Nel Foyer dei Palchi, centrata sotto la statua di Puccini, la lunga fila degli sponsor tradizionali e recenti, il sovrintendente Dominique Meyer, il direttore Riccardo Chailly, il regista danese Kasper Holten, il protagonista Ildar Abdrazakov e, fuori scena, Paolo Besana, ufficio stampa del teatro, perfetto interprete di concetti e parole italiane e non. Davanti a loro gli altri personaggi: Pimen, Varlaam, il falso Dimitri…
Si presenta Boris Godunov di Musorgskij da Puškin, titolo inaugurale della stagione scaligera 2022/2023. La platea di addetti è folta, foltissimi gli operatori tecnici di questa “opera diffusa” che il 7 dicembre avrà la diretta su Rai1, si vedrà ovunque, dalla Galleria alle carceri a vari Paesi collegati in diretta e in differita. Un’operazione faraonica, che fa cantare tutti in russo, ospita artisti russi e propone un’opera magnifica nella sua prima stesura, l’Ur-Text di Musorgskij del 1869. Una versione troppo dura per contenuti letterari, crudezza narrativa, assenza di ruoli femminili per essere compresa dal pubblico dell’epoca. Riveduta dall’autore tra il 1871 e il 1872 con l’inserimento di tre scene e del cosiddetto “atto polacco”, viene poi riorchestrata da Rimskij Korsakov nell’edizione che va in scena nel 1896. È il Boris di grande successo che vola ovunque, divenendo anche un titolo riproposto varie volte alla Scala con bassi gloriosi e direttori famosi. E se in era sovietica non manca nemmeno una versione Šostakóvič, nulla resta più affascinante e significativo dell’Ur-Boris. Mentre l’opera era stata portata alla Scala da Toscanini già nel 1909 diventando la palestra di bassi e bacchette celebri, fra cui Claudio Abbado nel 1979, a noi è parso assolutamente superbo il Boris originario diretto nel 2002 (per la Scala in restauro) agli Arcimboldi da Valery Gergiev, lo stesso che firma una rara incisione Philips e nel 1992 porta l’Ur-Boris al Kirov. Per il 7 dicembre anche Riccardo Chailly torna al 1869.
Se da un lato il sovrintendente Meyer precisa i tempi di programmazione e la riconferma a fiato sospeso del titolo pochi mesi orsono, il regista danese Kasper Holten ricorda l’universalità di questa storia di potere, sangue, solitudine e follia, vero e proprio Leimotiv di tutti i tempi. Infatti l’allestimento di Holten punta sulla psicologia del protagonista e sull’universalità dell’accaduto che Puškin ambienta sullo sfondo del cosiddetto “periodo dei torbidi”. Per tutti lo sguardo è rivolto a Shakespeare, ai suoi fantasmi, ai suoi personaggi. Come nel Macbeth 2021. La regia divide l’opera in due atti e propone un finale a sorpresa. Ildar ascolta, ma è inquieto.
Ildar Abdrazakov, il più importante basso del momento (“senza un Boris, il Boris non si può fare”), è artista emerito russo e gronda gloria, medaglie, iniziative. Ha un suo festival arrivato al quinto anno e destinato alle grandi capitali ma soprattutto alle città meno importanti e magari prive di musica. Un modo per educare e portare bellezza. Metà bashkiro e metà tartaro Ildar, 46 anni di studio, glorie e passioni, è un figlio d’arte: padre regista e madre cantante. E apparso anche in film e sceneggiati tv, il suo modello è Šaljapin e il suo input artistico Samuel Ramey. Insomma nasce bene. Mentre da Ufa, sua culla adorata, arriva anche Nureyev che, figlio di un rude politruk contrario all’arte, è invece poverissimo: da ragazzino vende giornali e bottiglie vecchie per aiutare la madre, si fa da solo e da solo fugge al Kirov e poi in Europa per diventare un mito.
Quanto alla Scala, certo un bel coraggio. Titolo russo, interpreti russi, minacciosi consoli ucraini, la guerra e, come non bastasse, il fantasma di minacciati scioperi sindacali. Mais c’est la vie, tutto si ripete. Nel corso della conferenza di presentazione, il protagonista Abdrazakov, che conosciamo bruciato dal sacro fuoco dell’arte ma anche affettuoso, empatico, generoso, sportivo, alla mano, grato, pieno di amici, figli e passioni, pare in imbarazzo. E quando tocca a lui si limita a sottolineare la sua felicità (“sono l’uomo più felice del mondo”) per la Scala, il titolo e quella lingua russa che è la sua ma anche semanticamente legata alle parole. Stop. Il solerte Besana lo trascina via fendendo il popolo dei curiosi. A tutti vien tolta la parola: chissà dove potrebbero cascare le domande. Di solito fioccano interventi a curiosità. Ma oggi il fascinoso Ildar s’è dissolto, come i fantasmi di Macbeth o Boris. Rintanato nei mondi di una regia volutamente atemporale.
Ulteriori informazioni: www.teatroallascala.org