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Dal Belcanto a Verdi, con il sole nella voce – Intervista a Giulio Pelligra

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Per quanto in forma di concerto, i gesti e i sentimenti di Macduff ci saranno tutti, così come da intesa semistage con gli altri personaggi in palcoscenico per il Macbeth di Giuseppe Verdi al Teatro Politeama di Napoli, con targa San Carlo, in locandina da oggi 9 marzo a sabato 18, per un totale di quattro esecuzioni. E, da buon tenore-eroe che si rispetti, sarà lui con forza nobile a rappresentare nel dramma di estrazione shakespeariana la parte migliore del potere, quella morale e dei giusti contro l’ambizione fuori controllo di una tirannide violenta e sanguinaria.
A garantirlo è Giulio Pelligra, tenore siciliano fra i migliori della sua generazione che, per la prima volta, darà voce al ruolo del valoroso scozzese in risposta alla seconda profezia delle streghe (“nessun nato di donna” potrà nuocere a Macbeth), tornando a cantare per la Fondazione lirica napoletana dopo aver partecipato al Pulcinella di Stravinskij nel 2017 e, annullato un Rigoletto nei giorni della pandemia, al concerto nella scorsa stagione con il soprano Sondra Radvanovsky nel capitolo sulle Tre Regine donizettiane diretto da Riccardo Frizza.
Trentaseienne nato in un paesino in provincia di Enna, Valguarnera Caropepe, Pelligra ha già avuto modo di calcare palcoscenici prestigiosi italiani e internazionali, collaborando con importanti direttori d’orchestra da Fisch a Renzetti, Frizza, Gatti e Ferro. Fra i tanti titoli affrontati si annoverano il Maometto II (Paolo Erisso), Linda di Chamounix (Carlo), Bohème (Rodolfo) al Grand Théâtre de Genève e al Maggio Musicale Fiorentino, un Don Pasquale (Ernesto) al Teatro di Basilea, Nabucco (Ismaele) al Massimo di Palermo, al Theater Sankt Gallen e all’Opéra Royal de Wallonie di Liegi, Fra Diavolo (ruolo del titolo) ancora a Palermo, l’Elisir d’amore (Nemorino) al Landestheater di Bregenz, al Maggio Musicale Fiorentino, al Sankt Gallen, al Municipale di Piacenza e al Municipale di Bolzano. Ha cantato inoltre in Roméo et Juliette (Roméo), I Puritani (Arturo Talbot), Anna Bolena (Percy), Jerusalem (Gaston), Traviata (Alfredo), Les vêspres siciliennes, Guglielmo Tell (Arnold), Sonnambula, Rigoletto, Die Zauberflöte, Don Giovanni, Idomeneo, Maria Stuarda, Capuleti e Montecchi.

«È lui che si fa paladino e difensore del regno – spiega Giulio Pelligra ben consapevole, sul suo nuovo ruolo per Napoli, di dover puntare innanzitutto sulla voce – riuscendo al termine a uccidere in duello un Macbeth ormai schiacciato dalla solitudine e dalla psiche turbata. Macduff è un uomo che ha sofferto. Gli hanno ucciso la moglie, i figli ed è dunque un personaggio che vive e canta portando con sé un dolore personale e profondo. Un dolore che, per certi versi, mi tocca moltissimo avendo purtroppo, lo scorso maggio, anch’io perso un figlio. È un sentire molto delicato che cercherò di fare arrivare il più possibile al pubblico entrando nel personaggio con tale spirito di mancanza. Aver dilaniata la famiglia è una tragedia immane ed è appunto in tale ottica che il duello e l’uccisione finale di Macbeth, consegnando al termine sul trono il giusto erede Malcolm, assume con tutta la sua forza il senso di un riscatto. Certo, in forma di concerto siamo tutti un po’ più scoperti ma, dell’opera, sarà restituito ogni dettaglio di sfumatura e accento in virtù del canto e della parola verdiana avendo, tra l’altro, il piacere e l’onore di condividere il palco con un Macbeth di primissimo piano nel mondo qual è oggi il baritono Luca Salsi e un Banco del calibro di Alexander Vinogradov. Se aggiungiamo la presenza sul podio di un magnifico direttore per Verdi e non solo come Marco Armiliato posso dire che, questo mio esordio nell’opera Macbeth, avviene veramente nel segno di una grande scuola».

Quali sono le peculiarità in pentagramma dell’eroe Macduff?
Al di là dei tanti concertati, il personaggio si gioca per lo più sulla sua aria al quarto e ultimo atto “Ah, la paterna mano”, pagina celebre non solo dell’opera ma dell’intero repertorio lirico italiano. La conoscono tutti, l’hanno cantata i più grandi tenori della storia passata e recente, da Caruso a Pavarotti. Per questo, e per le sue indubbie difficoltà vocali, è un’aria che mette addosso quel po’ di stress che è anche giusto che ci sia. La migliore chiave di lettura per affrontarla, a mio avviso, è entrarvi dentro creando continuità di atmosfera, come in filiazione diretta, con la grande magia della pagina corale precedente cantata dai profughi scozzesi, “Patria oppressa!”, qui magnificamente intonata dal Coro del San Carlo.

Nella costruzione di tale ruolo ha avuto dei modelli di riferimento? Se sì, quali?
Per Macduff ho senz’altro guardato a due voci che ho ascoltato tanto: Roberto Alagna e Luciano Pavarotti. Interpreti che in generale, a prescindere da quanto da loro mirabilmente messo a segno in Macbeth, ho sempre nel mio cuore e nella mia mente per tutti i ruoli che affronto. Entrambi hanno lavorato tantissimo sul repertorio che mi appartiene.

Canto, lavoro e studio. Quanto spazio dedica a quest’ultimo?
Fra gli impegni in teatro e la docenza che quest’anno svolgo al Conservatorio di Musica di Lecce ho un attimo congelato il percorso ufficiale di studi al Conservatorio di Potenza. L’allenamento della voce è invece, ovviamente, sempre presente. In generale sono uno che studia molto: mi piace approfondire tutto con estrema serietà, studiare tanto, tecnicamente e musicalmente, per trovare ben oltre le note le varie sfumature, le sfaccettature di un ruolo, in special modo se si debutta un personaggio. Diciamo che c’è un primo lavoro da fare naturalmente a casa, con il proprio maestro, più una ricerca storica sui sentimenti, sulle fonti. Poi, c’è il grande studio del ruolo con il direttore d’orchestra e con l’assieme in sala. Qui ho avuto la fortuna di poter completare il mio Macduff con il maestro Armiliato, un vero musicista che respira con le voci, dà tranquillità e consigli preziosi. Praticamente uno dei migliori direttori che un cantante possa desiderare. Quanto studio? Sicuramente la mia ora e mezza giornaliera ce l’ho sempre.

Quali sono i ruoli “forti” del suo repertorio e quali quelli che magari ancora desidera?
In questo momento, i ruoli verdiani senz’altro. In due produzioni ho affrontato il Duca di Mantova, ruolo che spero presto di tornare a cantare perché mi piace moltissimo. Poi c’è Alfredo, i Vespri versione francese affrontati a Roma e più di recente a Palermo ma, anche, il più raro Edoardo di Sanval nel giovanile Un giorno di regno che lo scorso anno ho inciso in un’operazione molto interessante con l’orchestra Europa Galante diretta da Fabio Biondi. Nel cassetto, invece, ci sarebbero il Ballo in maschera e un Don Carlo in francese.

Come definisce la sua voce?
Io nasco come belcantista e a tutt’oggi mi ritengo tale, dunque lungi dal ritenermi un tenore verdiano che, devo ammettere, è una definizione che mi fa anche un po’ paura. Ho fatto e faccio infatti tanto Donizetti, ho affrontato tutte le sue regine, Nemorino che canterò di nuovo e a breve in Francia, il Bellini di Puritani e della Norma, titolo quest’ultimo che spero di poter riprendere con un buon cast. Essendo di madrelingua francese, poi, sento una particolare affinità con titoli o versioni di quel repertorio, come nel caso dell’amore a prima vista con l’Henri de Les vêpres siciliennes, una parte che ho subito sentito facile “in gola”. Diciamo che, progressivamente, sto abbandonando il repertorio più leggero per concentrarmi sul lirico puro.

Quali ritiene siano i pregi e quali i rischi sulla corda tenorile?
La voce del tenore è una voce delicata, difficile. Personalmente ho sempre avuto facilità nella zona più alta, quindi gli acuti non mi spaventano e anzi, fortunatamente, rappresentano il mio punto di forza. So come farli, come gestirli. Il pericolo, piuttosto, è nei passaggi di registro. È una zona che va curata con grande attenzione e che, infatti, non smetto mai di studiare.

Da cantante, cosa ritiene sia importante far arrivare al pubblico?
Siamo esseri umani e ognuno tende a offrire ciò che è nel proprio background. Personalmente mi piacerebbe che il pubblico entrasse con me nella storia che racconto attraverso il canto, che gli spettatori si emozionassero con me a seconda dell’istanza drammatica e del sentimento di volta in volta provato dal personaggio che rappresento. Se l’artista riesce a raccontare in tal modo e almeno al cinquanta per cento riesce a tirar dentro l’opera chi lo ascolta, ha già vinto la sfida. Vale a dire: eseguire è una cosa, interpretarla è un’altra. A tal merito il compito del regista è spesso fondamentale. Fra tutti vorrei citare Hugo de Ana, da cui ho imparato a comprendere il vero Alfredo – giovane, impetuoso, irrazionale, soprattutto innamoratissimo – e in generale tante altre regole del palcoscenico lavorando nella recente Traviata a Palermo.

I suoi inizi, i suoi programmi futuri.
Ero molto piccolo. Da parte materna si è sempre canticchiato in casa. A sei anni e mezzo, destai stupore in tutti cantando con mio nonno ’O sole mio, poi la passione per una cassetta dei tre tenori e a quattordici anni il desiderio di studiare seriamente il canto. Grazie a un caso fortuito, l’accordatore nella scuola in cui lavorava mia madre mi mise in contatto con colei che sarebbe stata la mia prima maestra, la signora Elizabeth Lombardini Smith. Quanto ai prossimi impegni, a maggio e in giugno, canterò un Elisir in Francia, all’Angers Nantes Opéra, una Traviata a Cagliari e alla Fenice di Venezia. Per gli altri ruoli, prima di dirli, per scaramanzia e correttezza preferisco aver già firmato il contratto.

A chi sente di dover dire grazie?
Sicuramente ai miei genitori, a mia moglie, anche lei cantante che mi supporta e mi sopporta h24. Devo dire assolutamente grazie a Marco Berti che ha sempre creduto molto in me, insegnandomi tanto, e a Lucrezia Messa, docente con cui a tutt’oggi lavoro sullo spartito.

Quando non canta cosa fa?
In verità io canto sempre, anche nel tempo libero in casa. Per il resto amo fare sport, correre in moto, cammino molto, mi piace viaggiare, stare con gli amici. Sono solare.

Ha notato che in Sicilia sono nate tante belle voci?
È vero. Da Giuseppe Di Stefano a Vincenzo La Scola, Marcello Giordani, Salvatore Licitra, scomparso troppo presto, Salvatore Fisichella, Antonino Siracusa, Simone e Nicola Alaimo, Desirée Rancatore, solo per citarne alcuni. Spesso le belle ugole vengono da terre con il mare, si pensi già solo a Napoli. Sarà forse un caso, ma è come se avessero il sole nella voce.

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