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Catania, Teatro Massimo Bellini – Sakùntala

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«Sciagura! Ah, il destino mi è contro!», prorompe in un grido Sakùntala, quando la catastrofe le appare inevitabile. E proprio questa doppia, drammatica interiezione sembra la chiave di volta per comprendere un’opera come Sakùntala, titolo non dimenticato del catalogo di Franco Alfano, cui non si può dire sia arrisa una felice sorte. Basti dire che dell’opera esistono due versioni – la prima dal titolo La leggenda di Sakùntala – perché partitura e materiale d’orchestra della prima furono per lungo tempo considerati distrutti dai bombardamenti che danneggiarono gli Archivi Ricordi, costringendo l’autore a ricostruire l’opera, licenziata in una nuova versione nel 1952. Pure Sakùntala, benché di rara esecuzione – l’ultima volta all’Opera di Roma esattamente dieci anni or sono, per iniziativa di Gianluigi Gelmetti – è opera che merita di essere conosciuta perché, se opportunamente inquadrata nel contesto produttivo dell’epoca, spiega la decisione di affidare al compositore di Posillipo il finale dell’incompiuta Turandot: improntata com’è a un esotismo che mai ricerca la couleur locale, ma si astrae in una dimensione di pura suggestione sonora, in un gigantesco, smisurato poema sinfonico-vocale che intende confrontarsi con un sentimento panico della natura. Ma c’è di più: lontana dalle suggestioni ottocentesche dell’India di Théophile Gautier – cui si deve, nel 1858, il libretto di una prima Sacountala su musiche di Ernest Reyer – come della successiva vague francese, a cavaliere tra Otto e Novecento, che coinvolge la scena lirica (dai Pêcheurs de perles di Bizet a Lakmé di Delibes, dal Roi de Lahore di Massenet fino a Padmâvatî di Roussel) e coreografica (dalla Source alla Bayadère, entrambe con il contributo musicale di Ludwig Minkus), l’opera di Alfano per la prima volta attinge alla lezione autentica dell’epica indiana, mediata dalle traduzioni di Rabindranath Tagore, che nel 1913 ottiene il Nobel per la Letteratura, assicurando nuovo slancio agli studi indologici in tutta l’Europa. Ispirata a un episodio del Mahābhārata, Sakùntala vive all’ombra di molti padri: Debussy e Ravel, con tutto quello che Parigi aveva prodotto ai primi del secolo e che Alfano aveva personalmente conosciuto, quando lavorava come pianista e compositore alle Folies-Bergère; ma anche il Modernismo tedesco, da Busoni a Strauss, che innerva un tessuto orchestrale di straordinaria densità e pregnanza timbrica. Il gioco di rimandi – plausibilmente godibile anche per il melomane – s’infittisce in maniera spesso impenetrabile: e se risulta più scontata la maledizione del bonzo in salsa indiana (il perfido asceta Durvàsas), illumina la notte d’amore il monito di un’accorata, wagneriana Brangäne (l’amica Priyàmvada) che annuncia il calar delle tenebre.

Fondere tutte queste componenti in un unicum che traduca le specificità del linguaggio musicale di Alfano è, evidentemente, operazione estremamente difficile, se non addirittura improba. Certo è stato coraggioso il Teatro Massimo Bellini di Catania a intestarsi una battaglia che il pubblico ha solo parzialmente gradito, disertando lo spettacolo e accompagnandolo con applausi solo al sipario finale. E forse sarebbe anche il caso di cominciare a interrogarsi su quale Novecento occorra prioritariamente trasmettere e fare conoscere, sol che si consideri come autori come Janáček o Britten a Catania sono ancora raramente eseguiti o addirittura – come nel secondo caso – del tutto ignorati. Certo è che una maggior consapevolezza dell’uditorio, ancora tutta da formare, avrebbe facilitato un ascolto difficoltoso, ma non privo di interesse.

Punta di diamante dell’esecuzione proposta al Teatro Massimo Bellini di Catania è stata la scelta di un direttore come Nikša Bareza, che peraltro si era già misurato a Palermo con il Verismo di Resurrezione, e che mai allenta l’inarrestabile flusso musicale, il gigantismo sonoro di una partitura che vive di alte, inattingibili intenzioni. La bacchetta del concertatore slavo si appaga della ricerca di sonorità lussureggianti, con cui tenta di compensare quelli che Konrad Dryden, autore della più recente monografia dedicata al compositore partenopeo, definisce come «evasive and somewhat tedious musical patterns […] uncompensated by melodically memorable vocalism» [itinerari musicali evasivi e in qualche modo tediosi […] non compensati da una vocalità melodicamente memorabile]. Per questo tratteggia un affresco a tinte forti, erige un autentico muro di suoni, che è – al tempo stesso – un risultato impareggiabile ma anche un enorme limite, per gli artisti chiamati a intervenire sulla scena.

È dunque difficile esprimersi sulle reali capacità di interpreti, costretti a confrontarsi non soltanto con personaggi dalla psicologia talmente lieve, da risultare a tratti quasi inconsistente; ma soprattutto con l’opulenza di un’orchestrazione che ne mette a durissima prova gli sforzi. Il caso forse più emblematico è quello del Re, qui affidato a Enrique Ferrer, certo volenteroso ma impegnato con una scrittura impossibile, tutta sul passaggio di registro, lì dove il suo timbro diventa più metallico e poco gradevole. Ma anche tutti i comprimari faticano non poco a dar consistenza vocale a una vasta galleria di cammei: basti qui citarli tutti (la sbiadita Anùsuya di Nelya Kravchenko e il più sicuro Alessandro Vargetto, nel doppio ruolo di Durvàsas e Harita; insieme con Paolo La Delfa e Salvatore D’Agata, Salvatore Fresta e Filippo Micale) a dimostrazione dell’impegno profuso. Più interessante è la prova di Kamelia Kader, che tenta di infondere accenti di sensualità al personaggio di Priyàmvada, mentre Francesco Palmieri scolpisce con efficacia di tratti l’austero eremita Kanva, nel finale del secondo atto, conferendo al ruolo la magnetica autorevolezza indispensabile per la celebrazione della «funzione rituale come di sponsali». Diretto da Ross Craigmile, il coro rimane spesso sullo sfondo, con vocalizzazioni volte a creare mere suggestioni sonore.

Nel ruolo del titolo si cimenta Silvia Dalla Benetta, non senza adeguata coscienza della sua scomodità (sono noti i vani tentativi di Alfano di convincere un’artista del calibro di Mary Garden, che avrebbe dovuto schiudergli le porte dei teatri francesi) ma anche della sua tradizione interpretativa – su tutti non si dimenticherà lo storico contributo di Magda Olivero. Il soprano, ormai impegnata in un repertorio che ne valorizza l’impatto drammatico e la forte personalità scenica, delinea in crescendo la parabola di Sakùntala, facendo affidamento su un timbro tornito, ma soprattutto sulla bella proiezione di uno strumento che valica le asperità dell’orchestra e fluttua estatico e sognante nel gran finale del secondo atto, a partire dall’unico squarcio solistico («O nuvola… nuvola leggiera») che le viene riservato. Ed è limpido il canto che, risuonando «sull’animo del Re», nel finale risolve e riscatta la tragedia.

A reggere le sorti dell’intero spettacolo è Massimo Gasparon, che s’industria a cercare una cornice credibile per una drammaturgia che fonde esotismo e simbolismo in un intreccio tanto impalpabile quanto poco credibile. Sceglie per questo di non sovraccaricare di ulteriori segni scenici una vicenda che un apparato ridondante di didascalie vorrebbe sontuosa e – diremmo oggi – bollywoodiana, con fiori e profumi e incensi per evocare rigogliose foreste e tramonti infuocati. Il regista veneto opportunamente ignora queste suggestioni, che rischiano di diventare addirittura inquietanti nella scena finale, quando si invoca l’imminente epifania del «giovine eroe del mondo». Ma tutto questo lo porta a un grado zero nella direzione degli attori, che si accontenta di scene bicromatiche, dipinte alla maniera ottocentesca (con tanto di principali, quinte e fondali), mentre la vivacità di costumi dalle tinte (talora fin troppo) sgargianti assicura vivacità all’insieme. Erede della lezione di Pizzi, Gasparon coltiva un’estetica del tableau che, nel caso di un’opera che volutamente riduce l’azione, quando non vi rinuncia apertamente, può anche risultare condivisibile. Il risultato è gradevole e, forse, tanto basta: il destino di Sakùntala è già abbastanza avverso perché si possa gravarlo di altre sciagure…

Teatro Massimo Bellini – Stagione lirica 2016
SAKÙNTALA
Tre atti da Abhijñānaśākuntalam di Kālidāsa
Libretto e musica di Franco Alfano

Sakùntala Silvia Dalla Benetta
Priyàmvada Kamelia Kader
Anùsuya Nelya Kravchenko
Il re Enrique Ferrer
Il suo scudiero Paolo La Delfa
Kanva Francesco Palmieri
Un giovane eremita Salvatore D’Agata
Durvàsas Alessandro Vargetto
Harita Alessandro Vargetto
Un pescatore Salvatore Fresta
Una guardia Filippo Micale

Orchestra e Coro del Teatro Massimo Bellini di Catania
Direttore Nikša Bareza
Maestro del coro Ross Craigmile
Regia, scene, costumi e luci Massimo Gasparon
Catania, 16 novembre 2016

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