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I Capuleti e i Montecchi di Bellini in scena alla Scala. Protagoniste Oropesa e Crebassa

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Va in scena al Teatro alla Scala per 5 rappresentazioni dal 18 gennaio al 2 febbraio I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, secondo titolo d’opera della Stagione 2021-2022. Sul podio debutta Speranza Scappucci, che è intervenuta a prove iniziate sostituendo Evelino Pidò costretto ad abbandonare la produzione, e anche Adrian Noble debutta alla regia, con scene di Tobias Hoheisel, costumi di Petra Reinhardt, luci di Jean Kalman e Marco Filibeck, coreografia di Joanne Pearce. In scena debuttano come Giulietta Lisette Oropesa e come Romeo Marianne Crebassa, mentre Tebaldo è Jinxu Xiahou, Frate Lorenzo Michele Pertusi e Capellio Jongmin Park. Il Coro del Teatro alla Scala è diretto da Alberto Malazzi.

Quando Vincenzo Bellini compone I Capuleti e i Montecchi per la Fenice nel 1830 ha 29 anni: è la sua sesta opera (o settima a seconda che si conti separatamente Bianca e Gernando, la seconda versione di Bianca e Fernando) e precede i capolavori più noti: La sonnambula e Norma sono dell’anno successivo, I Puritani del 1835. La genesi dell’opera è avventurosa: a Bellini, che si trovava a Venezia per una ripresa del Pirata, viene richiesta in tutta fretta dall’impresario Lanari un’opera nuova per coprire la falla nella stagione aperta da Giovanni Pacini, che per quel Carnevale aveva incautamente accettato tre commissioni insieme e si trovava in difficoltà. Per finire in tempo il compositore fa ampio ricorso a materiali preesistenti: chiama a Venezia Felice Romani a scorciare e riadattare un suo libretto esistente, già utilizzato per Romeo e Giulietta di Nicola Vaccaj (sul tema esisteva anche un’opera di Zingarelli del 1796), attinge alla Zaira scritta per Parma l’anno precedente rimaneggiandone radicalmente i materiali, e per l’aria di sortita di Giulietta anche a Adelson e Salvini, il suo primo lavoro del 1825. L’opera, le cui parti principali furono modellate sulle voci di Rosalbina Carradori e Giuditta Grisi, riesce con un carattere suo proprio e se per la maggior parte presenta forme chiuse d’impianto tradizionale, colpisce per nobiltà e aderenza alla parola poetica del canto e nel finale sorprende con “la lunga scena del sepolcro ispirata al principio della massima flessibilità formale, che permette di seguire momento per momento i trapassi psicologici del personaggio principale” (Toscani). Proprio la novità del finale, che ai moderni appare tra i maggiori pregi dell’opera, sconcertò i contemporanei, che presero a sostituirlo con quello assai più convenzionale da Vaccaj sugli stessi versi. Così impose la Malibran nella ripresa scaligera del 1834 (nel ’31 era andato in scena il solo primo atto nelle serate di gala per la riapertura del Teatro dopo i lavori di ristrutturazione della sala) e così avvenne fino all’ultima ripresa dell’’800 alla Scala, nel 1861. Occorrerà attendere fino al 1966 (con riprese nel ’67 e ’68) perché l’opera torni alla Scala con la regia di Renato Castellani, le scene di Ezio Frigerio e Claudio Abbado a dirigere un cast favoloso ma certamente non filologico: accanto alla Giulietta di Renata Scotto e al Tebaldo di Luciano Pavarotti, la parte di Romeo era affidata a un tenore, Giacomo Aragall. Sarà Riccardo Muti nel 1987 (con riprese a Tokyo e Mosca negli anni seguenti) a riportare l’opera alla sua forma originaria, nello spettacolo di Pier Luigi Pizzi con le voci di June Anderson e Agnes Baltsa.

Ulteriori informazioni: www.teatroallascala.org

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