vessillo dell’intero melodramma francese; immagine di un altrove immaginario e genialmente immaginato, ma non per questo meno crudo e cruento di quello vero; quindi opera verista, per quella coltellata che ne suggella l’epilogo; e poi ancora drammone psicanalitico di una femme fatale autoritaria e castrante in cerca di potere sull’universo maschile che la circonda. A questo veniva di riflettere, assistendo all’ultimo titolo del cartellone del Teatro Massimo di Palermo, una ripresa della produzione firmata da Calixto Bieito, che qui aveva visto la luce cinque anni or sono, coprodotta con il Liceu di Barcellona, il Regio di Torino e la Fenice di Venezia, e che nel frattempo ha conquistato prestigiosi riconoscimenti, come il Premio Abbiati per il miglior spettacolo del 2012. A distanza di un quinquennio lo spettacolo sembra aver perduto parte della forza rivoluzionaria che, all’epoca, aveva suscitato violente reazioni di pubblico. Ciò che maggiormente convince, piuttosto, è la visione disincantata e a tratti perfino ironica di una Spagna violenta e virulenta, non-luogo perché dimensione primigenia dell’anima, lontana dal bozzetto di maniera. Fa bene, allora, Alfons Flores a eliminare elementi scenografici posticci: solo un’enorme arena semicircolare, appena accennata sullo sfondo, buia come il destino dei personaggi che emergono dalle nebbie, da quell’indistinta linea di frontiera che i tagli di luce di Alberto Rodriguez Vega s’incaricano di disegnare. L’originale è poco più di un simbolo: l’enorme toro di Osborne che campeggia nel terzo atto, una bandiera che dapprima garrisce al vento, ma poi diventa telo da mare per una procace fanciulla che si stende al sole. Anche i costumi, firmati da Mercè Paloma, sono volutamente anonimi, taluni perfino brutti e deformi, come quelli che indossa Micaëla: perché l’obiettivo, che Carmen estremizza fin dalla sua sortita, è quello di dar sfogo alle pulsioni della carne, al prorompere di corpi ora violentati – terribile è la scena di nonnismo su cui si apre l’opera – ora esaltati, come nel caso delle gitane. Tutto trasuda sensualità, quando non espliciti richiami sessuali, a cominciare dall’alzabandiera iniziale, che trova riflesso nel gesto con cui Moralès descrive la «garde montante»; fino all’erotismo esibito della struggente danza di un giovane torero alla luna, completamente nudo sulla scena vuota al principio del terzo atto, per recuperare un rapporto panico e primordiale con la natura.
È, dunque, una Spagna a forti tinte, quella che Bieito declina; ma quasi spente, tuttavia, in confronto a quelle fortissime che Alejo Pérez dispiega dalla fossa orchestrale. Il direttore argentino cavalca con fin troppa convinzione la raffinata partitura di Bizet, trasformandola in una girandola di colori rutilanti, in un caleidoscopio dalle tinte fosforescenti, in un affresco fragoroso ed eccessivo (evidente soprattutto nelle intemperanze degli ottoni), che ben presto stordisce e affatica. Di più. Questo turgore sonoro, forse utile per acclimatare l’opera alle grandi dimensioni del Teatro Massimo, da una parte praticamente ignora l’impianto drammaturgico dell’opéra-comique – i dialoghi parlati sono scarnificati, quasi sistematicamente soppressi – e dall’altro trascina l’opera verso una dimensione verista, che forse Carmen prefigura, ma certo non condivide. È una prospettiva estremista ed estremizzata dell’opera, che accomuna all’orchestra anche il coro, preparato da Piero Monti, e quello junior di voci bianche istruito da Salvatore Punturo, certo feconda di risultati in alcuni passaggi, come l’avvincente scena di apertura dell’ultimo atto; ma che costringe i cantanti a forzare e cercare effetti di dubbio gusto, che oggi appaiono francamente datati. Dalla fossa alla scena, gli equilibri non sono sempre perfettamente garantiti e le lancette del tempo sembrano essere tornate indietro di almeno un cinquantennio nella storia dell’interpretazione dell’opera: tanto che l’esito lascia per lo meno perplessi, tranne per chi rimpianga le neiges d’antan.
Voci di robusto tonnellaggio supportano questa visione d’insieme: anche nei ruoli minori, qui assai numerosi ma tutti essenziali nella definizione del quadro generale. Così per i due soldati, lo stentoreo Moralès di Vittorio Albamonte e il vigoroso Zuniga di Mariano Buccino; così per un quartetto di contrabbandieri (con la svettante Marina Bucciarelli e la ben più corposa Annunziata Vestri, accanto ai corretti Nicolò Ceriani e a Cristiano Olivieri) di bell’impatto e solidità, ma ben lontano dalla trasparente leggerezza, da quel brio piccante che – soprattutto nel secondo atto – ne qualifica gli interventi. Ma suscitano perplessità anche la Micaëla di Maria Katzarava e l’Escamillo di Marko Mimica: in difficoltà nel registro acuto, la prima si presenta più come soffocante virago che come ingenua fanciulla, e non solo per il gestaccio con cui si accomiata dai contrabbandieri; e la vocalità poderosa appare priva di quel profumo di giovanile freschezza, della morbidezza di emissione, del senso del legato che conferiscono fascino al personaggio. Il secondo è certo in possesso della spavalderia indispensabile come dell’irresistibile appeal del physique du rôle, che però mal si associa a un canto sempre rozzo, poco curato, sistematicamente sprovvisto di nobiltà ed eleganza. Non persuade fino in fondo neanche il don José di Arturo Chacón-Cruz, chiamato a salvare la produzione in sostituzione del tenore inizialmente previsto. A conti fatti, tuttavia, si è avuta la sensazione di un esempio di miscasting, atteso il bel timbro di tenore lirico, non ancora maturo per un impegno così gravoso. E la dimostrazione la si è avuta nel secondo atto, perché «La fleur que tu m’avais jetée», pur priva della filatura sul pianissimo conclusivo, convince maggiormente grazie al clima di sognante, estatico lirismo in cui viene immersa. Ma per il resto lo sforzo è evidente, soprattutto nel terzo atto, e forse sarà il caso di attendere alquanto prima di riprendere questo ruolo.
Ma certo è Carmen a catalizzare le attenzioni: e lo conferma in pieno Varduhi Abrahamyan, finalmente alle prese con un ruolo di assoluto rilievo, dopo anni di necessaria, indispensabile gavetta. Non è bella, ad esempio, la cantante armena: ma è sicuramente seducente, sensuale, capace di valorizzare al meglio i succinti costumi che indossa. E se forse la situazione dell’habanera di sortita – quando la protagonista esce da una cabina telefonica – non è particolarmente interessante, particolarmente riuscito è il dialogo che riesce a intessere non solo con l’uditorio che la contorna sulla scena, ma soprattutto con quello cui fa appello in sala: grazie a uno strumento duttile, pastoso, straordinariamente denso nei gravi ma risonante anche negli acuti. È una Carmen autoritaria e autorevole, capopopolo sfrontata e irriverente, ma dominata dall’oscuro fato che la sovrasta: il piombo della direzione orchestrale nulla sottrae al fascino arcano, venefico, terragno della sua scena delle carte, vibrante sentenza di morte compulsata con l’inappellabile forza di un fraseggio che inchioda e si imprime con forza ed energia. Ed è forse l’unica, peraltro, a possedere i mezzi per fronteggiare una visione così esteriore, così marcatamente verista dell’opera, che anzi ne esalta le tormentate, appassionate potenzialità espressive: voce che canta il fascino insolente della libertà e lo difende con dignità, fino alle estreme conseguenze.
Teatro Massimo – Stagione di opere e balletti 2016
CARMEN
Opéra-comique in quattro atti di Henri Meilhac e Ludovic Halévy
Libretto e musica di Georges Bizet
Don José Arturo Chacón-Cruz
Escamillo Marko Mimica
Le Dancaïre Nicolò Ceriani
Le Remendado Cristiano Olivieri
Moralès Vittorio Albamonte
Zuniga Mariano Buccino
Carmen Varduhi Abrahamyan
Micaëla Maria Katzarava
Frasquita Marina Bucciarelli
Mercédès Annunziata Vestri
Lillas Pastia Piero Arcidiacono
Giovane torero Alessandro Cascioli
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Massimo
Direttore Alejo Pérez
Maestro del coro Piero Monti
Maestro del coro di voci bianche Salvatore Punturo
Regia Calixto Bieito, ripresa da Joan Antón Rechi
Scene Alfons Flores
Costumi Mercè Paloma
Luci Alberto Rodriguez Vega
Palermo, 4 dicembre 2016