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Intervista a Frédéric Chaslin, presto sul podio della Scala per Les contes d’Hoffmann

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Parigino di nascita, Frédéric Chaslin è una delle bacchette più apprezzate a livello internazionale. Musicista versatile, perché compositore e pianista oltre che direttore d’orchestra, dal 15 marzo dirigerà Les contes d’Hoffmann di Offenbach alla Scala di Milano, teatro che lo ha già ospitato, nella passata stagione, ne La Gioconda di Ponchielli.
Il suo repertorio operistico è assai vasto, affrontato nei più grandi teatri del mondo, dalla Scala, appunto, al Metropolitan di New York e alla Staatsoper di Vienna, dove dal 1997 ha diretto oltre duecento recite. In ambito sinfonico ha guidato le orchestre più prestigiose, come i Berliner Philharmoniker e i Wiener Philharmoniker ed è stato anche direttore musicale dell’Opera di Rouen (1991-94), della Jerusalem Symphony Orchestra (1998-2001, 2011-2019), della Mannheim Nationaltheater (2004-2007) e della Santa Fe Opera (2009-2013). Ha realizzato diverse incisioni discografiche, sia in ambito sinfonico sia accompagnando cantanti prestigiose come Natalie Dessay, Olga Peretyatko, Anna Netrebko e Diana Damrau, mentre la sua attività di compositore comprende fino ad ora sette opere e oltre settanta mélodies per soprano, mezzosoprano e baritono. La sua ultima opera, il musical in due parti Monte Cristo, commissionatagli da Plácido Domingo per la Los Angeles Opera, è ispirata al celebre romanzo di Alexandre Dumas.
Iniziamo a parlare con lui del repertorio operistico francese, nel quale è considerato un raffinato interprete. Ha affrontato titoli noti come Carmen, Faust, Manon e Werther, ma anche del grand-opéra, come La Juive, dell’opéra-comique e dell’opéra-lyrique, come La fille du régiment (a Cagliari), Lakmé e Mignon (entrambe dirette a Liegi), fino a quel capolavoro del simbolismo musicale francese che è Pelléas et Mélisande (a Budapest).

Quale è la particolare tinta espressiva e stilistica che l’opera francese chiede a un direttore? È essenziale, secondo lei, affrontarla ben consapevoli di un linguaggio che, anche dal punto di vista della vocalità, presenta caratteri ben specifici rispetto a quello italiano?
Nell’opera, tutto scaturisce dal testo. Questo lo sapevo già, ma l’ho vissuto profondamente quando ho cominciato a scrivere le mie prime opere, durante gli anni di formazione. Per esempio, il Don Carlo, o il Don Carlos di Verdi, sono due opere diverse dal punto di vista dell’esecuzione, perché partono da due lingue diverse. La proiezione del francese è meno diretta di quella italiana, il volume, la forza. È tutto diverso. Prendo quest’esempio perché così si capisce che il problema non viene dalla musica, ma dalle parole, dalla lingua. Per questo è necessario dirigere solo opere in lingue che si parlano perfettamente, ed è per questo che dirigo solo in francese, italiano, tedesco e russo. Non farò mai Janáček, che pure amo molto, ma non mi sento in grado di dare giudizi da esperto davanti a cantanti con le sue opere.

Ci sono opere come Carmen che, dalla tradizione esecutiva originaria dell’opéra-comique, si sono trasformate nel tempo divenendo addirittura, sul piano esecutivo, riflesso di un naturalismo screziato di verismo. Qual è secondo lei il modo più opportuno per avvicinarsi a un’opera immensamente popolare come questa, non dimenticandone i valori essenziali?
Opere come Carmen o La traviata, o Faust, o La bohème, sono divenute talmente famose che la prima domanda sarebbe: come faccio a portare qualcosa di nuovo? Poi, vediamo che i registi hanno lo stesso problema, che a volte risolvono con una distruzione completa dell’opera…Per esempio, una Bohème sulla luna (a Parigi nel 2021), o altre cose del genere. Penso che in realtà siano falsi problemi. La vera difficoltà oggi è la nascita di un repertorio nuovo, opere nuove, pezzi nuovi. Per quanto riguarda il repertorio già esistente, basta farlo con onestà e competenza; un pezzo del passato si ricrea da sé stesso, perché siamo artisti di oggi, con voci e orchestre di oggi, e per forza suonerà in modo diverso. Imitare le interpretazioni del passato sarebbe inutile e stupido. Fare il meglio che possiamo nel rispetto del pezzo, con i mezzi di oggi: questa mi sembra l’unica possibilità. Niente succede due volte in maniera identica. Ma questo è un problema quasi filosofico.

Lei ha affrontato anche un grand-opéra come La Juive di Halévy. Quali sono gli aspetti drammaturgico-musicali che contraddistinguono il modo di avvicinarsi a questo genere rispetto a quelli dell’opera italiana?
La Juive è un perfetto esempio del grand-opéra come si è sviluppato nel diciannovesimo secolo, in Francia, dove Faust è un modello analogo: vi troviamo di tutto, arie, duetti, terzetti, concertati con coro, pezzi con coro solo, balletto. Dunque, in queste opere, il canto è certamente importante, ma il tutto è ancora più importante. Al contrario, un’opera come La traviata non si può concepire se non abbiamo tre cantanti perfetti per i tre ruoli maggiori. L’opera italiana è sempre il trionfo della lirica, è basata su ruoli sui quali si concentra tutta l’attenzione. Tosca ne è anche un bell’esempio, o La bohème, ma già con Bohème abbiamo il coro che ha il suo atto. Direi che Strauss o Wagner siano più nella stessa linea dell’opera Italiana, con “poca distrazione” dal canto puro.

Da francese sente la differenza fra un grand-opéra meyerbeeriano e un’opera di Verdi scritta per le scene parigine in francese secondo il medesimo stile?
Sì, per il motivo spiegato prima. Però, e questo è affare di gusto personale, mi piace poco l’opera italiana cantata in francese, per la ragione cui accennavo sopra: la musica proviene delle parole, e Verdi suona come Verdi quando sento le parole italiane. Ho fatto la stessa esperienza con Meyerbeer quando ero direttore musicale a Mannheim: ho diretto Les Huguenots nella partitura del diciannovesimo secolo, con il testo in tedesco; la musica di Meyerbeer aveva da subito un suono ideale, molto meglio che in francese. Perché Meyerbeer, in fin dei conti e nel profondo dell’anima, era tedesco (nonostante quello che diceva Wagner!).

Che cosa la lega alla cultura musicale italiana e da quali aspetti del nostro teatro musicale, che lei ha affrontato spesso, si sente più attratto?
Prima di tutto, sono metà italiano da parte di mia madre, la cui famiglia, Michelet, che viene dall’italiano Micheletti, proveniva dalla Savoia italiana, poi francese. Hanno perso la “ti”, però la cultura italiana è rimasta. Poi le prime opere che ho studiato al pianoforte erano tutte opere in lingua italiana, da Rossini, Mozart, fino a Dallapiccola (Volo di notte per esempio, o Il prigioniero). Inoltre, dico che il lirismo, il canto, il “Belcanto”, mi ha sempre affascinato, e in verità l’ho sempre considerato come prima regola nelle mie stesse composizioni, così come la sua forza drammatica; forse sarà il segreto del successo mondiale di Carmen e Faust, l’aver preso questo modo estremo di esprimere le emozioni e situazioni in “modo italiano”: la scena finale di Carmen si avvicina al verismo, in un certo senso l’ha inventato.

La stessa differenza si può cogliere fra le mélodies francesi e le romanze da salotto italiane? Cosa la affascina delle prime, che lei ben conosce per averle avvicinate anche attraverso sue composizioni?
L’arte della mélodie francese si può solo confrontare con il Lied tedesco se lo prendiamo dal punto di vista dell’abbondanza di capolavori e per la presenza nel repertorio dei cantanti che si dedicano a quest’arte. Però, purtroppo, il recital di mélodie – o di Lieder – è divenuto una cosa sempre più rara, che si sta perdendo, o divenendo una preziosità per conoisseur, sicuramente perché il livello di sofisticazione in questo genere è divenuto estremo; questo è una buona cosa e la qualità non è mai troppa. Però la romanza da salotto italiana aveva questo vantaggio: di essere molto accessibile e un po’ “un’opera tascabile” se così posso dire. Adoro le mélodies di Fauré, di Poulenc, i Lieder di Schumann o di Strauss, ma mi piacciono egualmente le melodie di Tosti, di Rossini, fino alle rarità di Malipiero o Respighi. Hanno conservato fino al ventesimo secolo questa capacità di trovare un pubblico, senza spaventarlo. E, ancora una volta, grazie al lirismo così tipico dell’anima italiana.

Fra alcuni giorni tornerà alla Scala di Milano per dirigere Les contes d’Hoffmann. Vuole parlarci di quale edizione verrà presentata e della sua idea in merito alle tante, forse troppe versioni proposte di quest’opera in base al materiale ritrovato?
Ho parlato con la direzione del Teatro alla Scala della necessità di tornare il più possibile alla fonte, e di ripulire Les contes d’Hoffmann dalle tante aggiunte che sono state fatte alla fine del XX secolo. Oggi ci sono due tendenze: essere “rivoluzionari” e portare qualcosa di nuovo e sensazionale (come scoprire una nuova partitura di Mozart, o una vera, genuina e autentica nuova versione di una partitura esistente), o tornare a quello che i tedeschi chiamano “Urtext”, cioè il manoscritto e la prima edizione, in breve, qualcosa che il compositore ha approvato o avrebbe approvato. Nel caso di Offenbach, il problema è così complesso e vasto che ci vorrebbe un’intera discussione solo per avvicinarsi al problema. Ma in poche parole, direi che da molti anni ho la convinzione che le recenti “aggiunte” siano ben lontane dall’essere autentiche o addirittura oneste e, cosa più importante per me, quelle aggiunte gridano al mio orecchio “questo non è giusto!”. Il francese è sbagliato in molti punti, o scritto male sulla musica, sugli armonici, sull’orchestrazione, tutto sembra e suona amatoriale, falso, e le persone che hanno fatto queste “edizioni critiche” si rifiutano di mostrare le loro fonti. Quindi, torniamo alla fonte, quella più pura, che è la partitura vocale per pianoforte ritrovata all’Opéra di Parigi circa venti anni fa, risalente alla prova generale de Les contes d’Hoffmann. Possiamo ragionevolmente immaginare che, all’epoca della prova generale, la partitura fosse già stabilita. E includo naturalmente le aggiunte di Ernest Guiraud, amico intimo di Offenbach e di Raoul Gunsbourg (compositore e direttore generale dell’Opéra di Monte-Carlo), anch’egli amico intimo, che scrisse il bellissimo ensemble alla fine dell’atto di Giulietta. Queste persone conoscevano il loro Offenbach, e questa versione de Les contes d’Hoffmann è stata quella rappresentata per oltre un secolo. Tutto il resto sono solo esperimenti che ci parlano di chi li fa, e nulla di Offenbach. La magia de Les contes d’Hoffmann è stata proprio la capacità, partendo da un nucleo che è al cento per cento di Offenbach, di assimilare una certa quantità di materiale estraneo, proveniente dai suoi amici Guiraud e Gunsbourg. Direi che circa il venticinque per cento de Les contes d’Hoffmann che ci sono arrivati non è di mano di Offenbach, ma almeno è di mani molto capaci, e di persone a lui contemporanee, quindi è rimasto unito, e la magia ha funzionato. Nelle ultime versioni non sappiamo cosa sentiamo, chi ha scritto cosa, e questa magia svanisce e ci lascia lontani dal fantastico mondo di Hoffmann. Quindi, il mio obiettivo alla Scala, così come nella futura edizione che sto preparando in collaborazione con un’istituzione molto prestigiosa, è quello di restaurare la partitura originale, rendere disponibili tutte le fonti via internet, mostrando chiaramente cosa è dubbio, cosa è certo, chi ha fatto cosa. Dopo di che, i futuri esecutori potranno scegliere, ma se sceglieranno il “falso” almeno sarà chiaro che è “falso”.

È dunque possibile pensare a un’edizione critica definitiva di quest’opera?
Ci lavoro, volevo prepararla per questa produzione ma mi è mancato il tempo per raccogliere tutte le fonti e metterle insieme. Tra la composizione delle mie opere e la preparazione dei concerti futuri, ci vogliono almeno tre anni per un lavoro del genere, anche se ho tutto il materiale pronto.

Torniamo alla “versione Gunsbourg”, eseguita a Monte-Carlo nel 1904, che è stata per anni considerata quella definitiva, anche perché annoverava il famoso Settimino e la celebre aria di Dappertutto “Scintille, diamant”. Crede tale versione ormai superata alla luce dell’ulteriore materiale musicale reperito nel castello di Cormatin, dove risiedeva Gunsbourg?
Come ho spiegato sopra, Gunsbourg e Guiraud sono i due amici di Offenbach che hanno fatto il lavoro più onesto, e con il tempo provvederò a dimostrare che, infatti, non c’è bisogno di inventare “nuovi” Contes, perché non esistono. A Cormatin c’era il materiale che Gunsbourg aveva scritto ma non utilizzato per completare l’opera. Ma aveva deciso lui di non aggiungerlo, perché sapeva che avrebbe corrotto troppo l’opera originale. Peccato che lui non abbia bruciato queste pagine.

Lei ha un legame assai consolidato con le grandi orchestre austriache e i teatri tedeschi. Vuole parlarci del diverso approccio organizzativo e di pensiero del “metodo” di lavoro tedesco rispetto a quello italiano?
Questo è una domanda molto ampia, potrebbe essere tema per un’intera intervista! Diciamo, in poche parole, che la differenza è quella tra teatro di repertorio, dove si fanno tra venti e sessanta opere diverse all’anno, e un teatro tipo italiano o francese. Ciascuno ha i suoi “pro” e “contro”.

Apriamo l’importante capitolo legato alla sua attività di compositore. Ci vuole presentare in breve le diverse opere per il teatro musicale del quale è autore?
Ho scritto sette opere, diciamo che le prime quattro erano “studi”, o prove. Poi ho scritto Cime tempestose (Wuthering Heights), registrato a Valencia, le cui arie sono state cantate da quattro grandi soprani: Dessay, Netrebko, Peretyatko (che ha registrato tutto il ruolo) e Damrau, che ha incluso “Vocalise” nel suo album per Erato. Poi il Monte Cristo che mi ha chiesto Domingo per la Los Angeles Opera, e che fra poco registreremo, e ho completato un Bel Indifferent sul testo di Cocteau, scritto per Édith Piaf, che verrà anche registrato alla Fenice di Venezia. Di più, sto preparando altri tre progetti, opere, una commedia musicale e un’“opera-balletto”. Ho anche scritto oltre settanta mélodies diverse. Dunque la voce è al centro delle mie composizioni.

Che cosa significa per lei scrivere per il teatro musicale oggi? Legarsi in qualche modo alla tradizione passata o fare sperimentalismo?
È inevitabile che ci sia sempre qualcosa da sperimentare. Le opere che ho scritto nel passato erano romanzi romantici (Cime tempestose, Monte Cristo, ecc.) che ho scritto a volte con uno stile ispirato alla musica pop, anche se non si sentiva subito, perché era sotterraneo. Adesso preparo un progetto balletto/opera basato su un romanzo scritto quattro anni fa e anche un’opera di cui scrivo io il libretto, come solitamente faccio, Crypto, ambientato nel mondo del Bitcoin e della Blockchain, dunque una storia quasi “da domani”, o del futuro, basata su un soggetto molto poco conosciuto, ma con possibilità infinite di interpretazione. La gente oggi ha sentito parlare un po’ del Metaverse, di questi mondi virtuali. La mia opera si svolgerà dunque in uno di questi mondi.

C’è un ultimo aspetto che vorrei trattare della sua attività, svolto parallelamente all’intensa carriera musicale: quello della saggistica che l’ha vista autore di molti scritti e anche di un romanzo ispirato alla vita di Gustav Mahler. Ce ne vuole parlare?
Ho scritto un libro, Music In Every Sense, rivolto più che altro agli accademici, per condividere i miei pensieri sul futuro della musica. Poi, nel 2017, ho scritto un romanzo, Being Gustav Mahler, una pura fantasia in cui immagino che Mahler torni oggi per completare la sua Decima sinfonia. L’ho scritto per provare a spiegare cosa succede nella testa di un compositore, ma anche perché ero intenzionato a compiere una nuova realizzazione dell’orchestrazione della Decima che Mahler ha lasciato non “incompiuta”, come l’ottava di Schubert, ma piuttosto non “completamente compiuta”, nel senso che mancano tre quarti dell’orchestrazione e tante voci del solito contrappunto mahleriano.

Maestro, dando un rapido sguardo alla carriera fin qui svolta, crede che il modo di lavorare oggi nei teatri sia mutato rispetto agli anni in cui ha iniziato?
Dal tempo in cui ho iniziato, non tanto. Ma dal tempo in cui i miei maestri hanno iniziato (Barenboim, Boulez, Giulini), sicuramente sì. Non solo nei teatri, ma anche nella sinfonica. Tanti problemi oggi acuti, che lo erano già al mio debutto, sono ora divenuti critici: la crisi del mondo discografico, la difficoltà a portare sempre nuovo pubblico in sala e, sicuramente, la causa di tutti i problemi, ossia la mancanza di nuovo repertorio, di nuove opere. Forse non ci sono stati mai nella storia tanti compositori nel mondo. Ma non cambia un fatto: per paese e per generazione, non ci sono mai stati più di quattro o cinque compositori in grado di scrivere la musica del futuro. E questi compositori sono stati messi nell’ombra perché c’era la dittatura del linguaggio moderno sperimentale e chi scriveva per il pubblico non poteva essere eseguito. Ma questo sta cambiando oggi.

Ci sono maestri con i quali ha collaborato, come ad esempio Daniel Barenboim, del quale è stato assistente per diverso tempo, che le hanno trasmesso prospettive specifiche sul modo di sentirsi musicista?
I miei diversi maestri sono tutti stati esempi di diverse possibilità di essere musicista. Come mi diceva Barenboim: “adesso che sei mio assistente, non devi esitare a imitarmi. Poi, quando inizierà la tua carriera, troverai il tuo modo personale”. Aveva ragione!

Un direttore che ha svolto e svolge una carriera internazionale prestigiosissima come la sua ha sogni artistici nel cassetto ancora non realizzati?
Sicuramente! Questi sogni sono tutti gli stessi: scrivere e dirigere le mie prossime opere.

 

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