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L’opera? Un’evasione che fa riflettere sul nostro mondo – Intervista a Michele Mariotti

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Morbidezza, identità e colore nella ricerca del suono in buca accanto all’estremo rigore sul leggio del segno. E, guardando al palcoscenico, massima attenzione allo stile, alla linea del canto, alla drammaturgia della parola. Sommando i requisiti, il profilo artistico corrisponde a taglio con il nome di Michele Mariotti, direttore italiano di punta della sua generazione, nato quarantatré anni fa e cresciuto nella Pesaro del Rossini Opera Festival, di cui il padre Gianfranco è stato inventore e per trentotto anni primo sovrintendente.
Diplomatosi in composizione e direzione d’orchestra al Conservatorio della sua città, si è poi perfezionato con Donato Renzetti all’Accademia Musicale Pescarese, portando a casa trentacinquenne il Premio Abbiati quale migliore bacchetta del 2016. Direttore principale, quindi musicale, al Comunale di Bologna per un intero decennio (2008-2018), è stato presto apprezzato per una luminosa attività che lo ha visto salire su alcuni dei podi più prestigiosi al mondo: Scala, Covent Garden, Wiener Staatsoper, Concertgebouw, Festival di Salisburgo, Metropolitan di New York, fra gli altri. E da quest’anno, per un quadriennio subentrando nel ruolo che fino allo scorso anno era stato di Daniele Gatti, è stato scelto dalla Fondazione lirica capitolina quale nuovo vertice musicale per guidare nell’era della sovrintendenza di Francesco Giambrone l’Orchestra dell’Opera di Roma. Cosa che ha fatto già a partire dal Verdi della Luisa Miller applaudita in febbraio e, sempre con risultati superlativi, con la sua prima apertura di stagione (il 27 novembre) sfoderando una rilettura potentissima quanto al platino dei Dialogues des Carmélites di Poulenc, in nuovo allestimento firmato Emma Dante.

Pesaro, Bologna, Roma: che significato hanno, oggi, le tre principali città italiane nella vita artistica del maestro Michele Mariotti?
Pesaro è la mia città natale, dove ho residenza, gli affetti, la famiglia, i miei amici di sempre. Sintetizzando, è la mia radice. Bologna è stata una tappa importantissima in termini di esperienza e di crescita. Diciamo una città comoda, che ho amato molto. Roma è altra cosa: un trampolino internazionale, una sfida e un’avventura bellissima.

Ha già dei luoghi per lei speciali nella capitale?
Fra le sue tante meraviglie adoro gli angoli più veri, le piazze improvvise, i luoghi nascosti. All’indomani della prima dei Dialogues di Poulenc, con mia moglie sono andato a visitare i Musei Vaticani. Siamo rimasti a bocca aperta ma non quanto come nel vedere gli scorci lontani da stampa e interviste, che ti accompagnano dritti nella storia della città e nella vita della gente.

Il suo esordio operistico, intanto, è avvenuto in una città campana. Quali ricordi ha del Barbiere di Siviglia diretto a Salerno?
È stato veramente il mio primo passo, ne ho un ricordo tenerissimo. Ero al Municipale “Giuseppe Verdi”, un teatro pieno di ritratti di Rossini. La regia era stata affidata a Francesco Torrigiani, incontrato con tanto affetto in questi giorni romani ripensando appunto a quel lavoro dove, per me, fu il primo regista.

Parlando degli inizi, è vera la storia delle sue prime bacchette costruite con gli stecchi per gli spiedini?
Sì, sì, ormai è una cosa di pubblico dominio. Avevo talmente tanta passione che prendevo gli spiedini e creavo il pomellino modellando un tappo di sughero con la carta vetrata. Poi mettevo le audiocassette, prima ancora dei dischi, e iniziavo a dirigere. Ho dirette tante grandi orchestre in camera mia.

Ma la scintilla per la musica era scoccata già da tempo?
Certo, la classica e l’opera in particolare è qualcosa che ho respirato fin da piccolo, in famiglia, in teatro con mio padre. Però posso dire che la folgorazione c’è stata un pomeriggio, quando in platea ascoltando un’aria di strazio, di dolore, forse dall’Otello di Rossini, ho compreso che quel canto stava parlando di me, di noi. Di qualcosa di concreto e umanissimo, insomma. Poi ricordo l’ascolto dei primi dischi con mio padre. Era Beethoven. Diciamo che d’estate, anziché correre in spiaggia, preferivo entrare in teatro e sentire l’odore del velluto e dei palchi.

Quali saranno le sue linee di programma per il polo operistico e ora anche sinfonico della capitale entro la serrata tabella di marcia che, dopo Poulenc, la impegnerà dal 31 gennaio nell’Aida con la regia di Davide Livermore, in febbraio nel Requiem di Verdi, in aprile con Il tabarro di Puccini più Castello del Principe di Barbalblù in dittico e in prima battuta per il progetto sul Trittico Ricomposto, nel Manfred di Schumann con la voce recitante di un ormai leggendario Glauco Mauri?
L’avventura romana rappresenta uno step successivo rispetto a quanto messo a segno ad esempio nei miei anni bolognesi. E questo perché le linee del programma romano sono state disegnate pensando a un percorso di crescente internazionalizzazione, pur senza mai dimenticare i capisaldi italiani. Già i Dialogues inaugurali, così come le opere della modernità europea abbinate in dittico ai titoli di anno in anno estratti dal Trittico pucciniano, lasciano intendere il lavoro che con il sovrintendente Giambrone e il direttore artistico Vlad si sta costruendo, ampliandone il raggio anche a una fin qui inedita e a maggiore ragione significativa programmazione sinfonica.

Sue saranno anche tutte le prossime inaugurazioni sul lungo periodo, come già da quest’anno fissate nel giorno della prima apertura nel 1880 del Costanzi, il 27 novembre. E lì entrerà in sinergia con altrettanti registi di prima linea…
Per il 2023 il Mefistofele di Arrigo Boito sarà affidato al regista Simon Stone, il Simon Boccanegra di Verdi nel 2024 sarà riletto da Richard Jones mentre il Lohengrin dell’apertura 2025 siglerà il primo Wagner sia per me che per il regista Damiano Michieletto. Se non si scandalizza lo spettatore gratuitamente, l’intesa direttore-regista è forte e l’effetto è vincente. In che modo si attua? Attenendosi alla storia e alla partitura in una corresponsabilità paritetica fra chi guida l’orchestra e chi la scena. E ciò avviene in una sorta di organizzazione a braccetto, anticipandosi nel lavoro, parlando, scambiandosi idee. Non c’è cosa peggiore se un fruitore ascolta una cosa e ne vede un’altra. Per carità, possono esserci letture di segno antitetico, ma gli opposti devono essere voluti e studiati, come nel caso del mio Guillaume Tell di Rossini allestito da Graham Vick raccontandone la storia drammaturgica e musicale su due livelli paralleli destinati a non toccarsi mai. Lui diceva che era inutile metterci le colline se le avevo io in musica, e così via. L’importante, però, è che ci sia alle spalle un’idea, un pensiero valido e preciso.

Parliamo di stile. A giudicare dal calendario di quest’anno, si toccheranno i punti più svariati della Storia della musica.
Il rispetto della partitura deve essere prioritario. Il paradosso è che proprio il rispetto della regola, del paletto, ti porta alla consapevolezza della libertà, dunque a essere fantasioso. Ricordo bene la sensazione provata quando, da studente di composizione, sono uscito fuori dai rigidi margini del contrappunto, avvertendo un senso di libertà inimmaginabile. È in fondo quel che oggi io dico ai cantanti: è la gabbia ritmica esterna, cioè, che va a favorire all’interno la loro stessa fantasia. È quanto avviene in Rossini ma in effetti anche in Verdi, laddove un programmato disordine si ritrova all’interno di una griglia. Ecco, a mio avviso la conoscenza dello stile è la cura dei dettagli. Tutto deve rispondere a un’idea teatrale, tutto deve essere in linea con una drammaturgia. Cosa che vale anche per il sinfonico di repertorio tedesco o francese, russo o italiano. Trattandosi pur sempre di un racconto.

Autorevolezza, responsabilità, passione e ricerca della qualità sono le regole da lei fin qui mostrate sul podio. Da nuovo Direttore musicale, come lavorerà sull’Orchestra dell’Opera di Roma?
Ci deve essere una disciplina del lavoro. Un rispetto che, devo dire, ho subito trovato al Costanzi. I professori dell’Orchestra del Teatro dell’Opera hanno infatti sin dal primo giorno dimostrato di aver voglia di impegnarsi, di migliorarsi, di saper lavorare duro per costruire un suono. Naturalmente serve tempo per conoscersi e per ottenere un’identità sonora, come a Bologna dove, oggi, se ne apprezza la cifra costruita nell’arco di un decennio. Iniziare con un’opera così difficile come i Dialogues di Poulenc, d’altra parte, significava già operare in tale prospettiva e con tale esigenza. Abbiamo lavorato con molta serenità e con tanta voglia. C’era voglia di andare alle prove, c’era un godere della bellezza di questa musica, così profonda e toccante, che ha coinvolto praticamente tutti i lavoratori del teatro. È stata un’esperienza bellissima. Giornate intere o momenti per trovare l’effetto che volevamo, con i solisti, i coristi e i musicisti o, come nel caso dell’effetto ghigliottina, con i fonici, le sarte, i tecnici, i percussionisti. Ognuno era felice di poter contribuire al risultato. C’è stato un lavoro di squadra veramente molto gratificante.

Quali saranno le modalità d’intervento?
Ci sono diverse operazioni da fare per dare completezza all’organico. Sono previsti pensionamenti sia nel Coro che nell’Orchestra, quindi a breve ci saranno i Concorsi e poi si lavorerà per conferire un nuovo colore, un’identità all’organico romano. E questo avviene anche attraverso un adeguato numero di prove. Sono un direttore piuttosto “vecchio stampo”. Non arrivo il giorno prima dell’orchestra ma mi anticipo di almeno due settimane per assistere alle prove di regia, per curare le prove musicali, per seguire le voci. Oggi spesso si pensa che con i bravi cantanti si risolva tutto velocemente. Personalmente ritengo invece che sia il contrario: più i cantanti sono bravi, più necessitano di prove e attenzione. Come si faceva un tempo. Quando c’è un simile lavoro a monte, al di là che piaccia o meno il risultato, la qualità non può non affiorare. Basta credere insieme in un progetto.

In una recente intervista ha dichiarato che a teatro ci si scandalizza, si pensa, si ama, si sogna. Insomma, si comprende di essere vivi. Quale ritiene debba essere dunque il ruolo di una Fondazione lirico-sinfonica al passo con la società moderna?
Stiamo riorganizzando tante cose. Chiameremo anche gli artisti della visual art per portare pubblico nuovo e ulteriori luoghi. Per il sovrintendente Francesco Giambrone è importantissimo che la città conosca il teatro ma anche il contrario. Ossia che il teatro risponda a un servizio pubblico e civile, nel quale la società possa identificarsi. La scelta dei titoli è d’altra parte mirata a far conoscere i diversi aspetti di una realtà non passata e ottocentesca quanto, piuttosto, che ci appartenga da vicino. Le tematiche in campo riguardano infatti la violenza, il fanatismo, una guerra che purtroppo stiamo vivendo drammaticamente ai nostri giorni. E questo perché riteniamo che il teatro debba essere sì un canale di evasione ma, al contempo, un modo per riflettere, per affrontare quanto abbiamo intorno, nel bene e nel male. Non siamo solo intrattenimento, in sostanza, ma vogliamo essere socialmente utili. Per questo la nostra vera lotta è finalizzata alla tutela del valore dell’Arte. Se chiude un ospedale è un dramma, se chiude un teatro ce ne dobbiamo fare una ragione. E non va bene così, perché vuol dire che non si è assolutamente compresa la funzione del nostro lavoro.

A tal merito cosa sente di poter dire ai giovani, sul podio come in sala?
Mai fare o ascoltare ciò che non piace. L’importante è conoscere e seguire ciò che si ama. E lo dico con la consapevolezza di chi ha studiato composizione nel vecchio ordinamento, con esami da diciotto, trentasei ore di clausura epica e con esercizi di fughe che affrontavo con lo spirito di un gioco dell’Enigmistica.

Secondo lei, quanto l’Italia crede nella musica e nell’identità nazionale della lirica?
Ancora troppo poco. Ma più che nell’opera lirica, nella Cultura in generale. Non dobbiamo dimenticare che il nostro è l’unico Paese che non ha mai smesso di produrre arte. L’Italia è la sua Cultura.

Pensando ai suoi studi di composizione, quanto giudica importante per una Fondazione lirica commissionare opere inedite ai compositori della contemporaneità?
È assolutamente fondamentale. E lo ha dimostrato nel novembre 2021 il successo della prima del Julius Caesar di Battistelli, azzardata in apertura di stagione. Non a caso, proprio in questi giorni, con il sovrintendente Giambrone stiamo lavorando a un progetto di cifra italiana e internazionale. Viviamo in un tempo in cui magari si critica l’Otello per le labbra gonfie e il taglio razziale. Ma è un’opera lontana, di un altro secolo. Ritengo invece importante che un compositore di adesso scriva un’opera, una musica che sia il risultato di un’esigenza espressiva contemporanea, di una realtà che ci appartiene. È inutile puntare il dito su capolavori nati in un mondo che non è più il nostro. Magari pure cambiandone i segni, come ha ben osservato Muti, facendone traduzioni ingiuste e, spesso, non pertinenti.

Ha compositori prediletti e partiture che vorrebbe a breve affrontare?
Per il sinfonico senz’altro Mahler, autore gigantesco che pure nei punti più tragici restituisce sempre una grande forza, uno straordinario coraggio. E poi ce ne son tanti altri. Potrà sembrare banale, ma ho la fortuna di poter scegliere e affrontare sempre il repertorio che mi piace, che mi emoziona, che mi dà sensazioni diverse anche nel ripeterlo, guardandolo attraverso gli anni con occhi cambiati nel tempo. Quanto all’approccio, credo sia necessario considerare che, quando un autore finisce di scrivere, l’opera non è terminata, ma aspetta di vivere attraverso di noi, attraverso l’interpretazione. In via analoga non possiamo aggiungere pennellate a un quadro compiuto ma, nel guardarne il segno, ci lasciamo influenzare da un mondo che inevitabilmente è cambiato.

E per la lirica?
Rossini senza dubbio, essendo nato e cresciuto con lui. Ma, pensando al mio peculiare interesse sui colori in orchestra, sto cercando di approfondire in special modo il Novecento francese, da Poulenc a Ravel, magari Debussy, a contrasto con i russi o con l’iperclassico Haydn.

Quando non si dedica alla musica cosa fa?
Se possibile vado in bicicletta, di certo non ascolto musica classica in casa, altrimenti non riposerei mai. Per il resto conduco una vita normalissima. Ad esempio? Mi piace cucinare.

Prossimi impegni?
Ho tanti sinfonici, tornerò a studiare per Roma l’Aida, mi dedicherò al dittico Puccini/Bartók. E poi dal 25 ottobre 2023 ho il Maometto II al Teatro San Carlo. Io pesarese che debutto per la prima volta in edizione critica a Napoli con l’opera napoletana di Rossini. Mi sembra incredibile e assolutamente perfetto.

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