Giovedì 25 novembre, alle ore 10.00, Rai5 trasmette dal Teatro La Fenice di Venezia Maria de Rudenz di Donizetti, nell’edizione firmata nella stagione 1980/81 da Gianfranco De Bosio con la direzione musicale di Eliahu Inbal, le scene di Mischa Scandella e i costumi di Santuzza Calì. Protagonista Katia Ricciarelli, affiancata da Leo Nucci, Alberto Cupido, Giorgio Surjan e Silvia Baleani. Qui la presentazione di Roberto Mori
Nel corso del primo romanticismo, il romanzo gotico ha esercitato una notevole influenza sul melodramma. La vicenda di Maria de Rudenz è tratta per esempio dal dramma francese La nonne sanglante di Anicet Bourgeois e Julien de Mallian (1835), a sua volta tratto da un episodio di The Monk, un testo capitale della letteratura “nera” pubblicato nel 1796 da Matthew Gregory Lewis. Nell’opera di Donizetti, composta su libretto di Cammarano per la Fenice di Venezia, ritroviamo l’ambientazione medioevale, tipica della narrativa gotica, i cui luoghi privilegiati sono castelli, conventi e catacombe: spazi articolati, dominati dai contrasti di chiaro scuro e in particolare dalle zone d’ombra che ben si adattano ai colpi di scena. Alla base dell’orrore, in questo genere letterario, c’è sempre un peccato segreto, una colpa che riaffiora attraverso una trama contorta dove i protagonisti sono per lo più giovani donne perseguitate, religiosi peccatori, aristocratici arroganti.
La vicenda complicata e truce della Rudenz procede a colpi di scena e ruota intorno alla gelosia omicida di Maria – innamorata di Corrado Waldorf – nei confronti della rivale Matilde, della quale è innamorato pure Enrico, presunto fratello di Corrado. Abbandonata dall’amato in una catacomba e sopravvissuta, pugnalata dallo stesso e creduta morta una seconda volta nel corso dell’opera, Maria finirà con l’uccidere la rivale e con il suicidarsi. Nella riduzione librettistica, Cammarano cerca di temperare, per sua stessa ammissione, “la stranezza e gli orrori” della Nonne sanglante, e qualche tempo dopo arriverà persino a sostenere di aborrire un genere così “cruento e boreale”. Gli sforzi di edulcorare il soggetto non saranno tuttavia sufficienti per soddisfare i gusti del pubblico veneziano. Il 30 gennaio 1838 l’opera viene accolta da una tale ostilità che, dopo la seconda recita, sarà sostituita dalla vecchia Parisina. Malgrado ciò, prima di finire nel dimenticatoio, il lavoro circola per circa tre decenni. In epoca moderna la prima ripresa avrà luogo in forma concertistica a Londra nel 1974, mentre nel dicembre 1980 spetterà proprio alla Fenice il compito della prima messinscena.
Protagonista di quella storica ripresa è Katia Ricciarelli, che interpreta il ruolo ritagliato da Donizetti sulle qualità vocali e interpretative di Carolina Ungher. Il soprano veneto si trova più a suo agio nello stile cantabile e nel patetismo della cavatina iniziale che nei momenti di slancio e veemenza e nello stile “agitato”, quando deve tirar fuori le unghie e assumere i panni della giustiziera (quindi nel Finale I, nel duetto con Corrado del secondo atto e nella scena conclusiva). Nonostante gli acuti non siano sempre irreprensibili, in questa produzione Ricciarelli è ancora in buona forma vocale, sfoggia un timbro bellissimo e la sua prova, nel complesso, non manca di efficacia.
Un Leo Nucci non ancora quarantenne, all’epoca nella fase ascendente della carriera, sostiene la parte singolare e complessa di Corrado Waldorf. Un ruolo impegnativo, ideato da Donizetti per il baritono Giorgio Ronconi e diviso tra la dimensione aggressiva e brutale del vilain e quella dell’amoroso capace di abbandoni nostalgici e patetici. Nucci si fa valere per la freschezza del timbro, gli acuti facili, robusti, e – pur non avendo una istintiva adesione stilistica a questo repertorio – esibisce una linea di canto ben controllata, pur con qualche forzatura sul versante vilain.
Nella parte di Enrico, scritta per Napoleone Moriani – il tenore della malinconia e della “bella morte” – figura invece Alberto Cupido, che si impone più per la bellezza del timbro che per la varietà dell’accento e del fraseggio. Tra le parti di fianco, si distingue l’efficiente Rambaldo dell’allora emergente Giorgio Surjan.
Sul podio Eliahu Inbal, direttore di fatto estraneo a questo repertorio e, più in generale, poco portato al teatro lirico. Non mancano momenti drammatici di per sé efficaci, né qualche atmosfera di sapore romantico ben evocata, ma nell’insieme prevalgono l’uniformità, le pesantezze e la carenza di fantasia che hanno sempre contraddistinto le conduzioni operistiche del maestro israeliano.