Capelli neri lunghissimi, chiodo, tatuaggi da dark lady, unghie colorate: il suo mood è diverso dal tipico phisique du rôle della cantante lirica. Sarà perché fino a 23 anni ha fatto la paracadutista, o perché ha sempre amato il metal. O forse perché per scrollarsi un po’ di dosso un’eredità impegnativa, è giusto trovare con decisione un profilo personale. Anastasia Bartoli, 31 anni, soprano, sta chiudendo le recite de La vedova allegra al Teatro Comunale Mario Del Monaco di Treviso per poi debuttare lo Stabat Mater di Gioachino Rossini a Torino e volare a Roma dove canterà in Ernani.
Senza giri di parole: è difficile essere la figlia di Cecilia Gasdia?
Ormai mi sono abituata a essere un po’ etichettata come la “figlia di”. E sarebbe insincero dire che non ci sono mai stati problemi. Però essere la figlia di Cecilia Gasdia è un po’ croce ma soprattutto delizia. Senza la sua inflessibilità di sicuro non ce l’avrei fatta nel costruirmi una voce.
Sua madre è anche la sua insegnante. Una dinamica ad alto potenziale di deflagrazione.
La cosa è andata così: io respiro musica da tutta la vita. Sempre con la mamma a teatro, poi in casa tra dischi, studio, impegni. Ho capito subito quanto fosse duro il percorso. Per questo, nonostante amassi molto la musica, ho cercato di tenermene alla larga il più possibile. Facendo davvero tutt’altro.
Tipo la paracadutista?
Esatto. Dopo la maturità classica volevo provare un’esperienza forte. Siccome a Verona c’è una grande struttura agonistica ho avuto il mio battesimo. Lì è nata una passione davvero forte. Per quattro anni ho fatto paracadutismo acrobatico.
Insomma si è corazzata sufficientemente per entrare nel mondo dell’opera.
Sì, a ben guardare non c’è molta differenza. In ogni caso, a 23 anni ho sentito una specie di mistica chiamata. Davvero, qualcosa di definitivo. Sono andata da mia madre e le ho detto: “Insegnami”. Lei non è stata tenera. “Se vuoi proviamo, ma se capisco che non c’è stoffa ci fermiamo subito” mi ha risposto.
Ha iniziato relativamente tardi dunque.
Sì, ero un po’ in ansia per questo. Mentre le colleghe debuttavano io facevo i vocalizzi. Mi sono iscritta in Conservatorio e in cinque anni diciamo che la formazione di base è stata completata. Senza mia madre non ce l’avrei fatta: io avevo furia di mettermi a posto, lei è stata un caterpillar. Non mi ha mai fatto passare niente. Quante massacrate! E la ringrazio per questo.
Il primo debutto a Lima nel 2017 con Fiordiligi. E in pochi anni arrivano anche ruoli verdiani importanti e impegnativi come Lady Macbeth.
È stato strano perché all’inizio il colore e la comodità nel centro mi avrebbero fatto pensare alla corda mezzosopranile. Infatti il primo ruolo compiuto è stato Rosina che è in questo senso un po’ borderline. Ma poi abbiamo compreso che la corda sopranile era la mia.
Come sceglie i ruoli?
Io studio moltissimo e provo tanti ruoli. Perché non è detto che quello che sulla carta funziona poi stia bene in gola. Mi fido molto delle mie sensazioni fisiche. Ci sono titoli sulla carta meno impegnativi che invece per me lo sono quasi di più. Pensiamo alla Vedova allegra: intanto ha i parlati, poi l’aria della Vilja è uno scoglio per tutte. Quindi a volte ci sono personaggi magari che sembrano più impegnativi ma che per vocalità come la mia possono funzionare.
Ad esempio Nabucco?
Abigaille e la Lady sono state una scoperta recente. Sono ruoli monstre e vanno cantati con parsimonia. Io credo che il segreto sia alternare i ruoli e far riposare voce e psiche con cose più morbide e rilassanti.
Com’è andato il Macbeth con quarantena insieme a Riccardo Muti a Tokyo lo scorso aprile?
Lo considero il mio debutto ufficiale sulle scene maggiori. È avvenuto in un periodo molto difficile a causa della pandemia. Per certi versi unico perché abbiamo trascorso la quarantena tutti insieme ed è stato prezioso avere il Maestro tutto per noi per così tanto tempo. Io lo devo ringraziare, perché con quella mano ti tira fuori delle cose che neanche tu sai di avere musicalmente.
C’è una cantante a cui si ispira?
Amo molto le cantanti del passato. Una su tutte: Ghena Dimitrova.
Sua madre è stata una grande Hanna Glawari. Che consigli le ha dato per affrontare La vedova allegra?
Noi studiamo insieme, poi però il ruolo io cerco di costruirmelo sulla mia pelle. Non ho i suoi pianissimi e i suoi filati, la mia Hanna è un po’ più fisica, ha una vocalità di zampata. Poi, certo, venendo da quella scuola le similitudini si sentono. Il mio segno zodiacale è leone: sono sempre con l’artiglio pronto.
Anche nel look, che è molto lontano dal cliché solito della cantante lirica.
Si, mi discosto un po’. A me piace il metal, mi piacciono le unghie lunghe e il trucco vistoso. Mi piacciono i vestiti di pelle e il look da motociclista. E ho molti tatuaggi.
Qual è la sua routine?
Vivo a Verona, ma la famiglia di mio padre è fiorentina quindi mi divido tra le due città. Faccio ginnastica in casa e lunghe camminate. Studio con regolarità e alleno la muscolatura. In sei mesi ho perso 20 kg e quindi ho un regime alimentare piuttosto controllato. Anche se in qualche dopo recita, la pizza me la concedo.
Per quella che sinora è la sua esperienza, quali sono le qualità irrinunciabili per un cantante lirico?
Metto la voce quasi all’ultimo posto. Per me, soprattutto oggi, la prima qualità è essere musicisti. Intonazione e musicalità secondo me sono le prime doti. Poi la salute che è fondamentale per il nostro lavoro. Infine l’intelligenza: vedo tantissime persone che si lasciano abbindolare da insegnanti improvvisati, e vengono illuse per anni. È un mondo difficile, ci vuole davvero il paracadute.