Chiudi

Il tenore Marco Berti debutta in Mefistofele a Cagliari e parla del suo percorso artistico

Condivisioni

Intervistare Marco Berti è come seguire il flusso di un fiume in piena di schietta estroversione tenorile, tradotta in franchezza di idee e pensieri verso un mondo dell’opera che il noto artista analizza parlando di quanto importante sia il rispetto della tradizione operistica italiana e di cosa essa comporta. Lo fa con coraggio, con una chiarezza limpida e comunicativamente diretta, senza tanti peli sulla lingua.
In questi giorni Berti, all’apice del suo successo internazionale, si appresta ad affrontare per la prima volta il ruolo di Faust nel Mefistofele di Boito che dal 17 novembre andrà in scena al Teatro Lirico di Cagliari nel nuovo allestimento firmato da Juan Guillermo Nova. Al suo fianco ci sarà il basso Rafał Siwek nei panni di Mefistofele, mentre sul podio il maestro Lü Jia.
Da oltre un trentennio sulle scene, impegnato in un vasto repertorio tenorile comprendente diverse opere di Verdi e Puccini unite a un indirizzo sempre più accentuato, nel corso del tempo, verso i titoli più emblematici della Giovane Scuola, Berti sfoggia qualità vocali fuori dal comune, in termini di timbrica squillante e ampiezza sonora, che continuano a fare di lui uno dei tenori all’italiana più in vista del momento.

È proprio da questo che vogliamo partire chiedendogli di descrivere la sua voce alla luce dello sviluppo che ha avuto nel corso degli anni, anche in merito alle scelte del repertorio.
Sono la voce del “Brutto anatroccolo”, quella che nessuno voleva. Il parallelismo con questa nota fiaba di Andersen mi torna utile per definire il percorso svolto in funzione della preservazione della mia voce. Procedo per gradi nel motivare perché affermo questo. Quando iniziai il mio percorso, dopo gli studi al Conservatorio, incontrai Pier Miranda Ferraro col quale mi sono perfezionato. Fu lui a dire a tutti, anche dinanzi a Giuseppe Giacomini, che io sarei stato il tenore spinto del futuro. Rimasi stupito e finii per entrare in disaccordo con lui quando mi disse che a venticinque anni dovevo già cantare opere come La forza del destino. Non lo feci, anzi, all’opposto cominciai cantando Mozart. Ero determinato a procedere a passi lenti e meditati verso il traguardo evolutivo della mia voce. Venni confortato dallo stesso Luciano Pavarotti; fu lui che mi spinse, nel repertorio pucciniano, a non andare oltre Pinkerton di Madama Butterfly e a cantare Mozart. Non a caso affrontai Don Ottavio in Don Giovanni e arrivai fino alla Clemenza di Tito. Per rafforzare la stima in me stesso e nelle mie possibilità feci proprio come il “Brutto anatroccolo”, partendo da parti di contorno, quelle che nessuno vorrebbe fare seppure in un grande teatro come la Scala; cantai Edmondo in Manon Lescaut e Arturo in Lucia di Lammermoor, la prima con Lorin Maazel e Riccardo Muti, la seconda con Stefano Ranzani. Alla Scala fui anche Orombello in Beatrice di Tenda. Erano gli inizi degli anni Novanta e considero questa la mia grande fortuna: ho impiegato di più ad arrivare, ma oggi, che ho varcato la soglia dei sessant’anni, mi ritrovo ancora la voce integra e ferma. Credo che il mio cammino sia stato in crescendo. Ricordo che il compianto regista Beppe de Tomasi, dopo avermi sentito in Don Giovanni, mi disse che era rimasto stupito nell’aver sentito un volume così grande in un timbro da tenore lirico leggero. Ancora oggi, quando mi ascolto, sento in me l’eredità di quel percorso, la chiarezza dello schietto tenore. Ho sempre cercato di non scurire mai il mio strumento nel rispetto dell’originario metallo. Se talvolta è avvenuto che uscissi dai binari di tali scelte, ho poi saputo ritrovare me stesso. La sfida, sempre, è rispettare la qualità intrinseca della propria voce, anche quando si passa da un repertorio all’altro.

In Verdi, il compositore che insieme a Puccini ha frequentato di più, come è avvenuto il passaggio da vocalità più leggere come quelle di Alfredo e il Duca di Mantova a parti di maggior involo drammatico come Don Alvaro e Otello?
All’inizio, quando cantavo Alfredo, mi preoccupavo solo che gli acuti avessero punta correndo il rischio di sacrificare il resto. Diciamo che fino alla fine degli anni Novanta la mia voce non riusciva a trovare una reale quadra. Intorno ai trentott’anni ho percepito un cambiamento di rotta e ho approcciato opere come Nabucco, Macbeth e Simon Boccanegra. Successivamente sono passato a parti più drammatiche arrivando, anche nel repertorio verista, oggi adattissimo alla mia voce anche se ho sempre timore di abusarne, a debuttare certe opere in età matura, come nel caso di Andrea Chénier, affrontato per la prima volta nel 2022 a Lisbona.

In ambito verista il mio personale ricordo più recente è legato a un simbolo di questa stagione operistica, Turiddu in Cavalleria rusticana, senza dimenticare quello che considero uno dei traguardi più alti della sua carriera svolta in questo repertorio, la parte di Giannetto Malespini nella Cena delle beffe di Giordano eseguita nel 2016 al Teatro alla Scala nel bellissimo allestimento di Mario Martone. Cosa ricorda di quest’ultimo spettacolo e cosa invece può dirci del suo approccio a un ruolo come quello di Turiddu?
Anche io rimasi stupito da come la mia voce si adattasse alla parte davvero impervia di Giannetto Malespini. Credo che solo il Guglielmo Ratcliff di Mascagni comporti un eguale impegno per il tenore. La produzione fu poi davvero stupenda perché seppe andare al cuore drammatico della vicenda resa cruda e vera, seppur sganciata dalla cornice rinascimentale fiorentina del dramma di Sem Benelli, per ambientarla all’epoca dei boss della mafia italo­americana, nella Little Italy newyorkese. In quello stesso anno avvicinai per la prima volta Cavalleria rusticana, all’Opéra Bastille di Parigi. Fino a quel momento avevo tenuto a debita distanza Turiddu nonostante il mio passato agente, Mario Dradi, insistesse perché l’affrontassi. Lo stesso vale anche per Calaf in Turandot che oggi è un mio cavallo di battaglia; l’aver preparato quest’opera con grandi direttori, fra i quali Renzetti, Mehta, Steinberg, Oren, Gergiev e Jia, mi ha insegnato ad amarla e a misurare le forze quando l’eseguo. Non ho ancora debuttato sulle scene Des Grieux in Manon Lescaut di Puccini, ma ora mi sento pronto per farlo, come sono felice di aver interpretato pochi mesi fa per la prima volta Maurizio di Sassonia in Adriana Lecouvreur. Il mio personale impegno è stato di non cercare artatamente sonorità scure che fossero riflesso di drammaticità mantenendo la brillantezza del tenore e lo squillo pur allargando l’ampiezza della cavata sonora. Essere ritenuto per anni tenore di riferimento per secondi ruoli ha forse avuto i suoi vantaggi: mi ha permesso di analizzare con calma l’evoluzione del mio strumento studiando moltissimo. In sostanza non ho sacrificato gli anni di formazione per fare la grande carriera e questa credo sia stata la mia fortuna.

Come vede la parte di Faust in Mefistofele di Boito che si appresta a sostenere per la prima volta al Teatro Lirico di Cagliari?
Arrigo Boito è molto ambiguo nella scrittura. Talvolta presenta aspetti vocali che sembrano veristi senza in realtà farli apparire come tali. Azzardo a dire che la vocalità del personaggio si avvicini più a quella del Faust di Gounod che al repertorio dove si colloca Boito. Il continuo ricorso alla leggerezza per pagine come “Folletto, folletto”, la mezzavoce richiesta per “Lontano, lontano” nel duetto con Margherita, o ancora la malia amorosa propria al duetto con Elena in “Forma ideal, purissima” rendono questa parte problematica per il tenore se invece la si rapporta a una vocalità che, nella sostanza, guarda a una retorica vocale più “spinta” che, oltre alla dolcezza, all’eleganza e all’estasi implica un ardore ricco di accenti incisivi e carichi d’impeto. I tempi stessi messi in partitura per il tenore sono lenti e non si deve affondare nessun suono, bensì tenerlo sempre alto, in termini di freschezza e metallo richiamanti quasi una linea “belcantistica”. Non è un’opera dalla vocalità realmente verista per il tenore anche se l’orchestra che c’è sotto è nella sostanza wagneriana.

Le sottigliezze vocali si affiancano dunque alla fermezza di suono nel registro centrale e ad un canto tutto giocato sul passaggio?
Si pensi da subito a “Dai campi, dai prati”, una riflessione idealistica, una meditazione colma di segni d’espressione e indicazioni in piano scritte da Boito pur contemplando un canto legato ma “largo”, capace di espandere il suono nei centri fino all’approdo al si bemolle acuto sul “meditar”. Andiamo poi all’epilogo, dove a Faust viene chiesta un’altra pagina di grande difficoltà, l’andante “Giunto sul passo estremo”; qui i colori e le sfumature devono plasmarsi su una tessitura centralizzante che pretende fermezza di suono e controllo dell’emissione. Credo, per concludere, che per il tenore questa parte risenta ancora di una vocalità che guarda a Verdi, mentre con il Nerone Boito cambierà completamente registro.

Quale libertà interpretativa un tenore della sua esperienza può avere alle prese con una parte nuova ed esigente come questa in rapporto a quello che è il lavoro che sta facendo con il maestro Lü Jia e con il regista Juan Guillermo Nova a Cagliari?
Stiamo provando molto musicalmente con il maestro Jia, con costruttiva e reciproca serenità d’intenti. Anche lo spettacolo nasce da una visione che parte soprattutto dall’impianto scenico, curato registicamente dallo scenografo stesso.

Giunto a un livello così alto del suo percorso artistico crede di avere rimpianti o scelte che non rifarebbe se dovesse iniziare da capo?
Non vivo di rimpianti, né mi volto indietro a piangere sul latte versato. Anzi sono felice della lunga gavetta che mi ha portato a divenire quello che sono oggi. La mia carriera dura da oltre trenta anni e questo indica che mi sono amministrato bene. Forse avrei dovuto avere, in alcune occasioni, un carattere meno impulsivo, ma non mi pento per questo.

Lei è noto anche per essere un ottimo insegnante di canto. Cosa sente di poter dire ai giovani che oggi iniziano una carriera in tempi diversi da quelli che videro il suo affermarsi sulle scene?
Posso dire che i giovani di oggi sono musicalmente molto preparati e nell’insieme hanno un bagaglio culturale più solido rispetto a un tempo. Questo va a vantaggio del cantante oltre che dell’attore nell’ambito di una quadratura artistica più completa. Ma c’è l’altra faccia della medaglia: credo che i giovani siano svantaggiati dall’avere meno possibilità per esibirsi rispetto a quelle che avevano i cantanti delle passate generazioni come la mia. I circoli lirici permettevano ai ragazzi di farsi le ossa attraverso recital, per di più ben pagati. Oggi non è più così. La cosa che subito mi viene da suggerire a loro è di impegnarsi a provare i sentimenti che vanno trasmessi sulla scena cercando però di avere un controllo assoluto della propria emotività, evitando di farsi trasportare da essa.
Il futuro credo che sia in mano ai giovani se essi stessi avranno la capacità di far rispettare il compito che a loro spetta nell’ingranaggio operistico. Lo so che questo è difficile da realizzare, perché spesso le nuove generazioni di cantanti vengono strumentalizzate divenendo pedine di un meccanismo teatrale che non rispetta più l’opera nei suoi valori fondanti e le voci finiscono per divenire le ultime ruote del carro. Nessuno le ama più e si interessa poco ad esse o, peggio ancora, non le rispetta. Non mi riferisco solo alle scelte sbagliate del repertorio, che alla lunga si pagano, ma anche allo sfruttamento che i teatri fanno dei giovani, talvolta sottopagandoli o impiegandoli in ruoli non sempre giusti pur di produrre spettacoli a catena. Ho visto grandi istituzioni musicali o organizzatori di concorsi che pensano a far produzioni senza curarsi tanto degli strumenti vocali che hanno per le mani, imponendo scelte spesso sbagliate. Non mi riferisco tanto agli allestimenti, che talvolta lasciano a desiderare, ma soprattutto alla cura musicale e vocale che nel tempo si è persa sempre di più.

Come è cambiato, nel bene e nel male, il mondo dell’opera italiana da quando ha cominciato la sua carriera?
Questo è un argomento enciclopedico, difficile da sviscerare. Potrei parlare del deteriore strapotere delle agenzie, degli effetti deteriori del regietheater o di altri argomenti simili, ma sarei banale. Mi preme più sottolineare che per l’opera, soprattutto in Italia, sarebbe necessaria una sorta di “Accademia della Crusca dell’Opera Italiana” che faccia rispettare i valori fondanti della nostra tradizione operistica, talvolta smarrita inseguendo obiettivi svianti e non più appartenenti alla linfa vitale che la caratterizza. La prima diga che è crollata determinando l’onda lunga della crisi che stiamo vivendo è appunto proprio il mancato rispetto della nostra tradizione, quella del senso della parola e del significato drammaturgico che essa comporta rapportata al buon fraseggio e alla conoscenza della grande tradizione del nostro melodramma. L’opera è dramma e azione accompagnati dalla e attraverso la musica, non è musica con sopra le parole. Il saper gestire tutto questo, nel rapporto fra orchestra e palcoscenico, richiede competenze ben specifiche e profusione di grande impegno da parte di tutte le figure professionali che concorrono all’andata in scena di uno spettacolo d’opera, a partire dal direttore d’orchestra che, oltre a dirigere, dovrebbe avere cura dei cantanti e saperli preparare a dovere, forte di un’esperienza che non sempre appare così scontata quando iniziano le prove.

image_print
Connessi all'Opera - Tutti i diritti riservati / Sullo sfondo: National Centre for the Performing Arts, Pechino