Sarà una stagione impegnativa e ricca di importanti appuntamenti quella che vedrà il maestro Matteo Beltrami, appena ultimate le recite della Traviata all’Opera di Graz, debuttare all’Opera di Colonia Oper Köln, dirigendo La Cenerentola di Rossini, la cui prima è prevista il 17 dicembre. Seguirà La bohème al Teatre de Palma de Mallorca, Lucia di Lammermoor alla Deutsche Oper di Berlino, mentre in Italia dirigerà Il trovatore a Modena e Piacenza e il Requiem di Cherubini nella Cattedrale di Piacenza.
Una carriera, la sua, ormai ventennale e di respiro internazionale che l’ha visto dirigere nella maggior parte dei teatri italiani ed esteri incarnando, attraverso le significative prove offerte, la migliore tradizione del direttore d’orchestra italiano a proprio agio in qualsiasi repertorio ed espertissimo di vocalità, come dimostrano le sue frequenti presenze nelle giurie di prestigiosi concorsi di canto. Per alcuni anni, sotto la sua guida, il Teatro Coccia di Novara si è trasformato in uno dei più dinamici e innovativi teatri di tradizione italiani e alcune serate inaugurali, entrate nelle storia di questo teatro, sono documentate dall’uscita di importanti dvd. Lo abbiamo incontrato alla vigilia del suo debutto a Colonia nella Cenerentola, per parlare di questo suo importante appuntamento e per tratteggiare insieme la sua “idea” di direttore d’orchestra.
Che cosa significa per lei essere definito direttore d’opera di “tradizione italiana”; una inutile etichetta o un modo per incarnare una figura musicale radicata appunto in una specifica tradizione che le chiederei di illustrarci?
Se per “tradizione italiana” si intende quell’insieme di sovrastrutture interpretative, di consuetudini prive di fondamenti filologici, di vezzi e inesattezze che col tempo sono state assurte a verità assolute e che, nel corso del Novecento, si sono accumulate e sedimentate nelle esecuzioni del repertorio operistico italiano, allora l’accezione è negativa. Mi ritengo invece onorato di essere definito tale quando vi si riconosce una particolare competenza verso un repertorio la cui profonda conoscenza non è possibile apprendere solamente dallo studio di testi e fonti; una certa sensibilità al respiro del canto, alle lunghe arcate melodiche, al cesello del fraseggio è cosa che si ottiene solo grazie all’esperienza data da un’assidua e prolungata frequentazione del repertorio stesso. Lo stesso discorso vale per la definizione di “direttore filologico”; se per esso si intende colui che crede di essere fedele all’autore perché esegue ‘solo quello che è scritto’ applicando tale concetto a tutto il repertorio operistico dal barocco al belcanto fino al contemporaneo, allora mi vanto di non esserlo. Per la maggior parte della musica scritta fino a oggi bisogna piuttosto essere capaci di interpretare quello che non è scritto in partitura.
Nazioni come la Germania, dove lei dirige molto, sentono l’importanza di questa tradizione direttoriale “italica” o tutto ormai si è globalizzato?
Non solo lo sentono, ma sia le orchestre sia i cantanti stranieri sono avidi di approfondire lo stile interpretativo dell’opera italiana dell’Ottocento qualora si rendono conto di avere di fronte una guida autorevole. Proprio oggi la Konzertmeisterin dell’orchestra mi ha posto una specifica domanda sul ‘levare’ degli accordi iniziali di alcuni numeri della Cenerentola secondo lo stile italiano. Noi direttori italiani dobbiamo sentire il peso di questa responsabilità sulle nostre spalle ed esserne orgogliosi. Abbiamo poi il dovere di curare la corretta pronuncia e comprensione del testo da parte dei cantanti stranieri che spesso conoscono solo a grandi linee il significato delle frasi che cantano. Cosa intende Dandini per “i magnifici miei quarti reali”? Chi è il “romito di Sorga”? Cosa spiega del personaggio di Eboli la frase “l’error che v’imputai… io stessa… avea commesso”? E cosa si cela dietro le rassicurazioni di Violetta “sarò là tra quei fior presso a te sempre”. Quali fiori? Quelli del giardino della loro casa di campagna o quelli del cimitero dove la protagonista sa che finirà a breve? Dunque l’“amami, Alfredo” non è solo lo sfogo di una donna che sta per troncare una relazione contro la sua volontà ma si colora delle tragiche sfumature di un ultimo desiderio di una condannata a morte.
Da cosa deriva la sua conoscenza delle voci e l’interessa per la vocalità?
Mio padre suonava nell’Orchestra del Teatro Comunale di Genova e fin da bambino, ogni mese, mi regalava una musicassetta con un’opera lirica. Non ricordo se la prima sia stata la Tosca Tebaldi/Del Monaco/Molinari Pradelli oppure il Rigoletto Bruson/Shicoff/Gruberova/Sinopoli. Inoltre il Politeama Margherita era la mia seconda casa, vi prendevo lezioni di violino e assistevo a tutte le rappresentazioni d’opera e di concerto. Facevo parte del coro di voci bianche del teatro e più tardi, in conservatorio, appena avevo del tempo libero, assistevo alle lezioni degli insegnanti di canto. L’opera e il canto hanno sempre fatto parte della mia vita.
L’opera lirica è sempre stata anteposta nei suoi interessi rispetto alla musica sinfonica?
Assolutamente no. Sono un violinista e nello studio ho sempre portato avanti entrambi i repertori, ma probabilmente una particolare facilità nel risolvere le problematiche che la preparazione di un’opera lirica pone costantemente di fronte al direttore mi hanno da subito aperto le porte dei teatri lirici. Questo percorso accomuna moltissimi direttori d’orchestra italiani.
Il suo percorso direttoriale è partito dall’opera del primo ‘800 italiano, quello del belcanto, ma negli ultimi anni si è allargato a Verdi e a Puccini. Ci racconta come si è evoluto tale percorso di carriera rapportato alle scelte del repertorio che si è trovato a dirigere?
In verità non è proprio così. A diciannove anni la prima opera che ho diretto è stata Il trovatore, la seconda La bohème e poi Cavalleria rusticana, La traviata, Rigoletto e Tosca. Al repertorio del primo ‘800 sono arrivato già con una discreta esperienza alle spalle. Ed è stato un bene perché è in assoluto il repertorio più difficile per un direttore d’orchestra. Ai miei allievi e anche ai miei agenti dico sempre: “datemi da dirigere una Turandot anche senza nessuna prova (mi è capitato proprio quest’anno ad Amburgo) e mi divertirò come un bambino.” Lo stesso non avverrebbe con I Puritani o Don Pasquale, rischiando piuttosto di passare insonne la notte precedente la recita.
C’è il desiderio di allargare gli orizzonti anche verso l’opera francese (dopo aver già diretto Carmen) e tedesca?
Bisogna distinguere tra repertorio sinfonico e operistico. Per quanto riguarda il primo non ho mai avuto problemi di sorta, mentre per quello operistico il discorso è molto diverso. Il mio approccio allo studio di un’opera lirica parte dal testo. In tutto il repertorio lirico ottocentesco italiano il fraseggio, il respiro, le tensioni interne a una frase musicale traggono origine dal testo e dalla sua metrica. Inoltre, solo comprendendo profondamente il libretto, è possibile formarsi una precisa idea interpretativa; grazie alla scelta di parole particolari, agli accenti e alla punteggiatura si possono cogliere le sfumature pensate dal compositore che un direttore deve poi interpretare secondo la propria sensibilità. Infine una profonda conoscenza della lingua permette poi di intuire anche ciò che viene sottinteso. Faccio un esempio: nel primo atto della Traviata, Gastone presenta Alfredo a Violetta accompagnando queste parole: “egra foste, e ogni dì con affanno qui volò, di voi chiese”. Quella parola “egra”, oggi non più di uso corrente, significa sofferente, malata. Dietro questa banalissima frase si nasconde uno dei nodi principali della vicenda: Violetta in passato è già stata sul punto di morire e, a differenza di tutti gli altri, compreso il Barone che “non fece altrettanto”, un uomo che ha sempre voluto restare anonimo, passava ogni giorno in portineria chiedendo notizie riguardo alla sua salute portandole dei fiori. Violetta ha passato i giorni e le notti immaginando come potesse essere chi le dimostrava un amore disinteressato, nutrendo nel tempo un sincero affetto per esso pur non conoscendone l’identità. Improvvisamente Gastone glielo presenta scatenando in lei un turbinio di sentimenti contrastanti che darà corso agli eventi. E quell’accento sulla congiunzione “se” (“sollecita, se puoi”) per di più ‘in levare’ quando Violetta prega Annina di essere celere nel recare i “dieci luigi” ai poveri quanto racconta della paura insita in ogni essere umano di ritrovarsi solo nel momento estremo? Potete dunque capire quanta importanza possa avere una semplice parola o una singola frase per la comprensione della psicologia di un personaggio? Amo molto e conosco piuttosto bene tantissime opere di compositori stranieri e le dirigerò quando mi sentirò pronto per poter realizzare lo stesso meticoloso lavoro di comprensione del testo legato alla musica, come avviene per il repertorio italiano ed è già avvenuto con un capolavoro quale Carmen, che ho rifiutato più volte di dirigere fino a quando, dopo anni di studio, è arrivato il momento giusto. Se potessi scegliere una rosa di titoli non italiani che mi piacerebbe debuttare in un prossimo futuro figurerebbero sicuramente Lohengrin, Tannhäuser, Salome, Elektra, Werther e Manon di Massenet.
Lei è da sempre attento alla formazione di giovani talenti e si è dedicato spesso alla didattica direttoriale attraverso masterclass. Non è un caso che proprio a lei si debba, nel 2018, la creazione dell’Accademia del Teatro Coccia di Novara, all’interno della quale è stato docente di direzione d’orchestra. Cosa deve possedere oggi un giovane direttore, oltre ovviamente alla preparazione musicale, per imporsi col suo talento sulle regole del mercato direttoriale?
Prima di tutto bisogna comprendere bene che il direttore d’orchestra è uno strumentista anomalo. ‘Suona persone’ e interpreta attraverso di loro. Non ha contatto fisico diretto con il proprio strumento e questo determina un percorso di studio che non ha eguali. La tecnica di base della direzione d’orchestra è assai rudimentale e si può apprendere in poche lezioni. Ma che immane lavoro di autoanalisi prevede per esempio comprendere in che modo la propria fisicità incida sul suono delle diverse compagini orchestrali? Perché anche loro hanno caratteristiche assai differenti, peso diverso e una loro fisicità. Per fare un paragone semplice possiamo immaginare la guida di un’automobile. Per una buona frenata non posso pensare di esercitare la stessa pressione sul pedale del freno di una Fiat Panda del 2000 e su una Jaguar nuova fiammante. Lo stesso discorso se devo calcolare il tempo di un sorpasso alla guida di una Maserati o di una Ford magari carica di bagagli. Per non parlare poi del carattere delle orchestre! Sono esattamente come esseri umani; alcune molto permalose, altre disponibili e affabili. Certe le conquisti con l’ironia, altre con l’entusiasmo e altre ancora con una ferma e composta autorevolezza che genera un certo timore reverenziale.
In linea generale cerco di trasmettere alle nuove generazioni di direttori studio approfondito e meticoloso, autorevolezza, competenza ma anche apertura mentale e capacità di comprendere che sia l’approccio interpretativo sia il modo di fare teatro si evolvono costantemente, sono pregi che alla lunga ripagano sempre. Canta Angelina: “sprezzo quei don che versa fortuna capricciosa”; le congiunture astrali spesso oscure e imperscrutabili, che portano in brevissimo tempo giovani direttori ai massimi livelli sono spesso causa del loro oblio dopo pochi anni di onnipresenza nei cartelloni dei teatri. Molto meglio costruirsi una solida carriera fatta di piccoli passi in avanti uniti a periodi di consolidamento. Trovarsi un paio di mesi liberi in un anno per molti artisti è un affronto ma può essere una buona occasione per riposarsi e dedicare tempo ed energie ad ampliare il proprio bagaglio di conoscenze.
Per lei è stato difficile imporsi e cosa farebbe di diverso alla luce di quanto fin qui ha fatto?
In questo momento ho esattamente quello che ho sempre desiderato: una carriera internazionale che mi regala costanti soddisfazioni, mettendomi in contatto con professionisti e artisti che mi arricchiscono ogni giorno di più. Mi sveglio al mattino eccitato di poter fare musica con orchestre eccellenti e in teatri nei quali da studente sognavo di dirigere. E tutto questo lo devo soprattutto agli errori commessi in precedenza. Anche se allora non lo capivo e mi ci arrovellavo il cervello, oggi posso ben dire che le porte chiuse che mi sono trovato di fronte senza un apparente motivo ma anche la frustrazione di non essere stato all’altezza o di non essere stato capito sono stati i migliori tonici per la mia salute artistica, veri e propri anticorpi grazie ai quali ho superato anche i momenti più difficili e le sfide più ardue.
Veniamo a La Cenerentola in scena nei prossimi giorni a Colonia. È la prima volta che la dirige?
No, è un titolo che conosco bene e che mi ha sempre regalato grandi soddisfazioni: fu la prima opera che diressi in un teatro di tradizione italiano (Politeama Greco di Lecce, 2005) e successivamente al Festival Spoleto/Charleston nel 2008. Ho poi un bellissimo ricordo dell’edizione 2019 alla Staatsoper di Amburgo grazie alla quale sono poi tornato per Norma, Otello, Madama Butterfly, Turandot, Don Pasquale e Nabucco. Posso quasi ritenerla un amuleto portafortuna.
Nel tratteggiare le coordinate per questa sua concertazione di Cenerentola, verso quali orizzonti si è orientato nel delineare il lato giocoso e ritmico in rapporto a quello del patetismo che si affaccia in alcune nervature melodiche della protagonista?
La Cenerentola è un’opera caratterizzata da una vena di follia e da un umorismo a tratti surreale. Irriverente, incoerente e sublime, affonda le proprie radici nella tradizione della commedia dell’arte ma sembra tendere a un certo ‘teatro dell’assurdo’ novecentesco. I personaggi dell’opera apparentemente stereotipati (il basso buffo avaro, brontolone e vanaglorioso, la protagonista matura, giusta e saggia contrapposta alle perfide sorellastre ottuse e egoiste, il tenore amoroso e il baritono tuttofare e truffaldino) improvvisamente sfondano la quarta parete uscendo materialmente dallo schermo come Tom Baxter ne La rosa purpurea del Cairo prendendo vita propria all’interno del mondo reale. Ritmo e melodia battagliano continuamente costringendo lo spettatore a imporsi di restare fermo mentre l’istinto suggerirebbe di gettarsi in questa danza orgiastica. In tutto questo, Angelina è il personaggio che tiene ancorata una nave che altrimenti vagherebbe senza controllo; irremovibile nelle sue convinzioni è seme che aspetta pazientemente il momento di germogliare. Anche dal punto di vista canoro, la protagonista attende più di due ore prima di poter sfoggiare la propria abilità. Ma quando arriva il suo momento il mondo è come se si fermasse ad ascoltarla. Ecco perché inventare nuove colorature, variazioni e cadenze non è solo una prassi filologica ma diventa una necessità drammaturgica!
Lei ha diretto molte opere di Bellini e Donizetti. Predilige l’opera comica o quella seria?
Non prediligo l’una rispetto all’altra ma di sicuro non ritengo il genere comico o ancor meglio semiserio (visto che contiene, in dosi diverse a seconda dei titoli, una vena patetica), inferiore a quello serio. Prova ne è che sia La Cenerentola come Il barbiere di Siviglia e L’Italiana in Algeri di Rossini, sia il Don Pasquale donizettiano, sia il Falstaff di Verdi sono universalmente considerati dei capolavori assoluti.
In ambito verdiano ha già diretto opere della maturità come La forza del destino, Aida, Otello e Falstaff dopo aver affrontato diverse opere giovanili e della “trilogia popolare”. Che cosa la affascina del percorso stilistico verdiano e quali temi, musicali e non, l’hanno fatta più meditare nel percorso direttoriale finora svolto per questo compositore tanto vicino all’italico sentire?
Come già affermato in più occasioni Giuseppe Verdi è per me la prova dell’esistenza di Dio. Ma questa domanda mi permette di affrontare uno dei tanti aspetti che caratterizza questo gigante: il suo percorso artistico. Ebbene Giuseppe Verdi è un libro aperto. La sua produzione è caratterizzata da tappe fondamentali a cui corrispondono capolavori assoluti, spesso assai diversi tra loro, intervallate da opere sperimentali caratterizzate da momenti splendidi seguiti da altri non risolti. Studiando Il corsaro, per esempio, si arriva a comprendere come il quartetto del Rigoletto non sia una intuizione fortunata ma un modello di perfezione a cui il compositore è pervenuto grazie a svariati tentativi precedenti. Dunque un grande artigiano della composizione ma che di geniale aveva la capacità di cogliere l’essenza di un dramma in maniera efficace sintetizzandolo in modo semplice e lineare. La sua musica scandaglia l’animo umano come pochi altri hanno saputo fare e socchiude continuamente porte attraverso le quali cercare risposte ai quesiti che da sempre affollano la mente umana. E più si approfondisce lo studio di questo genio più accresce il numero delle domande rispetto alle risposte, così come avviene confrontandosi con la maggior parte delle figure fondamentali che hanno accompagnato il percorso evolutivo dell’essere umano.
Mi permetta una notazione personale finale, legata al suo privato. Lei posta molto, sui social, immagini di cani abbandonati invitando a superare situazioni difficili tramite l’adozione. Si è anche adoperato in prima persona per risolvere situazioni difficili. Ci vuole parlare di questo suo impegno?
Purtroppo in Italia la cultura della sterilizzazione degli animali, sia randagi sia domestici, per molti è ancora un tabù. C’è chi lo ritiene un atto contro natura, chi un affronto alla virilità maschile; intanto i canili abbondano di animali abbandonati e, specialmente nel Sud, molti paesi sono invasi da branchi di cani randagi. Spesso e volentieri questi splendidi e fidati compagni sono vittime di violenze ingiustificate e gratuite di cui solo l’uomo è capace. Trovo sia normale usare i social per testimoniare il valore aggiunto che un animale d’affezione porta all’interno della propria vita e conseguentemente suggerire a chi volesse prenderne uno, di salvarlo da una esistenza da recluso fosse pure nel miglior canile esistente.
Cosa si attende ancora per il suo futuro di direttore d’orchestra?
Fino a quando una modulazione mi provocherà stupore e ammirazione, una frase musicale favorirà un attacco di riso o le lacrime agli occhi pur avendola ascoltata centinaia di volte, una partitura mi terrà sveglio tutta la notte o un nuovo debutto mi ecciterà come uno scolaretto, allora questa professione sarà il galeone con cui affronterò i flutti del futuro. E siccome, nonostante ci siano ancora parecchie terre da esplorare, ho momentaneamente attraccato a Colonia, la ringrazio per questa amabile chiacchierata e, dopo una bella passeggiata al parco con Zenzerino (il cagnolino dal maestro Beltrami, n.d.r.), tornerò nel palazzo, metà di cui è già crollato e l’altra è in agonia, di Don Magnifico!