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La mia sfida? trasmettere al meglio la nostra tradizione – Intervista ad Andrea Solinas

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Ecco uno dei tanti esempi di talenti italiani che si stanno facendo le ossa all’estero per poi tornare in Italia. Andrea Solinas, pianista e direttore d’orchestra, l’8 e 10 giugno sarà sul podio dell’Orchestra del Teatro Comunale di Sassari per inaugurare la stagione 2023 con Cavalleria rusticana di Mascagni. Il suo ritorno in Italia lo vedrà per di più impegnato nella città che gli ha dato i natali e dove si è formato e diplomato.
Finalista del 4° Concorso internazionale di direzione d’orchestra BMI in Romania nel luglio 2022 e vincitore del Premio speciale dell’orchestra sinfonica di Bucarest, la sua carriera di direttore d’orchestra si è avviata in Italia come assistente di direttori quali Bruno Nicoli, Francesco Ivan Ciampa, Jordi Bernàcer, Riccardo Frizza e John Axelrod. Poi, affiancando il maestro Gianluca Marcianò, ha intrapreso una intensa attività con il Serbian National Theatre di Novi Sad, dove dal giugno del 2019 è diventato principale direttore ospite e ha debuttato in diverse opere: Rigoletto, Faust, La bohème, Madama Butterfly e Aida.
Dopo tournée in Cina con la Serbian National Opera Theatre Orchestra, nel 2020 inizia a dirigere in Turchia, prima al Teatro dell’Opera di Samsun e poi in quello della capitale, ad Ankara, dove ha diretto titoli come Cavalleria rusticana, Pagliacci, Un ballo in maschera e Tosca.
Torna in Italia alla fine dello scorso anno, nella sua regione, per un Elisir d’amore di Donizetti portato in diverse città della Sardegna in collaborazione con Teatro Lirico di Cagliari, e ora lo aspetta la sua città, Sassari, dove il nuovo direttore artistico dell’Ente Concerti “Marialisa de Carolis”, Alberto Gazale, lo ha voluto per aprire il cartellone con un titolo da lui più volte diretto all’estero. Lo abbiamo incontrato per conoscere meglio il suo percorso artistico alla luce dei debutti operistici già avvenuti.

Maestro, cosa ha significato per lei approdare alla direzione d’orchestra dopo anni di studi avvenuti come accompagnatore di molti cantanti in qualità di pianista?
È un percorso che ritengo graduale ai fini di una formazione musicale completa nel mondo dell’opera. Solo attraverso il lavoro da maestro collaboratore si imparano certi accorgimenti che altrimenti sarebbero impossibili o richiederebbero maggior tempo nell’acquisirli. Il lavoro che si svolge con i cantanti, o anche solo la comprensione del gesto dei diversi direttori d’orchestra con cui ti rapporti ogni volta, formano un bagaglio di conoscenze davvero fondamentali.

Come è arrivato alla direzione d’orchestra?
In qualità di pianista solista sentivo l’esigenza di condividere con più musicisti il semplice far musica, così ho iniziato a suonare con altri piccoli gruppi cameristici e ad accompagnare molti cantanti. Suonando il pianoforte all’interno dell’orchestra ho appreso la bellezza del suono sinfonico e così ho iniziato a studiare direzione. Il teatro mi ha aiutato tanto perché ho avuto la possibilità di lavorare a stretto contatto con grandissimi direttori che mi hanno dato maggior motivazione nell’intraprendere questo favoloso percorso artistico.

Ci sono direttori della tradizione italiana con i quali ha collaborato, o quelli dei quali conosce particolari interpretazioni, che le sono serviti per maturare la sua personale visione di direttore d’orchestra?
Lavorando in teatri importanti è facile collaborare con grandi direttori. Uno dei miei preferiti rimane sempre Riccardo Muti: la sua fedeltà alla partitura e il suo studio meticoloso, specie per le opere di Verdi, rimangono per me il miglior esempio su cui lavorare ogni giorno. Altri direttori italiani sono per esempio Riccardo Frizza, con il quale ho imparato molti aspetti sul repertorio belcantistico, Marco Armiliato su quello verista o anche Daniel Oren per il repertorio pucciniano.

Come deve porsi oggi un direttore d’orchestra nei confronti dei nuovi meccanismi esecutivi del moderno teatro d’opera, profondamente cambiato rispetto al passato (mi riferisco al sempre limitato numero di prove e al poco tempo per maturare una visione musicale più approfondita)?
Un aspetto che non studi al conservatorio e tantomeno sui libri è quello di saper utilizzare al meglio il tempo che si ha per le prove, specialmente per le letture d’orchestra. Grazie all’esperienza si matura una miglior gestione del lavoro in modo più produttivo. Ormai le qualità tecniche delle orchestre sono migliorate nel tempo e quindi un direttore sin dalla prima lettura può già lavorare sugli aspetti interpretativi tralasciando correzioni che prima erano all’ordine del giorno. Avendo dunque meno tempo per lavorare con l’orchestra non mi soffermo tanto sul “quanto” ma sul “come”: in questo modo il punto di volta non sta tanto sulla quantità delle prove ma sulla loro qualità.

La scelta di lasciare l’Italia è stata voluta o casuale?
È stata improvvisa e non mi ha pesato assolutamente. Ho sempre valutato l’idea di trasferirmi all’estero, sono stato in Germania più volte per audizioni ma il destino aveva altre destinazioni in serbo. Una chiamata veloce nel 2019 come assistente al Serbian National Theatre di Novi Sad e poi tutto è iniziato…

Ci parli della sua esperienza in Serbia e in Turchia. Come viene percepita in quei Paesi l’opera e in che modo l’esempio italiano, con i suoi modelli e la sua tradizione, fa ancora tendenza?
Ogni volta che ho una produzione all’estero è sempre una sfida personale che accetto molto volentieri. La mia responsabilità in quel momento consiste nel saper trasmettere al meglio la mia passione per la musica del mio Paese, lavorando sui dettagli non solo con le masse artistiche (orchestra e coro) e i cantanti solisti, ma anche con i maestri collaboratori che in teatro hanno una grandissima importanza; se in un teatro ci sono bravi pianisti, il lavoro che dovrà svolgere un direttore d’orchestra sarà indubbiamente avvantaggiato. Serbia e Turchia hanno differenti tradizioni culturali e musicali ma in entrambi i luoghi ho sempre trovato persone entusiaste e disponibili ad accogliere la mia visione musicale. In definitiva, solo quando si instaura una certa sinergia con tutto il teatro che mi ospita (regista compreso), ecco che in quel caso avviene la magia.

Per un pubblico e per nazioni che non hanno una tradizione e una cultura operistica specifica, portare il nostro repertorio penso richieda un impegno maggiore. Glielo chiedo riferendomi da un lato alla ricezione del pubblico, dall’altro all’approccio esecutivo, che immagino richieda una cura particolare. Ce ne vuole parlare?
Come dicevo prima, la mia sfida si basa sull’impegno che devo mettere per trasmettere al meglio la mia tradizione. In generale ho sempre trovato un pubblico “affamato” di buona musica, specialmente in questi due/tre anni di pandemia. Delle volte penso che sia indispensabile una buona preparazione al nuovo pubblico di domani e quindi una maggior sensibilizzazione da parte delle scuole e degli enti preposti responsabili alla divulgazione degli aspetti culturali. Purtroppo mi è capitato delle volte di dirigere un’opera e notare che all’ultimo atto fossero rimasti in pochi in platea perché non erano a conoscenza del terzo o quarto atto e avevano lasciato il teatro prima. Per quanto riguarda l’approccio con i musicisti, manca molto spesso una giusta prassi esecutiva, differenziando il timbro e le dinamiche in base al diverso compositore che si affronta. Un forte rossiniano non può essere paragonato a un forte pucciniano, e, anche per quanto riguarda gli aspetti vocali, punto molto allo stile interpretativo e al fatto che i portamenti non possono essere utilizzati indistintamente nel repertorio verista come nel repertorio del primo Ottocento.

L’ossatura del repertorio operistico da lei fino ad oggi affrontato vede il ricorrere di titoli del verismo e di Puccini. Cosa la affascina di questo linguaggio operistico?
L’opera è vita. Sul palco e in buca percepisci nuovamente le emozioni che avevi provato nella vita reale, dieci anni fa come un minuto prima di salire sul podio, ma in questo modo sono amplificate e assumono un nuovo contesto. La musica pucciniana e la musica verista in generale le sento più vicine, i loro luoghi sono anche i miei, le loro sofferenze o le loro gioie continuano ad essere reali anche ai giorni nostri. Oltre il carattere storico, la musica stessa assume una drammaticità e un colore più sanguigno e molto fedele al carattere dei personaggi; tutto è amplificato e nulla è lasciato al caso e anche un solo ritmo sincopato è stato scritto con cognizione di causa per ricreare l’angoscia o lo stato di agitazione del protagonista in questione.

Eppure, nel suo percorso artistico c’è anche una Cenerentola di Rossini, affrontata nell’ottobre dell’anno passato al Teatro del Carmine di Tempio Pausania, con un cast di giovani e in collaborazione con l’Accademia del Rossini Opera Festival. Cosa ricorda di quella esperienza?
La musica del Rossini buffo è musica giovane, sprizzante, energica. Lavorare con cast di giovani è sempre stimolante perché hanno una voglia e un desiderio di far bene che molto spesso supera le aspettative iniziali. Il teatro non era abituato a produzioni operistiche ed è stata una ulteriore sfida per la città e per l’organizzazione dell’evento, ma alla fine è stato un gran successo. Ho sentito cosa vuol dire per una città come quella di Tempio Pausania offrire Arte con la A maiuscola ai propri cittadini ed esserne orgogliosi della produzione in prima persona.

C’è un segnale interpretativo che intende trasmettere avvicinando un titolo molto popolare come Cavalleria rusticana, simbolo del teatro musicale verista?
Compito principale del direttore è quello di scavare sempre più a fondo nella lettura e interpretazione di un’opera, anche per quelle più gettonate e famose. Per Cavalleria rusticana, avendola già debuttata precedentemente, ho voluto rivedere certi passaggi con la lente d’ingrandimento e immedesimarmi maggiormente nei panni del compositore. Mascagni aveva ventisette anni, era al suo esordio e nelle sue pagine si può sentire il suo vissuto, anche se in età giovanile; il tema come la gelosia e la vendetta riaffiorano dalla vita del compositore con vivida spontaneità in quanto emozioni appena provate.

Quali sono i rischi maggiori che un direttore deve evitare quando si è dinanzi a opere di alta temperatura drammatica come quella di Mascagni?
Non è facile controllare l’emozione davanti alle pagine più febbrili del compositore verista; un bravo direttore dovrebbe trovare un giusto equilibrio tra il dramma e la spinta emotiva e per far ciò dovrebbe tenere a freno le dinamiche forti per evitare un’eccessiva massa sonora che coprirebbe sicuramente le voci sul palco. Mascagni utilizza in Cavalleria molti raddoppi di fiati e ottoni e per questo motivo il forte di un fiato della famiglia dei legni non avrà la stessa valenza di un forte affidato alla tromba. Ecco perché un direttore dovrebbe lavorare con attenzione sul bilanciamento sonoro in fase di concertazione.

Fra le opere fino a oggi affrontate ce ne è stata qualcuna che ha sentito particolarmente vicino alla sua sensibilità di musicista e al suo modo di concepire il teatro musicale?
Puccini è senza dubbio uno dei miei compositori preferiti. Ultimamente ho avuto la fortuna di dirigere una produzione di Turandot in Turchia e sono rimasto affascinato dalla sua imponenza, dall’uso impeccabile delle masse corali e dalla grande energia che sprigiona. La morte di Liù con i pochi versi affidati al coro: “Ombra dolente, non farci del male! Ombra sdegnosa, perdona, perdona!” rimane a mio avviso uno dei momenti più toccanti del repertorio pucciniano.

Cosa ha rappresentato per il suo percorso artistico il blocco dell’attività causato dalla pandemia?
È stato un periodo davvero difficile per me; mi trovavo all’estero e, oltre alla cancellazione immediata dei miei progetti artistici, vedevo anche la cancellazione di tutti i voli per ritornare in Italia. I primi mesi avevo la sensazione che mi avessero privato improvvisamente delle mie passioni, gradualmente ho ripreso a lavorare, ma l’instabilità è durata tanto. Le cancellazioni o le variazioni erano all’ordine del giorno e non è stato facile sopravvivere. Fortunatamente dall’estate 2021 ho ripreso lentamente con i miei impegni.

Chi è Andrea Solinas quando non è sul podio?
Sono un grande amante del mare, direi “mare-dipendente”, e quando posso mi piace respirare l’aria marina tra la vegetazione mediterranea nella mia Sardegna. Il nuoto è il mio sport preferito, mi piace visitare posti nuovi e quando sono in viaggio per lavoro mi ritaglio un po’ di tempo per visitare la città, i suoi musei e le sue bellezze architettoniche.

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