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Dai Beatles a Mascagni, vi racconto la mia carriera – Intervista a Charles Castronovo

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Nato a New York da padre siciliano e madre ecuadoriana, Charles Castronovo è attualmente uno dei tenori più richiesti della scena operistica mondiale. La sua è una carriera che si è sviluppata in modo saggio e graduale, dai primi ruoli leggeri affrontati nelle piazze statunitensi meno importanti, anche se il debutto al Met arriva già nel 1999 come Beppe nei Pagliacci, fino a diventare la star di punta in prestigiose produzioni nei teatri di Londra, Madrid, Parigi, Chicago, Monaco di Baviera, Berlino, nonché nei principali festival mondiali. Il suo repertorio spazia da Mozart al Belcanto fino a Puccini e ultimamente si va arricchendo sempre più di ruoli verdiani come Gabriele Adorno del Simon Boccanegra (Salisburgo 2019), Carlo nei Masnadieri (Monaco di Baviera, 2020) e Rodolfo della Luisa Miller la scorsa estate a Glyndebourne, che ha segnato il suo definitivo ritorno sulle scene dopo il Covid. In occasione del suo debutto come Fritz Kobus ne L’amico Fritz al Teatro del Maggio di Firenze, Castronovo si racconta al pubblico italiano.

Partiamo dalle origini: cosa l’ha spinta a intraprendere la carriera da musicista e di tenore in particolare?
A 13-14 anni avevo una passione per i Beatles e il rock’n’roll, in particolare per i Led Zeppelin. Imparai a suonare una chitarra acustica di poco valore per cantare con gli amici e un giorno a scuola, avrò avuto 15 anni, stavamo suonando durante una pausa quando l’insegnante del coro si avvicinò e mi disse “Hai davvero una bella voce. Ti andrebbe di unirti al coro?”. Io ero titubante ma lui insisteva, puntando anche sul fatto che la compagine era composta prevalentemente di ragazze, un fattore non di poco conto per un quindicenne. Accettai, ma l’insegnante si accorse subito che la mia voce era troppo “pulita” per cantare pop-rock e a quel punto fui indirizzato verso il canto lirico. Alla passione per l’opera contribuì molto anche un CD che mi prestò il padre italiano e melomane di un mio amico, una raccolta di arie cantate da varie tenori. Ne rimasi affascinato e da allora ho sempre voluto replicare quei suoni.

A tal proposito, chi sono i suoi modelli canori, passati e presenti?
Cerco di trovare qualcosa di particolare da ammirare in tutti i tenori, compresi i miei colleghi: spesso uno riesce a fare cose tecniche o espressive che io non so o non posso fare e ciò mi affascina tantissimo. Tuttavia, se dovessi sceglierne tre tra i grandi, prenderei Di Stefano, soprattutto per come riusciva a far emozionare il pubblico con la voce, Wunderlich per la natura e l’eleganza, e poi Bergonzi, anzi direi che quest’ultimo è quello a cui mi sento più vicino: con la sua voce tutti i ruoli mi sembrano tecnicamente più facili anche per la mia voce.

Veniamo a questo suo ultimo debutto: cosa pensa del ruolo di Fritz?
Prima che mi proponessero questo ruolo, conoscevo solo il famoso duetto delle ciliegie e credevo fosse tutto leggero come quel passaggio. Studiandolo è subito emerso come ci siano parti più impegnative, basti vedere il finale del secondo atto e tutta l’ultima parte. È molto interessante da cantare: è un ottimo banco di prova per avvicinarsi a ruoli più legati al verismo, ma è anche un ottimo esercizio per la voce. Inoltre, è un ruolo interessante anche da mettere in scena, pur non essendo così drammatico, e ciò anche grazie all’ottimo lavoro che abbiamo fatto con Rosetta Cucchi.

E di Mascagni?
Cavalleria è una delle mie opere preferite. Sento una forte connessione con questo capolavoro, lo trovo sempre molto emozionante, forse perché mio padre è siciliano.

Qual è il suo ruolo preferito?
Dal punto di vista scenico, Don José della Carmen, in quanto ti permette di fare le cose più diverse. Tuttavia, adesso sto studiando il ruolo di Riccardo del Ballo in maschera e sono innamorato sia della musica che della scrittura vocale: è come un ruolo belcantista ma innervato di maggiore forza. In questo momento della mia carriera infatti mi sento molto affine ai ruoli tenorili del Verdi di mezzo, da Luisa Miller al Ballo.

C’è un ruolo, anche impossibile, che sogna di cantare?
Nell’opera italiana il mio sogno è Don Alvaro della Forza del destino. Magari un giorno lo farò, il mio manager è fiducioso. L’altro grande sogno è Lohengrin: anche nella storia interpretativa è sempre stato il ruolo più italiano del repertorio wagneriano. Mai dire mai.

Che rapporto ha con i registi?
Cerco sempre di essere collaborativo e di non oppormi mai per partito preso, anche quando non capisco o non sono d’accordo con l’idea registica. Forse in ciò mi ha aiutato l’aver lavorato tanto in Germania, dove fanno cose un po’ pazze, ma mi impongo di essere flessibile, e difficilmente dico di no, a meno che non si tratti di fare posizioni impossibili in passaggi vocali complicati: anche in quel caso cerco sempre di mediare.

C’è una produzione a cui è più legato?
Sicuramente la Lucia di Lammermoor di Katie Mitchell fatta a Londra qualche anno fa. Ma non posso non menzionare La damnation de Faust con la regia di Terry Gilliam: molto difficile da fare ma divertentissima. E una delle cose più incredibili a cui abbia preso parte è L’incoronazione di Poppea di Warlikowski a Madrid: cantavo Nerone nella trasposizione per tenore e il regista mi chiese di fare cose che inizialmente mi lasciarono di stucco, ma tuttora ne conservo un ricordo entusiasmante.

Una domanda di attualità: crede che gli artisti debbano condividere le proprie opinioni politiche o dovrebbero astenersi così da evitare eventuali ripercussioni sulla carriera?
Oggi avere un profilo social quasi ci forza a dire qualcosa su quello che accade attorno a noi: il non schierarsi viene comunque visto male dall’opinione pubblica, anche se è praticamente ovvio che siamo tutti contro la guerra, non credo ci sia bisogno di dirlo. A me ad esempio non piace molto questo continuo bisogno di esprimersi sull’attualità. Se uno vuole farlo, è liberissimo, ma non bisogna per questo forzare tutti. Penso soprattutto a tanti colleghi russi che, senza essere direttamente legati alle alte schiere di potere, ma persone normalissime, non vogliono o non possono esprimere la loro opinione per evitare ritorsioni. Io sono fortunato nel potermi esprimere liberamente, se voglio, ma non mi sognerei mai di chiedere a qualcuno di ripudiare il proprio Paese per le scelte fatte dai governanti: io stesso non sono stato un trumpiano e non mi sono piaciute molte sue decisioni, ma anche in quelle circostanze non mi sarebbe mai venuto in mente di ripudiare il mio Paese.

Come ha già menzionato, suo padre è siciliano. Qual è il suo rapporto con l’Italia?
Mio padre arrivò negli USA quando aveva 16 o 17 anni, così come anche mia madre dall’Ecuador. Sono il primo della mia famiglia a essere nato in America, e anche per questo da bambino sono stato poche volte in Sicilia. Quando poi ci siamo trasferiti da New York alla California, eravamo quasi gli unici italiani, mio padre parlava in dialetto solo quando parlava con i parenti, ma in casa si è sempre parlato inglese, come forma di integrazione. Quando a 20 anni feci un lungo viaggio in Europa, decisi di andare a passare del tempo in Sicilia dai miei parenti. Sul traghetto che attraversava lo Stretto di Messina, quando il ragazzo con cui avevo fatto amicizia mi indicò la costa e i monti verso cui stavamo andando, ho avuto una sorta di epifania: ho avvertito una forte connessione e ho riconosciuto la terra in cui ho in qualche modo le radici in modo estremamente naturale. Da allora, ho cercato di tornare quando potevo ma la carriera ha ovviamente avuto la precedenza. Per di più ho cantato poco in Italia, dato che mi chiamano sempre troppo in ritardo: Alfredo Germont a Genova, Entführung aus dem Serail a Roma, una volta a Torino e adesso questo Fritz a Firenze. Ma in futuro tornerò sicuramente più spesso.

Come passa il tempo fuori dal palcoscenico?
Cerco di stare il più possibile con i miei figli, che abitano a Berlino. Mi piace guardare con loro i film di supereroi e fare attività fisica, e quando sono fuori casa, passo il tempo a telefono con i miei amici. In fin dei conti sono una persona normalissima che cerca di avere sempre un atteggiamento positivo: pensare in negativo richiede troppa energia, quindi cerco di migliorare me stesso in ogni modo. Soffro un po’ della sindrome dell’impostore, quindi è difficile che mi accontenti dei risultati raggiunti, ma cerco sempre di andare avanti, un piccolo passo alla volta, come ho sempre cercato di fare anche nella mia carriera.

A tal proposito, quali sono i suoi prossimi impegni e progetti?
Presto inciderò il mio primo album per una piccola casa discografica, che dovrebbe uscire a fine anno: dato che i dischi ormai sono solo un modo per avere visibilità, preferisco scegliere cosa cantare piuttosto che essere spinto da una major su pezzi a me non congeniali. Per quanto riguarda invece il palcoscenico, la prossima stagione debutterò a Monaco di Baviera Riccardo del Ballo in maschera, Pinkerton e Don Carlo. A Ginevra farò anche il Don Carlos francese. Sono tutti ruoli su cui ho iniziato a lavorare durante il lockdown, dato che è stata una rara occasione per studiare e lavorare sui dettagli, cosa che altrimenti è sempre difficile fare con i ritmi frenetici usuali. Il 2023 sarà quindi un grande anno, anche perché dovrebbe arrivare finalmente il debutto alla Scala come Gabriele Adorno in Simon Boccanegra.

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