Si è aperta con La bohème di Giacomo Puccini la stagione lirica 2016/17 del Teatro del Giglio di Lucca. Qualcuno, criticamente, ha detto che poteva essere al massimo un buon saggio musicale, senza cogliere di questa operazione culturale il valore propositivo che, a mio avviso, dovrebbe invece servire da guida per molti dei teatri del nostro territorio.
Lucca magari è avvezza ad altri cast di più navigata esperienza e certamente proporre una Bohème, che è tra le opere più famose del maestro lucchese, senza nomi di particolare prestigio, può far storcere il naso a chi pensa al Giglio come al salotto buono della città, dove si ospitano solo artisti importanti.
E invece questa volta nessuna star sul cartellone, solo giovani e giovanissimi cantanti: probabilmente ancora in rodaggio, certamente da migliorare nelle loro performance, indiscutibilmente con più o meno errori fatti, ma giovani, ovvero promesse concrete della lirica italiana alle quali è stata data la possibilità di mettersi in gioco e farsi conoscere.
Questa Bohème lucchese vorrei ricordarla proprio per questo, per il coraggio del direttore artistico e degli organi direttivi del teatro di aprire le porte di questo salotto anche a giovani senza pedigree investendo su di loro. Perché, in qualche modo, se c’è talento (anche se non ancora espresso in modo compiuto) questo talento deve essere incoraggiato e sostenuto e a farlo devono essere quei teatri che hanno alle spalle una lunga storia di credibilità e rispetto da parte del pubblico.
Solo loro possono garantire sulla qualità, magari ancora grezza, di un giovane interprete e focalizzare l’attenzione del pubblico affinché lo sostenga a sua volta anche attraverso critiche costruttive. Oltre che nelle stanze dei conservatori e nelle mani degli insegnanti, si cresce anche calcando il palcoscenico e imparando dai propri errori o dalle proprie paure: la vecchia “bottega”, quella che forma davvero, quella che forgia personalità e professionalità, che insegna a essere umile ma non servile, che tiene lontano dai giochini ricattatori e vessatori di alcune agenzie, deve tornare a essere patrimonio dei teatri per restituire fiducia a tanti giovani che davvero credono in quello che fanno.
Se durante lo svolgimento dell’opera sono stato attento ai dettagli come si addice a chi deve svolgere il ruolo di critico musicale, sono uscito dalla rappresentazione con la convinzione che quel mucchio di appunti fissati con perizia sulla carta fossero insufficienti a raccontare davvero ciò che avevo visto.
Mi è tornata alla mente una sera di tanti anni fa, quando ho avuto il piacere di assistere a Modena a un’altra Bohème, quella dei 25 anni di lirica di Luciano Pavarotti, con i giovani della sua scuola e lui in mezzo a loro che si faceva piccolo per lasciare loro la ribalta.
Mi ero commosso allora pensando a quell’uomo così famoso nel mondo, nel giorno della sua festa, che lasciava a quei ragazzi lo sguardo del pubblico, convinto che quella fosse la strada giusta per loro; dargli fiducia, aprire una strada e far sì che ognuno potesse cogliere il meglio di quanto poteva dare in quel momento. Alcuni di loro sono diventati famosi, altri sono stati risucchiati dal meccanismo usa e getta che esiste nei nostri teatri e bruciati in pochi anni, altri ancora sono rimasti nell’ombra non riuscendo a crescere oltre quello che erano in quel momento. Ma tutti hanno avuto più di una possibilità.
Ma veniamo alla Bohème lucchese, partendo dalle scene firmate da Italo Grassi: sono quelle dell’edizione del novembre 2011 riproposte senza aggiornamenti, con pregi e difetti che avevamo riscontrato allora e ritroviamo oggi. Estremamente interessante il secondo atto, con quella scena che si apre progressivamente dalla strada al Café Momus dove si incontrano i protagonisti, essenziale ma efficace il terzo atto; troppo dispersivo il primo in quello spazio ampio che, nel quarto, diventa invece volutamente claustrofobico per l’assenza di finestre e spoglio di ogni riferimento alla vita (non c’è più la stufa, né i cavalletti, non c’è un letto ma solo la poltrona…), quasi una tomba dove muore, oltre la protagonista, una stagione spensierata per iniziarne forse un’altra più adulta e consapevole.
Assente o quasi il disegno delle luci capace di creare le diverse e numerose atmosfere che quest’opera propone nei quattro atti e all’interno degli stessi nei vari momenti scenici.
Belli e credibili i costumi di Anna Biagiotti, da oltre un quarto di secolo costumista al Teatro dell’Opera di Roma che, anche dal suo punto di vista vede con preoccupazione questa mancanza di opportunità per i giovani. «quello che più ci dispiace – ci ha detto – è non poter fare la formazione dei giovani. Rischiamo che nessuno sia più in grado di continuare un lavoro che prima di tutto è un mestiere artigianale, oltre che un’arte».
Qualche perplessità sulla regia di Marco Gandini, che ne era stato regista anche nel 2011: la goliardia è bella, ma non necessariamente deve essere così accentuata (primo atto e inizio del quarto). Nel quarto atto fatica a trovare la misura giusta nella recitazione e così sfugge quel pathos sottile che Puccini prepara prima dell’epilogo (dannoso quel segno della croce di Shaunard che rende inutile la frase di Rodolfo “che cos’è quell’andare e venire, quel guardarmi così”); incomprensibile il finale del secondo con Musetta che, pur avendo appena ritrovato finalmente il suo Marcello, se ne va con la banda sulle spalle dei camerieri.
La bohème è un meccanismo delicatissimo di equilibri: per evitare di cadere nel retorico, nel grottesco, nel ridicolo, occorre andarci coi piedi di piombo, anche perché si racconta qualcosa di molto importante al di là delle singole storie dei personaggi; si racconta il passaggio da una stagione felice e in qualche modo inconsapevole a una nella quale non sarà più possibile non fare i conti con la realtà e la realtà è dura, più della fame e della povertà, perché la realtà spegne i sogni e le speranze.
Perplessità anche sulla direzione d’orchestra affidata a Nicola Paszkowski, che pure poteva contare sulla più che esperta Orchestra della Toscana; se da un lato si apprezza lo sforzo di dare una lettura particolareggiata, quasi cameristica, della partitura, dall’altra ci è sembrato staccasse tempi talvolta troppo lenti, talaltra troppo veloci confondendo anche i cantanti.
Ma veniamo alle voci. Molto brava Damiana Mizzi, una Musetta completa vocalmente e scenicamente, fresca, equilibrata e appassionata; bravo Luca Dall’Amico, un Colline dalla bella voce calda e profonda, ombroso e scostante rispetto ai suoi compagni, ma capace di esserci fino in fondo quando c’è bisogno. Interessante, anche se un po’ discontinuo, Italo Proferisce, Marcello, piacevole Daniel Giulianini, uno Schaunard po’ confuso talvolta sulla scena.
Quanto ai due protagonisti, la giovanissima Benedetta Torre, Mimì, e il giovane Alessandro Scotto di Luzio, Rodolfo, il peso del ruolo si è fatto sentire principalmente all’inizio per poi via via lasciar posto al piacere del cantare, alla gioia di esserci su quel palcoscenico, alla consapevolezza di aver dato degnamente volto e voce a due immortali personaggi del melodramma. Le due voci hanno mostrato tutti i loro pregi già in essere e le grandi potenzialità ancora da esprimere. E così abbiamo gustato momenti davvero notevoli e struggenti e la critica ha lasciato spazio all’emozione, com’è giusto che fosse.
Buone le performance di Giorgio Trucco, Benoit e Parpignol, di Graziano Dallavalle, Alcindoro.
Dello stesso parere il pubblico che, inizialmente parco negli applausi, è stato alla fine più che generoso con tutti gli interpreti, gratificandoli meritatamente.
Teatro del Giglio – Stagione lirica 2016/17
LA BOHÈME
Scene liriche in quattro quadri su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa,
dal romanzo “Scènes de la vie de Bohème” di Henri Murger
Musica di Giacomo Puccini
Mimì Benedetta Torre
Musetta Damiana Mizzi
Rodolfo Alessandro Scotto di Luzio
Marcello Italo Proferisce
Shaunard Daniel Giulianini
Colline Luca Dall’Amico
Parpignol, Benoit Giorgio Trucco
Alcindoro Graziano Dallavalle
Sergente dei Doganieri Antonio Della Santa
Orchestra e coro della Toscana
Coro voci bianche Teatro del Giglio e Cappella Santa Cecilia di Lucca
Direttore Nicola Paszkowski
Maestro del coro Maurizio Preziosi
Maestro del coro voci bianche Sara Matteucci
Regia Marco Gandini
Scene Italo Grassi
Costumi Anna Biagiotti
Luci Marco Minghetti
Allestimento Teatro del Giglio di Lucca
Lucca, 25 novembre 2016