Intensa, scabrosa e sferzante, fra i più alti capolavori del teatro musicale del secolo XX. Ma anche, storicamente, titolo emblematico del violento scontro fra il potere del regime staliniano e la creatività artistica d’avanguardia nella Russia del primo dopoguerra – celebre, a tal merito, l’articolo contro l’autore Dmitrj Šostakovič pubblicato il 28 gennaio del 1936 con il titolo “Caos anziché musica” sulla Pravda e la risposta, riparatrice, della V Sinfonia – così come, sul piano tematico, moderno gesto libertario verso l’appagamento dell’eros a fronte di una società egoista, lasciva e corrotta.
È la Lady Macbeth del distretto di Mtsensk, opera in quattro atti e nove quadri scritta dal compositore russo fra il 1930 e il 1932 sul libretto di Aleksandr Prejs da una novella di Nikolaij Leskov, che dal 15 al 22 aprile e a diciotto anni di distanza torna al Teatro San Carlo di Napoli tagliando un bel traguardo con l’allestimento in prima italiana e a forte impatto creato nel 2006 da Martin Kušej per il National Opera Ballet di Amsterdam, con le scene di Martin Zehetgruber e i costumi di Heide Kastler.
Uno spettacolo folgorante, applaudito anche a Madrid e a Parigi, nell’occasione ripreso da Herbert Stöger che, da diciannove anni collaboratore del premiato regista d’avanguardia, ne conserva entro il giusto equilibrio fra naturalismo e astrattismo l’integrità dei dettagli, compresa la crudezza dei quadri secondo e terzo del primo atto, corrispondenti al beffardo stupro di massa da parte dei lavoranti del podere degli Ismajlov ai danni della cuoca Aksinja e all’esplicito amplesso fra Sergej e Katerina svelato a colpi di luci stroboscopiche. Scena dello stupro che, nei primi giorni di prova, non ha mancato di suscitare una brusca reazione da parte di alcune artiste del Coro della Fondazione e, a seguire, questione risolta secondo quanto assicurato dal direttore artistico del Lirico napoletano, Paolo Pinamonti, nel corso della conferenza stampa di presentazione.
Tutti specialisti, intanto, gli interpreti del cast, guidato dal basso Dmitry Ulianov in alternanza con Vladimir Vaneev per dare voce e forma al vecchio mercante Boris Ismajlov, dal tenore Ludovit Ludha per Zinovi Ismajlov, figlio di Boris e marito della protagonista, dal soprano Natalia Kreslina (poi Elena Mikhailenko) per Katerina Ismajlova e dal tenore Ladislav Elgr (quindi Ian Storey) per il lavorante degli Ismajlov, Sergej, l’uomo che seduce l’insoddisfatta Katerina e per il quale lei compirà ben tre omicidi, suicidandosi al termine. Sul podio dell’Orchestra e del Coro del Teatro San Carlo, più il Coro Maschile del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo (preparati dai rispettivi maestri Marco Faelli e Andrei Petrenko), ci sarà il direttore musicale principale Juraj Valčuha, alla sua prima Lady Macbeth.
Al centro della regia di Kušej, due estremi del comportamento umano: “Orgasmo e assassinio, ossia, agli antipodi di amore e odio, i due rapporti fondamentali fra gli esseri umani. È una tragedia – spiega nelle note di regia l’artista austriaco classe 1961, nel 1999 3Sat Innovationspreis per la sua brillante attività d’avanguardia sia nella prosa che nella lirica e, dalla stagione 2019/2020, direttore del Burgtheater di Vienna – che suscita poca pietà e nessuna paura. Quello che più mi interessa in questa opera? È l’insieme di eros e sensualità che, quando viene messo sotto pressione dalle strutture di potere e dipendenza, sfocia in una forma particolare di impotenza, di aggressività repressa e di energia criminosa”.
Come sottolineato d’altra parte da Pinamonti, l’opera, importante per molteplici ragioni di ordine sia storico che di stile, verte su uno spunto essenziale: la capacità che ebbe Šostakovič di porre in musica un tema che il teatro musicale non aveva fino ad allora mai osato trattare: quello del desiderio, della sensualità e dell’erotismo come aspetto fondamentale dell’essere umano, tra l’altro all’interno di un’opera concepita quale tassello di una trilogia sulla condizione femminile nella Russia prerivoluzionaria secondo un progetto purtroppo interrotto in seguito alla violenta repressione legata alle accuse mosse da Stalin. Sentimento che avrebbe fatto della stessa Katerina l’unico, vero personaggio onesto dell’opera.
Importante, in tal senso, quanto espresso dallo stesso compositore sovietico: “Katerina non è una donna crudele; al contrario è un essere intelligente e appassionato che soffoca nel grigiore della vita e dell’ambiente crudele e volgare in cui è costretto. Non ama il marito e non conosce la minima gioia […]. Ma improvvisamente appare Sergej, assunto dal marito come servo. Ella se ne innamora, sebbene questi sia in realtà un individuo debole e meschino, e trova nel suo amore la felicità e uno scopo alla vita. Per il possesso di Sergej ella commette una serie di delitti. Quando Boris Timofeevič, il suocero, sorprende il servo mentre esce dalla camera di Katerina e lo fa frustare, ella avvelena il vecchio per vendicare le torture inflitte all’amante. Quando poi Sergej le dichiara che non può dividerla con altri e che vuol diventare suo sposo, ella assieme a lui uccide il marito. Innamorata di Sergej, Katerina gli sacrifica tutta se stessa […]. Quando, dopo la scoperta dell’assassinio, viene condannata ai lavori forzati in Siberia assieme a Sergej ed egli la tradisce vilmente con un’altra prigioniera, Sonietka, la sua rivolta è pari alla sua sofferenza: annega la rivale nel fiume e muore con lei perché la sua vita, senza l’amore di Sergej, ha perso ogni interesse. Questi non sono veri e propri delitti, ma una ribellione contro il proprio ambiente, contro l’atmosfera pesante, grigia e disgustosa di quel mondo di mercanti del secolo scorso”. E a seguire, infatti, confessa: “Tutta la musica che ho scritto per Katerina vuole essere una difesa di colei che mi appare, per dirla con le parole di Dobroljubov, un raggio di luce nel regno delle tenebre”.
Katerina è infatti l’unica luce, l’unico personaggio autentico che sopravvive sullo sfondo di un mondo oppresso dall’egoismo e dall’ignoranza. Un mondo che, nella produzione di Kušej, è infatti rappresentato chiuso fra alti muri, con cani sciolti e coristi in mutande e piedi seminudi in acqua e fango. Attorno alla protagonista, l’atmosfera è ferma: il marito apatico, il suocero avido e lussurioso, l’amante inaffidabile, i contadini frustrati e moralmente fuori controllo, il pope venale, i poliziotti attaccati al vile denaro. È un contesto sporco, da cui non c’è possibilità di fuga, come osserva Herbert Stöger. Katerina vive dunque nella sua gabbia dorata: ha tutto, una vita agiata e un ricco patrimonio avendo sposato Zinovi, figlio del ricco mercante Boris. Ma le manca l’amore e lei, giovane innocente, attraente, lo cerca al di fuori di quel suo mondo fermo, con tutte le conseguenze nefaste del caso. La produzione di Kušej ripresa da Stöger punta dunque sulla sua solitudine e sulla forza del gesto drammatico per liberarsene. E, per farlo, ben oltre le parole del libretto, va direttamente ad agganciarsi alla potenza, all’ironia corrosiva e ai nervi scoperti di una partitura in gran parte da intendersi per via antifrastica, così come evidenziato sempre in sede di conferenza stampa dal direttore Valčuha sottolineando la maggiore scabrosità delle note rispetto non solo al testo, ma a quanto si vede effettivamente in scena, nonché spiegandone la lettura su un duplice livello, oltre le apparenze. È il caso di quando Sergej dichiara di essere un uomo molto sensibile in parallelo a una musica secchissima, affidata solo a due clarinetti e a un fagotto per una polka d’ufficio, o quando il popolo si dice triste salutando la partenza del figlio di Boris sullo sfondo sonoro di un accattivante ritmo di valzer, così come sarcastico appare anche il motivo dei legni che accompagna la morte del tracotante e lascivo suocero Boris.
Per il resto, sempre come ribadito dal direttore d’orchestra slavo, dietro a quei pentagrammi c’è tanto altro ancora: innanzitutto i circuiti culturali dell’avanguardia pietroburghese con personaggi del calibro di Majakóvskij, Malevich e Ėjzenštejn, il pieno successo nei due anni precedenti all’articolo sulla Pravda, con quasi duecento repliche fra Leningrado e Mosca, la grande ammirazione per le forme adottate nelle opere di Alban Berg (Wozzeck e Lulu), dalla polka al valzer, dalla passacaglia al galop o alla romance, l’imponente coralità secondo la lezione di Musorgskij.
Infine, garantendo il massimo impegno per l’alta qualità della produzione di Amsterdam e tornando a gettare acqua sul fuoco delle scene più piccanti o violente, che comunque occupano una parte minima all’interno dello spettacolo, i vertici del San Carlo e lo stesso curatore della ripresa hanno ribadito l’importanza di una forma di teatro che, ben oltre il mero intrattenimento, possa accendere nel pubblico un motivo di confronto, discussione e riflessione. Anche attraverso il turbamento.
Photo credit: Francesco Squeglia