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Mariano Bauduin: “La mia Aida al Petruzzelli è una riflessione sulla religiosità di Verdi”

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La religiosità di Verdi come chiave di lettura per un’opera insieme trionfale e intimista. Il regista Mariano Bauduin si appresta a mettere in scena Aida al Teatro Petruzzelli di Bari: si tratta di un nuovo allestimento con la direzione di Renato Palumbo, le scene di Pier Paolo Bisleri e i costumi di Marianna Carbone, in calendario dal 5 al 13 marzo con un doppio cast. Napoletano, Bauduin è stato per vent’anni collaboratore di Roberto De Simone, con il quale ha approfondito gli ambiti musicologici, etno-antropologici, teatrali e letterari.

Perché, nelle note di regia, lei parte da una citazione di Eliade («Compito è narrare come e perché siano nati nella Storia umana certi archetipi, o immagini, o simboli, che si sono via via depositati nel cosiddetto subconscio»)?
Perché considero l’opera di Verdi nel suo insieme, e Aida nello specifico, un’importante riflessione che Verdi fa sulla religiosità. E il suo rapporto con il divino fa pensare al rapporto che Manzoni aveva con la “divina provvidenza”. Eliade è stato il più importante studioso delle religioni e ha dichiarato con estrema chiarezza che per comprendere il rapporto dell’uomo con la religiosità bisogna comprendere le religioni nella loro interezza, in quanto tra esse ritroviamo archetipi e elementi comuni. Come dire che nella religione dell’antico Egitto sono presenti elementi della religione cristiana e viceversa. Questo rapporto è tra le cose che più mi affascina nel teatro.

Qual è la sua chiave di lettura del capolavoro verdiano?
Ho tentato di elaborare una regia su più piani narrativi, visivamente la contaminazione riguarda l’epoca in cui Verdi ha scritto l’Aida e l’antico Egitto, senza privilegiare l’uno o l’altro. Credo che la contaminazione sia un equilibrio delicato e basato sulla libertà di vedere la storia dell’uomo in senso ciclico e non lineare, cioè non solo vestendo il passato di presente, ma immaginando epoche differenti che si sovrappongono con equilibrio e consapevolezza. Ciò richiede una profonda conoscenza della storia, in tutti i suoi ambiti. Ho la sensazione che ultimamente nei confronti della storia si sia creata una sorta di paura o di sottovalutazione, tanto da ignorarla a prescindere. Credo che, come sosteneva Pasolini, il vero moderno è colui immerso nell’antico.

Verdi fu, come noto, anticlericale e massone. Ci vuole spiegare meglio come vede la sua religiosità?
La religiosità di Verdi riguarda il suo rapporto con il non conosciuto, con il sovrannaturale. Non c’entrano le appartenenze o le logge, ma un campo molto più articolato, forse inconsapevole, che riguarda l’inconscio collettivo. Verdi e la sua estrazione di paese, o provincia, che lo ha fornito di un rapporto popolare con il religioso, e sappiamo bene che tali rapporti appartengono a una parte della coscienza che si muove per strade misteriose e antiche. Possono riguardare il cristianesimo, l’induismo, le antiche religioni orientali, non è importante questo, ma gli archetipi che le uniscono. Verdi dedica il Requiem ad Alessandro Manzoni, la figura di Fra Melitone ne La forza del destino, il Dio di Babilonia, le Crociate… per non parlare delle formule musicali spesso riferenti al repertorio religioso e sacro di cui Verdi fa spessissimo uso. Sono tutti segnali di un continuo rimando a una religiosità intima e personale. Il conflitto con la Chiesa o con i poteri costituiti sono altro discorso, che con la religiosità hanno poco a che fare. In questo è possibile trovare tutti i rapporti che Verdi aveva con il mondo popolare.

Come si pone nei confronti del dibattito che oppone fautori delle regie tradizionali a coloro che invece apprezzano letture innovative? Ha senso questo dibattito?
Io credo che la regia, e il teatro, possa essere sempre innovativo, quando si basa su riflessioni e analisi nuove, approfondite e oneste. È troppo facile fare del “modernariato” semplicemente perché il pubblico possa identificarsi e riconoscersi quando guarda un’opera teatrale (sia musicale che di prosa), ma credo che questo tipo di atteggiamento non stia facendo altro che rovinare il nostro rapporto con la storia, e quindi con la nostra identità. A teatro si andava, almeno per me è sempre stato così, per imparare, scoprire, ricordare. La cronaca riguarda i quotidiani e i notiziari TV; il teatro, ma forse l’arte in generale, ha un’altra funzione comunicativa.

Nella sua Aida vedremo piramidi e geroglifici? E Aida sarà di colore? Il tema dell’imperialismo occidentale sull’Africa – che diverse polemiche ha suscitato anche in occasione di recenti allestimenti dell’opera – sarà presente?
In teatro si vive di tradizione e innovazione, come ho già detto, l’innovazione riguarda la lettura e la riflessione che si possono fare di un lavoro teatrale e musicale. Aida è Aida, le scelte del suo colore di pelle e della sua identità non le sceglie il regista, ma l’autore che ci ha dato indicazioni ben precise. Verdi diceva: “non cercate di migliorarmi, o di correggermi”, perché dovremmo farlo allora? Indubbiamente, il tema dell’imperialismo e della prepotenza esiste e ho cercato di raccontarlo con precisione e poesia, come il teatro ha sempre fatto e come dovrebbe continuare a fare. Altrimenti perché mettiamo in scena ancora Eschilo, Shakespeare, Molière o Brecht?

Cosa pensa di chi, come il maestro Riccardo Muti, afferma che Aida è soprattutto un’opera intimista e non trionfale?
Sono completamente d’accordo con il maestro Muti, in Aida c’è il trionfalismo, laddove lo scrive Verdi, e intimismo, oltre ad esserci un forte approfondimento dei rapporti o umani, specie quando questi entrano in crisi per ragioni personali, affettive, o per ragion di Stato. Il nostro scopo è evidenziarle tutte, senza farne prevalere l’una sull’altra.

Dove sta la modernità di questo capolavoro?
Nel fatto che a distanza di 150 anni ancora la mettiamo in scena e ancora ci emozioniamo quando ascoltiamo la musica di Verdi… il tempo decide per noi.

Foto copertina: Francesco Squeglia

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