Una città e i suoi eroi. Catania, Vincenzo Bellini e Norma. È un rapporto controverso, quello che intercorre tra la città etnea, il suo genius loci e il suo capolavoro: era il 10 novembre del 1835 quando il pubblico catanese, rigorosamente vestito a lutto, per la prima volta scoprì il guerresco universo dei Druidi, doveroso tributo al Cigno prematuramente scomparso; era il 31 maggio del 1890 quando la sala del Teatro Massimo Bellini venne solennemente inaugurata sempre con Norma. Da allora a Catania sono passate tutte (o quasi) le grandi protagoniste dell’opera: Giannina Russ (1911) e Gina Cigna (1931, 1935), la seconda volta con la bacchetta di Gino Marinuzzi; e ancora Fidelia Campigna (1935) e Bianca Scacciati (1938), Maria Caniglia (1945) e Maria Callas (1950, 1951), Anita Cerquetti (1956) ed Elena Suliotis (1969), fino a Lucia Aliberti (1990), Fiorenza Cedolins (1999) e Dimitra Theodossiou (2004, 2007). E proprio sul palcoscenico dell’antico Teatro Greco-Romano era andata in scena, nel 2009, l’ultima edizione dell’opera, con June Anderson chiamata a inaugurare la prima edizione del Bellini Festival.
Alcuni anni sono passati da quell’esperienza. Oggi il Teatro Massimo Bellini, nell’ambito di una polivalente rassegna dal titolo “Bellini notti d’estate”, ha deciso di presentare una «spettacolare» Norma – così recitava il sito internet – per valorizzare uno dei tanti teatri di pietra della regione. Certo occorre interrogarsi sull’uso del monumento: e non già perché le inclementi condizioni del tempo, nell’ultimo scorcio del mese di settembre, hanno costretto a dislocare le due repliche dello spettacolo nella più consona sede del Teatro Massimo Bellini; ma soprattutto in considerazione della sistemazione oltremodo disagevole degli oltre milleduecento spettatori, arrampicati nella cavea in condizioni di sicurezza tutt’altro che rassicuranti. A ciò si aggiunga la singolare ubicazione del Teatro: che a differenza di tutti gli altri, presenti sul territorio siciliano, è stato inglobato nella ricostruzione tardo-barocca della città e risulta dunque attorniato – ma sarebbe meglio dire circondato – dalle aristocratiche architetture dei Palazzi Gravina-Cruyllas e Fasanaro, di cui però si ammirano non già le eleganti facciate, ma i poco attraenti e diroccati prospetti posteriori.
Ma anche abbassando lo sguardo sull’orizzonte della scena la situazione non migliora, e anzi palesa le difficoltà di allestire una produzione che, alla resa dei conti, risulta tutt’altro che spettacolare. Opportunamente anonimi, scene e costumi sono stati riciclati dall’ultima edizione catanese: e si limitano ad alcune, squallide sagome di alberi secchi e portali in pietra, le prime; a monocrome, informi palandrane i secondi, con bardature rosse per i soldati romani, in verità fin troppo simili ai moderni Power Rangers. Spira sull’insieme una sensazione d’antico, che trova riscontro non solo negli effetti di luci implacabilmente fisse, ma soprattutto nella regia di Giandomenico Vaccari, assente laddove dovrebbe intervenire (come nel caso del coro, costretto a interminabili, ripetitive sfilate, come usava nel teatro d’antan), ma fervida di idee per lo meno peregrine: tra cui primeggia l’apparire a ogni piè sospinto dei due pargoletti, che rimangono a scorazzare fin quando – deo gratias! – ascendono al rogo con i fedifraghi genitori. Ma gli errori si affacciano anche nell’abitazione della sacerdotessa (la seconda mutazione del primo atto), ove Norma, che inquieta s’aggira tra mezzi-busti d’età ellenistica (!) sempre provvista di un coltello da macellaia, fa accomodare Adalgisa a un tavolo da taverna e le offre un bicchiere di vino… Ed è impossibile non riflettere su quanto – oggi più che mai – sia difficile mettere in scena Norma: soprattutto nel caso di un allestimento che pretende di essere rassicurante e tradizionale, ma che accuratamente evita di affrontare i nodi della drammaturgia dell’opera.
Ma gli eroi latitano anche in punto musicale. Coro e orchestra conoscono a menadito la partitura di Norma, per averla eseguita fin troppe volte negli ultimi anni: ma proprio per questo si avverte la mancanza di chi decida di scavare tra le pagine del capolavoro, per rinverdirne i fasti e valorizzarne le ragioni. Avaro di sfumature, il coro, preparato da Ross Craigmile, insiste su un tono sempre stentoreo, che costringe spesso la sezione tenorile a sforare rispetto all’insieme. Sul podio sale Ivo Lipanovic, che adotta un’edizione in cui tutti i da capo vengono sistematicamente falciati: prassi ormai desueta, biasimevole sempre, ma in maniera particolare in un’occasione celebrativa come questa, che dovrebbe indurre a scelte filologicamente più accorte. Sonorità e agogica sono poco curate: sia nei Finali, in cui è tutto un clangore marziale di cadenze mozzafiato, sia nei momenti di più raccolta intimità (su tutti la cadenza del duetto femminile), che vengono invece rallentati, forse in cerca del bel suono, in realtà rinunciando a una più cogente coerenza drammatica. Ne risentono soprattutto i recitativi, che raramente sorreggono più vaste campiture sonore, per rimanere trascurabile momento di transizione verso le sezioni cantabili.
Di eroi è in cerca anche la scena. Sulla quale agiscono, nei ruoli di contorno, Sonia Fortunato (Clotilde) e Giuseppe Costanzo (Flavio), accanto al ruvido, scabro Oroveso di Abramo Rosalen. Ha il piglio dell’eroina Marina De Liso: che è un’Adalgisa sopranile ma consapevole, sempre musicale, attenta nella ricerca di accenti ben torniti. L’unico limite – ma non suo – di questa scelta è l’eccessiva somiglianza con il timbro della protagonista: laddove sarebbe auspicabile una più ampia diversificazione, per evitare la sensazione dell’unisono. Certo anche questa soluzione ha i suoi vantaggi: perché nel grande duetto del secondo atto crea una condizione di complicità tra le due donne, rafforzandone il vincolo di amicizia. Di gran lunga meno interessante e persuasivo il Pollione di Sung Kyu Park, per la genericità del fraseggio, per la sistematica elisione dello squillo acuto tenorile.
Ma poi un eroe compare all’orizzonte, anzi un’eroina: Norma. Ruolo tra i più impervi dell’intero repertorio, pone ogni volta innumerevoli quesiti sulle potenzialità richieste per interpretarlo: salvo accorgersi che, da Giuditta Pasta in poi, tanti sono i modi di presentarlo, quante sono le grandi interpreti del ruolo. Catania chiama questa volta un’interprete catanese, Daniela Schillaci, che però si è già cimentata con questo personaggio, in Italia e all’estero. Tra le pietre di questo storico teatro sembra quasi circolare un fluido, che ne fa una sacerdotessa granitica, scolpita nella roccia, pugnace come sa esserlo solo chi si confronta con le forze della natura. Per questo la sua Norma è stregata dalla luna: la splendida, sinuosa introduzione del primo flauto, Salvatore Vella, introduce una «Casta diva» tutta sul fiato, manovrato a regola d’arte. Ma da quando intona «Oh! Rimembranza!», la Norma della Schillaci compare in tutta la sua grandezza e si rivela per quel che è, trionfo di tecnica e di intelligenza interpretativa: perché è tutta giocata sul nitore di estatici filati, per il materno abbandono di «Teneri figli», ma soprattutto di un «Son io» tenuto ad libitum, alla maniera callassiana, autentico vertice drammatico da cui scaturisce il Finale ultimo; su una coloratura di forza sgranata con infallibile precisione, tanto da valorizzare perfino le screziature metalliche del timbro, che qui diventa vibrante arma contundente; su affondi nel registro grave («In mia man alfin tu sei») che preludono alla ricerca di una nuova dimensione, a una ritrovata intimità con Pollione («Qual cor tradisti») che è nostalgia di una felicità inattingibile. Così, l’interminabile, commovente legato di «Deh! non volerli vittime» diventa strumento per unire insieme le mille anime di cui trabocca il teatro, com-passione, passione comune, partecipe e condivisa: catarsi, in una parola, «oltre ogni umana idea».
Teatro Greco-Romano – Bellini notti d’estate
NORMA
Tragedia lirica in due atti su libretto di Felice Romani
Musica di Vincenzo Bellini
Pollione Sung Kyu Park
Oroveso Abramo Rosalen
Norma Daniela Schillaci
Adalgisa Marina De Liso
Clotilde Sonia Fortunato
Flavio Giuseppe Costanzo
Orchestra e Coro del Teatro Massimo Bellini di Catania
Direttore Ivo Lipanovic
Maestro del coro Ross Craigmile
Regia Giandomenico Vaccari
Catania, 23 settembre 2016