Si può anche pensare di raccontare la favola naïf del talento genuino sceso dalle vette dolomitiche. Perché è comoda e fa audience. Solo che nel caso di Chiara Isotton più dei monti pallidi e dell’enrosadira hanno potuto impegno, lavoro costante e disciplina. Heidi è rimasta sui monti, Chiara ha scelto la città e il suo sogno. 38 anni, una lunga gavetta come comprimaria di lusso, il soprano bellunese è ora in uno snodo importante della carriera. “Se è un sogno, vi prego, non svegliatemi” sorride. Consapevole della bellezza ma anche della responsabilità che tutto questo implica. Proiettata in un repertorio da lirico spinto che l’ha vista al debutto in Tosca alla Fenice, Tokyo e Piacenza, Fedora alla Scala e al Metropolitan di New York e, da pochissimi giorni, acclamata Maddalena in Andrea Chénier alla Scala, presto Margherita nel Mefistofele a Toulouse, poi Suor Angelica a Tokyo, Fanciulla del West a Lione e Fiora nell’Amore dei tre re di Italo Montemezzi ancora alla Scala. Con questi traguardi e la crescente fiducia dei teatri, Isotton si candida a essere uno dei soprani italiani di riferimento per un repertorio non facile, non esente da insidie, ma che oggi sembra calzarle come una veste al corpo.
La sua storia è la dimostrazione che La Scala sa essere generosa.
La considero la mia seconda casa. Sono arrivata come allieva all’Accademia, ho avuto occasioni preziose già durante gli anni di studio. E devo dire che il teatro non si è mai dimenticato di me, dandomi la possibilità di crescere con ruoli minori al fianco dei grandi. Poi sono arrivati due ruoli bellissimi come Fedora e Maddalena di Coigny. Ho potuto debuttarli qui e non c’è gioia più grande. Quindi, semplicemente grazie a questo luogo meraviglioso che tanto mi ha aiutata e che spero di poter ripagare.
Sia in Fedora sia in Chénier ha avuto la possibilità di lavorare con Marco Armiliato
Avevo conosciuto il Maestro alla Scala per un concerto di Edita Gruberova in cui cantavo i ruoli comprimariali, poi ci siamo ritrovati a Salisburgo per una generale di Tosca in cui ero chiamata a sostituire Anna Netrebko. Da lì ci siamo ritrovati in Fedora alla Scala dove ero cover e ho fatto una recita e al Met, infine questo Chénier. Ho avuto una fortuna sfacciata: avere una bacchetta di fiducia nei momenti cruciali di una carriera penso sia fondamentale e ho trovato un interlocutore sulla stessa lunghezza d’onda. È bello perché quello che facciamo supera l’attenzione alla precisione musicale e all’emissione giusta. È gioia pura. E credo che il pubblico questo lo senta.
Cosa succede quando si esce dall’Accademia?
L’Accademia è un’impagabile scuola di vita e di arte, un vero trampolino. Certo che, una volta usciti, inevitabilmente ci si ritrova ad affrontare da soli un mondo per cui non sempre si è preparati. Io poi venivo “dai monti” (ride) e non avevo molto chiaro il sistema. La cosa molto importante è avere dei punti di riferimento validi, ma bisogna essere chiari: senza agenzia non si lavora. Per fortuna ho incontrato Luca Targetti, che mi ha guidato nei primi anni di carriera.
Perché ha lasciato Milano per Firenze?
Milano è la città che ha realizzato il mio sogno, a cui sarò sempre legata, e quando torno per cantare mi godo tutte le possibilità di un luogo così adrenalinico. Ma io sono, nel profondo, una ragazza di provincia. Ho bisogno di una realtà a misura. A Firenze sono immersa nell’arte e in un paesaggio meraviglioso. E anche il clima è migliore e più clemente.
Come è stato il debutto al Met?
Improvviso! Ero a New York come cover e stavo facendo le valigie per tornare in Italia. Per fortuna, avevamo lavorato a lungo e ho avuto la fortuna di montare lo spettacolo con David McVicar. Aveva dato un taglio bellissimo all’allestimento. Ho trovato un clima di lavoro costruttivo e sereno. Non speravo in una recita e poi è arrivata questa bella sorpresa. In scena avevo fatto solo l’audizione, ma in buca c’era Marco Armiliato, il Met è un teatro con efficienza incredibile e l’acustica è perfetta.
Nella sua vita c’è già stato un 7 dicembre, come dama di Lady Macbeth nel 2021
Una delle produzioni più intense che abbia fatto, anche se il mio era un ruolo di assoluto secondo grado si sente comunque una pressione totalmente diversa. Quando ascolti l’inno nazionale sai che stai prendendo parte a una serata che resta nella storia. E lo capisci anche quando i poliziotti del picchetto ti fanno da sbarramento e devi spiegare che devi entrare per cantare! Lavorare con Anna Netrebko è stato illuminante, non ci si rende conto della grandezza vera di questa donna se non la si conosce di persona. È un’artista che entra in palcoscenico e diventa una calamita.
Quali sono i teatri che ama di più?
La Scala sarà sempre la mia casa, mi ci sono formata, resterà sempre un legame importante. Anche La Fenice è un posto in cui ho delle memorie stupende, e in cui spero tanto di tornare presto. E il Met è stato un sogno che diventa realtà. In modalità diverse, però, tutti i teatri in cui ho lavorato restano scolpiti nella memoria.
Cosa ha conservato della sua natura dolomitica?
Sono tosta e non mi abbatto mai. Porto sempre con me le foto della Schiara: traggo energia dalle mie montagne, mi vedo solida come il paesaggio in cui sono nata.
Quando non canta e non studia?
Ho un cerchio di persone vicine con cui cerco di passare il tempo libero. Credo che una grigliata tra amici sia più terapeutica di un mese di psicologo.
Riflettori, palcoscenico e cura di sé. Pressioni per adeguarsi a una certa immagine?
Sono nel dna una ragazza semplice, sono fermamente convinta che noi saliamo su un palcoscenico e abbiamo un dovere, quello di presentarci al nostro meglio per dare credibilità al personaggio che dobbiamo interpretare. Mi sono sentita ripetere più volte che dovevo perdere qualche chilo e l’ho anche fatto perché ritenevo mi portasse a migliorarmi. Senza esagerare però. Il discorso moda è molto soggettivo. È giusto essere fashion se lo si sente, ma è fondamentale non snaturarci.
Da più parti si è scritto che lei è arrivata con colpevole ritardo (dei teatri) ai grandi ruoli. È d’accordo?
Onestamente no. Sono per la politica dei piccoli passi. Quelli che ti insegnano davvero a essere sicura in palcoscenico, che ti consentono di maturare i ruoli e le responsabilità nel tempo. Oggi ritengo sia giunto il momento di abbracciare parti come Fedora, Maddalena, Fanciulla del West. Tengo a dire che c’è un’idea molto sbagliata legata al verismo, non è la fiera dell’urlo. Un approccio belcantista è indispensabile, serve certo il peso giusto ma affrontare questo repertorio di forza non è quello che questi autori ci chiedono.
Photo copertina: Michele Monasta