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Intervista a Maria Agresta, acclamata protagonista di Médée di Cherubini al Teatro Real di Madrid

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Il suo ritorno in Italia è previsto per il prossimo novembre, prima con un concerto al Teatro San Carlo di Napoli e poi per l’inaugurazione della stagione lirica dell’Opera di Roma con Mefistofele di Boito, dove sosterrà la parte di Margherita e di Elena. Nel frattempo il soprano Maria Agresta prosegue le sue affermazioni internazionali avvicinando nuovi personaggi iconici come quello della protagonista in Médée di Luigi Cherubini, opera con la quale ha inaugurato la stagione del Teatro Real di Madrid riscuotendo un grande successo personale. Questo ci induce a riflettere con lei sugli sviluppi di una carriera che sembra non voler porsi limiti nelle scelte di un repertorio che la vede, anno dopo anno, avvicinarsi a parti di soprano lirico e lirico spinto senza mai forzare la sua natura vocale e con una consapevolezza stilistica ed espressiva appunto dimostrata con l’aggiunta, nella galleria dei personaggi fino ad oggi affrontati, di Medea.

Signora Agresta, nel pieno della sua maturità vocale e di una carriera che l’ha vista imporsi a livello internazionale fra le migliori cantanti italiane del momento, ci riassuma come ha visto e vede l’evolversi della sua voce in base al repertorio fino qui avvicinato?
Non ho mai dato una classificazione netta alla mia voce, ma ho ascoltato e assecondato cosa accadeva maturando anche dal punto di vista dell’età. Mi spiego meglio: io ho iniziato da mezzosoprano e per dieci anni sono andata avanti cantando nei cori, poi ruoli piccoli come Maddalena del Rigoletto, per approdare a Cherubino, Sesto, Rosina, Didone eccetera. In quegli anni, nonostante vincessi concorsi, audizioni e lavorassi da mezzo, ho però incontrato dei professionisti come Raina Kabaivanska, che è diventata da allora la mia insegnante, e Renato Bruson, che mi hanno fatto riflettere e, tecnicamente, aiutata a capire che la mia voce raccontava altro. Il rimettermi totalmente in discussione mi ha fatto capire tante cose e soprattutto ho imparato ad ascoltare tutti i piccoli cambiamenti e l’evoluzione della mia voce, ma una cosa ho avuta sempre chiara: forzare per creare, in maniera artificiale, i suoni mi avrebbe portata su una strada pericolosa e inutile. Forse, la mia forza è stata affrontare tutti i ruoli senza voler né imitare né cercare effetti, ma adattando le mie capacità alle esigenze degli stessi. Ogni ruolo ha difficoltà ben distinte, pur collocandosi in un filone preciso. Liù richiede un soprano lirico come Mimì, ad esempio, oppure Desdemona, ma hanno difficoltà tecniche, espressive, drammaturgiche totalmente differenti. L’unico modo che ho sempre adottato nella scelta del ruolo è stato affidarmi a uno studio preliminare profondo e minuzioso, ma la conferma sull’effettiva possibilità di interpretarlo o meno, l’ho sempre ottenuta in fase di prova e realizzazione in palcoscenico. Tutto questo mi guiderà anche per il futuro.

Entriamo subito nell’argomento dell’opera di Cherubini che ha visto il suo trionfo a Madrid e partiamo dalla versione specifica di Médée proposta seguendo l’edizione critica della partitura curata da Heiko Cullmann basata sull’edizione originale francese, con Alan Curtis responsabile dei recitativi cantati, quindi non parlati come lo furono quando l’opera andò in scena per la prima volta a Parigi nel 1797. Infatti Curtis, noto barocchista scomparso otto anni fa, concepì una versione di Médée fino a oggi inedita, interamente cantata, come desiderava Cherubini, componendo la musica per una riduzione delle parti parlate originali, che trasformò in recitativi accompagnati, emulando lo stile del compositore. Ci vuole parlare di questa specifica versione proposta a Madrid, lontana dalla ben più nota edizione italiana?
L’edizione francese che stiamo portando in scena qui a Madrid è davvero monumentale, anche per la scelta di eseguire i difficilissimi recitativi di Alan Curtis che mettono davvero l’interprete a dura prova. Come si sa il ruolo di Medea è uno dei più terribili sotto tutti i punti di vista: tecnico, interpretativo e stilistico. Siamo di fronte a un’opera che si colloca tra il tardo barocco e il neoclassicismo, ma con caratteri assimilabili al primo romanticismo. A mio modesto parere non appartiene a nessuna di queste correnti, ma quasi a uno stile unico e a sé. Ci sono elementi vicini al barocco, dalle linee pulite e cristalline, altri addirittura al verismo, quello fatto di canto drammatico e “spinto”, passaggi accostabili al puro belcanto, altri al romanticismo e la difficoltà interpretativa, dal lato musicale, sta nel far fondere ed equilibrare questi elementi senza strafare o tendere verso uno di essi in particolare. Un’architettura armonica complessa e sicuramente unica per l’epoca.
L’orchestrazione è ricca e corposa, i momenti corali e le scene di insieme sono da grand-opéra e, in molti frangenti, complici le orchestre moderne estremamente sonore e dall’intonazione acuta, l’opera assume un colore e una forza drammatica ancora più spiccata. Come già accennato, i recitativi accompagnati di Curtis, non facilitano la vita al soprano: sono scritti per la maggior parte in una tessitura molto molto acuta e io li considero vere e proprie arie a cui si aggiunge il rigore ritmico declamatorio del recitativo. Intervalli armonici complessi, un susseguirsi di settime diminuite e di escursioni vocali dal grave all’acuto per cui l’interprete deve essere attento e non lasciare nulla al caso.

Nel seguire la versione francese dell’opera quale sono le differenze di stile e di approccio vocale che si presentano per la protagonista rispetto a quella italiana?
Purtroppo, ho consultato la versione italiana superficialmente, anzi, in tutta onestà, dovendo affrontare il ruolo direttamente nella versione francese, la prima che Cherubini ha composto, mi sono limitata a qualche piccolo confronto meramente tecnico. Spero in futuro di poter effettuare un lavoro più approfondito e di confronto stilistico e tecnico.

Non crede che la versione francese di quest’opera risenta in qualche modo del retaggio della antica tragédie-lyrique?
Certamente. Di quella forma mancano il prologo e le danze, ma ci sono elementi come lo stile declamatorio richiesto che ci parlano chiaramente della tragédie-lyrique senza tralasciare il soggetto mitologico e la parte più puramente melodica riservata agli ariosi.

Cosa la affascina di questo personaggio dal punto di vista psicologico, insomma, chi è per lei Medea?
Durante lo studio della tragedia di Euripide mi sono imbattuta in questi versi che mi hanno fatto riflettere: “[…] Dicono che noi viviamo un’esistenza senza rischi, dentro casa, e che loro invece vanno a combattere. Errore! Accetterei di stare in campo, là, sotto le armi, per tre volte, piuttosto che figliare solo una volta… […] capisco quali dolori dovrò sostenere, ma più forte dei miei propositi è la passione…”.  Medea è una donna dotata di poteri soprannaturali, bipolare e spietata che vive in una condizione tragica e l’unico elemento che la rende più prossima all’Umano, è il soccombere alla propria ossessione: l’amore per Giasone. Lei è istinto misto a furore e la vendetta per il suo amore tradito la porta in realtà all’autodistruzione, all’alienazione del proprio essere donna, moglie, madre, sorella, figlia.

In che modo si è avvicinata al personaggio tenendo in considerazione i diversi modi di approcciarlo da parte delle grandi cantanti-attrici seguite alla Callas, ma anche non dimenticando il retaggio stesso, forse perduto nel tempo, del canto neoclassico di scuola francese, quello attento alla declamazione quasi “recitata” con nobile stilizzazione?
Sicuramente mi sono avvicinata a questa nuova sfida in punta di piedi, con una cautela quasi esagerata. Quando studio un nuovo ruolo tendo a farmi un’idea mia fedele alle fonti, al testo, alla parte musicale e quindi allo stile, libera da confronti che molto spesso portano a contaminazioni poco utili a una interprete ed una interpretazione che si basa su presupposti completamenti differenti da quelli del passato. Non cerco mai effetti del e dal passato, a meno che io non trovi chiare ed esplicite indicazioni dell’autore su carteggi o documenti ufficiali: non sono una che si lascia convincere dal “sentito dire o sentito fare”. Per sentirmi credibile devo essere convinta di ciò che faccio che viene da un mio studio personale nel pieno rispetto di quello che l’autore ha prodotto. Penso che il compito dell’interprete sia sempre e comunque mettere se stesso a servizio di quel personaggio e solo così si può continuare a “raccontare”.

Si deve soprattutto alla iconica interpretazione di Maria Callas se quest’opera ha avuto nel Novecento una rinascita di interesse. Cosa resta oggi del suo modo impetuoso di concepire il personaggio, del suo ruggire con la voce sbranando le frasi con forza belluina?
Il personaggio della Callas è stato e resterà una pietra angolare sicuramente, ma forse sono ripetitiva, lei era lei, e cercare di imitarla, a mio modesto parere, porterebbe a risultati fallimentari. Ciò che non bisognerebbe smettere di fare, seguendo il suo esempio, è continuare a cesellare, a scavare nel profondo del personaggio, aggiungendo elementi all’interpretazione, attraverso la propria sensibilità e personalità, utili alla descrizione dello stesso. Non bisognerebbe mai fermarsi, e il suo coraggio di “ripulire” l’interpretazione dovrebbe essere la sua eredità al mondo dei cantanti. Certo, in lei c’era la complicità di una voce incredibilmente unica!

In termini sia vocali che interpretativi quale è l’equilibrio che si è chiesta di dover trovare per le sue specifiche caratteristiche vocali onde non trasformare il personaggio solamente in una maga corrosa da una isteria punitiva, ma connotandone anche gli aspetti di donna offesa e umiliata?
Ho cercato semplicemente di ascoltare e seguire la musica e sono stati i colori dell’orchestra e gli strumenti utilizzati a suggerirmi come raccontare quel determinato momento. Ho cercato di equilibrare la densità di suono necessaria in ogni singolo passo dell’opera, ho realizzato i contrasti psicologici attraverso i colori, anche sfruttando i terribili ed a volte estesi intervalli. Paradossalmente, con Medea è stato più complesso realizzare la parte “umana” assolutamente fondamentale che non quella della donna spietata e feroce.

Come si è trovata a lavorare con Ivor Bolton e quale è stato il taglio registico voluto da Paco Azorín per lo spettacolo madrileno?
È stato un lavoro di squadra incredibile. Con il Maestro Bolton mi sono trovata subito in sintonia e abbiamo cercato insieme gli equilibri necessari affinché questa Medea prendesse vita. Paco Azorín ha voluto utilizzare l’opera per denunciare la terribile realtà degli omicidi dei bambini da parte dei genitori. L’opera si apre nel silenzio con una citazione storica: Medea appare in costume d’epoca e con un pugnale, che le viene consegnato dal suo alter ego, interpretato da una attrice muta, sgozza il bambino e poi pugnala la bimba ed in questo esatto momento parte l’ouverture. Dalla sua prima scena poi, Medea, appare in abiti contemporanei a sottolineare che nel tempo, nulla è cambiato. L’uccisione dei bambini si ripete più volte in scena quasi in maniera ossessiva, palesando l’incubo di Medea di non riuscire in questo intento e durante tutto lo scorrere dell’opera lei appare assolutamente spietata, ma anche ferita e dilaniata dal dolore dell’abbandono.

Ritiene che altri personaggi di questa stagione musicale possano in futuro entrare a fare parte del suo repertorio; penso ad opere di Gluck o di Spontini come La vestale?
In realtà ho già cantato il ruolo di Julia ne La vestale, in forma di concerto a Dresda ma credo che rimarrà un episodio unico. Ci saranno altri debutti in futuro, ma riguardano opere della tradizione italiana più autentica. Sono comunque aperta sempre a nuove sfide.

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