Dopo il concerto capitolino al Quirinale, anche la natìa Napoli ha festeggiato gli ottant’anni di Riccardo Muti. Ma non nel Teatro e da un palcoscenico fra i più belli al mondo dove tante volte ha trionfato, a partire da quel lontano novembre 1967 dirigendo Bellini, Čajkovskij e Strauss, appena ventiseienne nell’era di Gui, Capuana, Ceccato, Rapalo e Sanzogno. Bensì nel luogo che più gli appartiene: il Conservatorio della sua prima formazione, il “San Pietro a Majella”, dal cui tracciato si ricordano i fondamentali maestri Vincenzo Vitale per la preparazione pianistica e il compositore Aladino di Martino per l’Armonia principale. Ad aver avuto l’idea e a formulare il primo invito accolto con gioia da Muti è stata l’Associazione “Ex Allievi del Conservatorio San Pietro a Majella” di Napoli, guidata dalla direzione artistica di Elio Lupi, all’indomani del Concerto di Capodanno 2021 nella Sala d’Oro del Musikverein di Vienna diretto per la sesta volta dal maestro alla testa dei Wiener Philharmoniker. Idea subito sposata con grande entusiasmo dal vertice della gloriosa Istituzione, Carmine Santaniello.
Ed è così che, in un unico pomeriggio, allievi, docenti e un pubblico rigorosamente a inviti si sono stretti attorno al maestro con una pluralità di iniziative articolate fra una rassegna fotografica multimediale (Tutto iniziò da qui…) curata del regista Riccardo Canessa nella Sala recentemente intitolata al maestro Muti, un’ulteriore mostra (L’architettura della musica) nel chiostro grande costituita da otto grandi pannelli fra passato, presente e futuro quale regalo simbolico del progetto di restauro dell’edificio, tanto auspicato dal maestro, finanziato dalla Regione Campania e realizzato dalla Soprintendenza. E di lì, a stretto giro, la presentazione nell’Auditorium della Sala Scarlatti del libro Le sette parole di Cristo di Massimo Cacciari (grande assente nell’occasione) e Riccardo Muti (edizione Il Mulino, 2020) moderata da monsignor Vincenzo De Gregorio, già direttore dei Conservatori di Avellino e di Napoli, abate della Cappella di San Gennaro, organista e maestro di Cappella del Duomo, dal 2012 Preside del Pontificio Istituto di Musica Sacra nonché Presidente onorario dell’Associazione “Ex Allievi del San Pietro a Majella”. E ancora, la consegna da parte del Rettore dell’Università Federico II, Matteo Lorito, del Premio “Guido Dorso” in edizione straordinaria, il dono della partitura del Boris da parte del figlio del direttore Ugo Rapalo («colui che mi ha insegnato – ha confessato Muti nell’occasione – semplicemente con un piccolo disegno il per me fin lì ostico setticlavio»), apertura della torta (con clamorosa scivolata durante il trasporto e coro di auguri filmata e sgradevolmente resa virale sul web lungo il passaggio ai piedi del palco solo perché il maestro voleva con generosità condividerla con le cantanti, i musicisti e con tutti al termine del concerto).
Tra i momenti più toccanti, la proiezione con i video-messaggi di auguri raccolti da Elio Lupi e formulati con parole di sincero affetto da alcuni dei tanti artisti di tutto il mondo che hanno avuto la possibilità di lavorare al suo fianco: il basso Ildar Abdrazakov, i baritoni Leo Nucci e Nicola Alaimo, il soprano Barbara Frittoli e il mezzosoprano Daniela Barcellona, il tenore Fabio Armiliato, la regista Liliana Cavani, il flautista Roberto Fabbriciani, il violoncellista Mischa Maisky, la violinista Anne-Sophie Mutter, il pianista e compositore premio Oscar Nicola Piovani, il direttore dell’Opera di Philadelphia Corrado Rovaris, l’étoile Luciana Savignano, Adua Veroni prima moglie di Pavarotti, il compositore Fabio Vacchi, Angelo Carrara Verdi, tre prime parti dell’Orchestra del San Carlo (il violino di spalla Cecilia Laca, la viola Antonio Bossone e il contrabbassista Ermanno Calzolari), i solisti dell’Orchestre National de France Maria Chirokoliyska e Patrick Messina, Helga Rabl-Stadler e Markus Hinteräuser, rispettivamente Presidente e direttore artistico del Festival di Salisburgo. E ancora: il violinista Daniel Froschauer e il contrabbassista Michael Bladerer in rappresentanza dei Wiener Philharmoniker, la sua Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, la Harusai Festival Orchestra di Tokyo il cui direttore, in giapponese, dopo avergli dedicato le note di Mozart ha annunciato l’imminente intitolazione dello stesso ensemble al maestro Muti. Quindi, i vertici della Chicago Symphony Orchestra James Smelser, Helen Zell e Jeff Alexander. Infine, sempre nella Sala Scarlatti, l’iniziativa in onore del genetliaco di Muti si è conclusa con un prezioso momento musicale affidato all’Orchestra Barocca del Conservatorio di Napoli diretta con esperta perizia da Antonio Florio. Solisti, l’arciliuto dell’ottimo Franco Pavan per il Concerto in Do maggiore di Nicola Ugolino e i due soprani dalle bellissime voci, Maria Grazia Schiavo e Rosa Feola, entrambe campane (partenopea la prima, casertana la seconda) e da sempre predilette da Muti. In programma, un’intensa staffetta di pagine di Scuola napoletana che ha visto brillare la Schiavo fra trilli, diminuzioni e fiorettature mozzafiato con le arie di maggiore impegno metrico-ritmico e virtuosistico (“S’io non t’amassi” dalla Caduta dei Decemviri di Vinci, “Cieca nave” dalla Ginevra principessa di Scozia di Sarro, “Volo il mio sangue a spargere” dall’Adelaide di Porpora), laddove la Feola si è invece distinta per la duttile densità della celebre “cantilena” di Scuola partenopea in Vinci (“Un guardo solo ancor” dal Trionfo di Camilla), Paisiello (“Da ‘mmiezo a’ li mustacce” dall’Arabo cortese) e nel Piccinni “francese” (“Ah, que je fus bien inspirée” da Didon). Perfette e magnifiche entrambe per la sensibilità d’espressione e le sfumature d’accento vernacolari, poi, nel delizioso duetto zoomorfo “E la vorpa che spisso acchiappava” dalla Semplice in arte di Pietro Alessandro Guglielmi.
Al centro e nel fuoco dell’incontro, come sempre e ben al di là dell’inutile rumore intorno alla scivolata sul parquet, le sue parole. E le sue battute, come quelle in apertura per rompere il ghiaccio nello sganciare da solo il microfono («Ce la faccio ancora») o una volta raggiunto il palco dopo la caduta frontale sul cartone con la torta («Nun è successo niente. Prima di farmi fuori, ci vuole molto»). E così, durante il colloquio con Vincenzo De Gregorio, crogiolandosi fra i ricordi partenopei ha raccontato: «Il mio maestro Antonino Votto, qui al Conservatorio di Napoli, mi diceva in napoletano “siente, quanno fai ‘a museca, si pienze troppo, è meglio che fai ‘o farmacista” perché la musica non è descrizione, ma evocazione. Il senso delle parole di Votto, – spiega – al di là della genuinità dialettale, era in realtà molto alto. Vale a dire: il cuore, come diceva Blaise Pascal, ha le sue ragioni che la ragione non può comprendere. Ecco il senso dell’incontro con il mio grande amico filosofo Cacciari e di questo volumetto che, confesso, non ho letto perché non amo leggere ciò che scrivo non essendo uno scrittore, così come non amo guardarmi in televisione perché, quando mi vedo dirigere, mi critico in una maniera molto decisa. Non mi piace esaminarmi. Il volume nasce dunque da un incontro molto netto, fra ragione e immaginazione. Personalmente? Ho un approccio alla musica molto scientifico, analitico, che poi si dissolve in un atto quasi improvvisatorio al momento dell’esecuzione. Ad esempio fra pochi giorni, a metà agosto a Salisburgo – anticipa – dirigerò per la prima volta la Missa solemnis di Beethoven. Sul pavimento del mio studio a Ravenna il pianoforte è circondato da diverse edizioni della partitura, dalla prima versione a stampa del 1827 alla moderna della Bärenreiter e, addirittura, da quella appartenuta ad Arturo Toscanini, con tante indicazioni minuziose. E questo perché ho iniziato ad analizzarla fin dal 1970: l’ho presa e l’ho lasciata, l’ho ripresa e lasciata più volte. In sintesi, non ho mai avuto il coraggio di eseguirla, non perché vi fossero problemi di tecnica che alla mia tarda età – sottolinea sorridendo – sono più o meno risolti, ma perché si tratta della partitura di un uomo sofferente, di un genio assoluto che in quel periodo forse scriveva anche la Nona Sinfonia e al contempo aveva mille problemi con il nipote da cui, poverino, veniva turlupinato in continuazione. Un genio che aveva problemi economici, affettivi, di salute. E scrive, essendo cattolico seppure un mangiapreti (scusi monsignore), il più grande monumento di preghiera a Dio che si possa immaginare, spingendola in atmosfere talmente alte da divenire pura metafisica. È qui che sento la difficoltà della partitura, nel cercare di tradurre in suoni il profondo dolore dell’uomo e del genio fra il tripudio del contrappunto e una ricerca espressiva spasmodica. Ne è sintomo quella “o” vocativa, disperata, che nessun testo del Miserere ha mai contenuto: ecco, questo mi ha spaventato, qui mi sono frenato. Cosa aggiungere di più in musica? Quella “o” forse racchiude il dolore dell’intera umanità? Ebbene, l’attenzione per il dettaglio e tutte queste cose io le ho imparate fra queste mura: ecco perché il “San Pietro a Majella” è per me un luogo sacro. Su questo palco ho fatto il mio primo esperimento con l’orchestra degli allievi. Da qui è partito tutto e, dopo Milano, ho potuto girare il mondo».
Poi parla del dipinto del Masaccio conservato al Museo di Capodimonte di Napoli che evoca fortemente quanto scolpito dai pentagrammi delle Sette parole di Cristo sulla Croce di Haydn, del doppio punto di vista messo a segno dal binomio Muti-Cacciari, delle ultime immagini dedicate dal volumetto alle processioni della Settimana Santa o dei riti funebri alla sua Molfetta e, dunque, dell’importanza del segno, in lui profondo, delle bande. Un segno che «riaffiora – osserva – nella marcia funebre dell’Eroica (che, si badi, contrariamente a quanto eseguito dai musicisti stranieri, non presenta in coda alcun rallentando), o in tante pagine del repertorio sacro e melodrammatico. Come a dire che, quando dirigo la Terza di Beethoven, mi immagino di essere alla guida della banda di Molfetta» confessa strappando un’ennesima risata. Poi torna a ribadire la centralità per la musica della città di Napoli, di cui auspica una migliore valorizzazione, si sofferma sulla predilezione di Napoleone per Paisiello e della sacralità del “San Pietro a Majella”. E cita un episodio per tutti. «Quando fui invitato negli anni Ottanta all’Università dell’Indiana per tenere un ciclo di lezioni – prosegue il maestro Muti – il direttore con orgoglio mi portò a vedere la grande sala per lo studio, riccamente accessoriata: due Steinway, tappeti, servizio bar, la tecnologia per l’epoca più avanzata. Al che io risposi: sono molto impressionato. Io ho studiato invece in un Conservatorio dove l’aula era un quarto di questa. Non c’erano tappeti, c’era una lampada al centro, poche sedie di paglia e un pianoforte a mezza coda. Però su quelle pietre io so che erano passati Paisiello, Mercadante, Rossini, Bellini, Donizetti e tanti altri. Lui? Non disse più una parola.
Ed è da questo spunto che voglio dire ai ragazzi: è un privilegio studiare in questo luogo “passaporto” per il mondo (come disse mia madre Gilda, “se sei nato a Napoli, il mondo ti rispetta”) o, almeno, se si tornerà a considerare la cultura come dovrebbe essere. Non l’evento – parola che io odio – né il passaggio delle star. Napoli non ha bisogno di questo. Ha solo bisogno di ritrovare le sue radici, che sono in questo luogo. E il mondo l’aspetta. Ora che il mio cammino, per dirla con Giuseppe Verdi, è giunto a sera, vorrei che tutto ciò accadesse». Infine si rivolge con tono fermo e altisonante ancora una volta ai giovani, agli allievi: «Ragazzi siate orgogliosi di essere in questo Conservatorio. Andate avanti perché abbiamo bisogno di musicisti seri. Ma, anche, di persone che conoscano la nostra storia».
Photo: Terry Linke