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Riccardo Zanellato debutta nei “Vespri” a Bologna: “Il mio Procida? Un paladino della legalità”

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Le faide non hanno tempo. Il sangue e il dolore sono eterni. È così che la rivolta dei Vespri Siciliani diventa metafora di una lotta sempre attuale, che sacrifica i suoi eroi sull’altare della legge. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, i martiri di un tempo violento che non conosce giustizia escono dalle pagine della cronaca per entrare nel libretto di Scribe e Duveyrier e dare sostanza contemporanea all’opera di Giuseppe Verdi nella lettura di Emma Dante per I Vespri in scena al Comunale Nouveau di Bologna. L’opera segna il debutto di Riccardo Zanellato, basso nobile par excellence, nel ruolo di Giovanni da Procida. “Credevo che il massimo grado di difficoltà fosse Zaccaria. Forse mi sbagliavo” sottolinea alla vigilia della première bolognese.
La produzione nasce come versione “italiana” de Les Vespres dati al Massimo di Palermo. Cambia la lingua, non la sostanza.
“Il mio personaggio, paladino della legalità, combatte contro nemici che non sono più i Francesi invasori ma le cosche mafiose. Ho cercato di portare in scena la mia idea del personaggio e mi pare che a Emma Dante sia piaciuta. Credo sia una visione stimolante e contemporanea, collegata alla figura del grande patriota in difesa della propria terra come lo sono coloro che lottano per la legalità”.

Procida libertador però ha anche dei lati oscuri.
Non è un buono, è un rivoluzionario che sa mantenere l’odio come forza vitale fino alla fine. È votato alla causa, non ha mai cedimenti o debolezze umane ed è anche il detonatore della rivolta. Sa quali tasti toccare: l’onore e le donne. È divorato dal senso di vendetta, ritiene che ogni soluzione sia onorevole pur di ottenere la vittoria finale.

Vocalmente come ha affrontato questo debutto?
Studiando! Musicalmente c’è la possibilità di fare i colori che piacciono a me. È un ruolo che però chiede di rispettare tutta la gamma del basso, con momenti di impeto e momenti di passione, frasi disperate come “Addio, mia patria”. È una parte che mancava al mio catalogo verdiano, ed è una delle più interessanti e sfidanti.

Questo debutto arriva dopo trent’anni quasi di carriera: non semplice allestire una produzione di Vespri.
È un grand-opéra che coinvolge masse artistiche ampie ed è molto dispendioso, servono quattro personaggi a tutto tondo. Per noi cantanti è quasi stremante. Sono ruoli portati al limite: Verdi ovviamente sa quel che fa e non supera mai il limite, pur arrivandosi piuttosto vicino. Pensavo che il ruolo più ostile fosse Zaccaria, ma questo si porta molto vicino. Per esigenze di cartellone il montaggio è stato serrato. Io avrei preferito avere qualche prova in più, trattandosi di un debutto. Ma l’intesa e la volontà di fare il massimo c’è sia sul palco sia in buca. Cercheremo di dare il meglio anche se mi manca moltissimo, dal punto di vista acustico, il Comunale di Bologna, teatro a cui sono particolarmente legato.

C’è qualche interprete a cui si è ispirato?
Inizialmente l’opera doveva essere portata in scena senza tagli. Mi sono così riferito alla lezione di Riccardo Muti con Ferruccio Furlanetto che mi è piaciuta molto. L’aria staccata che amo di più è quella cantata dall’immenso Cesare Siepi, purtroppo non sono riuscito a trovare un’integrale con lui. Voglio citare un’altra edizione che mi sta a cuore, quella che il mio maestro Bonaldo Giaiotti ha cantato qui a Bologna, ed è stata l’ultima nel palinsesto del teatro prima della nostra.

Archiviati i Vespri?
Parto per Ginevra dove torno con Nabucco, dopo più di un anno. Mi ero preso una pausa da Zaccaria, ho cantato altri ruoli ma ora torno a questo titolo cui devo molto.

Tra il serio e il faceto, lei ripete spesso che è Verdi a pagarle lo stipendio.
È la verità. Verdi è un mondo incommensurabile, per uno come me patito per le sfumature, le rifrazioni, la musica e la parola scenica offrono possibilità molto ampie all’interprete.

Il ruolo verdiano più amato?
Filippo II. Dentro quella grandezza, dentro quel tormento ci siamo un po’ tutti noi, alla fine senza difese di fronte all’amore.

Un diploma in chitarra classica, il coro della Julia durante il militare e la scoperta della voce: oggi come vede le nuove generazioni?
Ultimamente tengo diverse masterclass e posso dire che a livello musicale e di percorso i giovani cantanti sono generalmente più preparati rispetto alle generazioni precedenti. C’è però il tema dell’autocritica che è un tasto assai dolente. Mi piacerebbe vedere più umiltà.

Se le dico Riccardo Muti?
Le racconto il nostro primo incontro. Ero stato chiamato per il secondo cast di Iphigènie (nel ruolo di Calcante), al primo giorno rivedo alcuni colleghi dopo anni e quindi vado a salutarli. Arriva il maestro, silenzio assoluto in sala: lui guarda il cast, l’orchestra e chiede: chi è quell’energumeno là in fondo? L’energumeno ero io!

È nato però un sodalizio importante…
Non gli dirò mai grazie a sufficienza. Lavorare con lui è un privilegio ogni volta perché lo scavo, il senso del lavoro in scena sono per me fonte di continua ispirazione.

C’è un ancora un momento di meraviglia dopo tanti anni di palcoscenico?
Il rapporto con il pubblico. È il sale di questa professione: ci sono teatri, soprattutto in Oriente, dove a fine recita le persone attendono per conoscerti, farti un complimento, o chiedere un autografo. Sono momenti preziosi, anche se non è sempre così. In altri, la maggior parte degli spettatori alla seconda alzata di proscenio è già quasi al parcheggio.

Come si immagina tra vent’anni?
Credo in viaggio, per rivedere tutti i luoghi meravigliosi in cui la professione mi ha portato ma che il lavoro mi ha impedito di visitare a fondo. Oppure in una casa in riva al mare, magari in Sardegna dove vive la mia attuale compagna, passeggiando con il mio cane.

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