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L’opera è un dialogo con la modernità – Intervista a Peter de Caluwe, direttore de La Monnaie di Bruxelles

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Usciamo dai confini del bel paese, dai mille problemi che affliggono i nostri teatri chiusi per una pandemia che non dà tregua, e vediamo cosa avviene in un prestigioso teatro europeo come il Théâtre Royal de La Monnaie di Bruxelles. Ne parliamo con Peter de Caluwe, che ne è direttore generale e artistico dal 2007, uomo di teatro a trecentosessanta gradi, occupatosi di comunicazione e pubbliche relazioni per poi divenire drammaturgo e responsabile casting. Ha collaborato, a inizio carriera, al fianco di Gerard Mortier a Bruxelles e poi di Pierre Audi ad Amsterdam. Oggi è una delle personalità manageriali più in vista a livello europeo in ambito operistico. Dal 2011 al 2013, è stato anche Presidente di Opera Europa, la principale organizzazione di compagnie operistiche e festival lirici professionali in Europa. Con lui si è dialogato su cosa significhi fare cultura e teatro musicale oggi e sulle prospettive de La Monnaie, uno dei teatri più all’“avanguardia” del panorama europeo. Bastano poche parole per comprendere come il maestro de Caluwe sia una persona diretta e schietta, oltre che di altissimo profilo culturale; un uomo di spettacolo con mente aperta verso un’idea di teatro musicale calato nella contemporaneità, con prospettive molto chiare su come debba essere organizzato il teatro che dirige, con una gestione trasparente e in un dialogo costante col proprio pubblico e gli agenti esterni che ne determinano la vita, contribuendo al formarsi di una fisionomia che fa oggi de La Monnaie un punto di riferimento europeo per come ben operare in ambito operistico.

Iniziamo la nostra conversazione parlando di lei.
Sono un sovrintendente e direttore artistico che ha percorso i gradini necessari per comprendere tutte le dinamiche dell’organizzazione e gestione teatrale. Da quando Mortier mi chiamò a Bruxelles come drammaturgo, mi sono occupato anche di comunicazione e, poco per volta, ho acquisito tutte le nozioni per divenire un direttore di teatro a tutto tondo grazie anche all’esperienza maturata ad Amsterdam al fianco di Audi.

Cosa significa dirigere un teatro come La Monnaie di Bruxelles?
Per me lavorare nel teatro della città dove ha sede la Comunità Europea è importantissimo, richiede un impegno costante per mettere insieme tutte le culture che fanno parte delle mille sfaccettature di cui è ricca la cultura europea. Ho scelto, per questo, di invitare nel nostro teatro tutti gli artisti che ritengo emblematici di ogni nazione che ne fa parte, per esempio, per l’Italia, il regista Romeo Castellucci, che da noi ha realizzato, con Parsifal di Wagner, la sua prima regia d’opera. Ho sempre operato perché a Bruxelles si potessero incontrare tutte le diverse visioni del teatro e della musica che fanno parte della comunità che li accoglie. La posizione di Bruxelles è in tal senso un ideale crocevia di culture fra il nord e il sud, fra la drammaturgia di mentalità tedesca e i sentimenti estetici latini, italiani e francesi. Tutto questo offre uno specchio di possibilità enorme nel quale operare in modo da far convivere e dialogare fra di loro queste tendenze. Il nostro teatro non ha forse la grande tradizione passata di una Staatsoper di Monaco, di una Scala di Milano o di una Staatsoper di Vienna. Tutto da noi viene messo in discussione e siamo, da subito, abituati a metterci in gioco.

Così è avvenuto anche in questo periodo di chiusura del teatro a causa della pandemia?
Assolutamente sì. Il 13 marzo dello scorso anno il teatro ha calato il sipario e cancellato tutte le produzioni della passata stagione. Non avevamo avuto in teatro nessun caso di Covid-19, eppure abbiamo deciso di prevenire prima di curare e, per quanto la situazione fosse dolorosa per tutti, si è operata questa scelta. Ovviamente, mentre pensavamo che lo stop sarebbe durato solo qualche settimana, fummo costretti poco per volta e prendere atto della difficile situazione. Mi ha ispirato un’immagine molto importante, giuntami da Bergamo, la città in quei giorni così ferita. Poi si è aggiunta la morte di Luca Targetti, per me un grande amico oltre che agente che ha sempre collaborato col nostro teatro, la prima vittima di questo virus che conoscevo personalmente. Dopo la sua scomparsa e dopo aver visto cosa avveniva a Bergamo, capii che non potevamo proseguire come se niente fosse. A Bruxelles la situazione non era al quel momento così grave, il peggio doveva ancora venire, ma cominciai da subito a pensare come operare in un frangente tanto difficile e nuovo. Le prime settimane furono un po’ confuse perché tutti non sapevamo cosa poter realmente fare. L’unica cosa da subito certa fu che, fino a giugno, il teatro sarebbe rimasto chiuso.

Non si è pensato allo streaming?
Per me è importante l’incontro fra l’artista e il pubblico, senza il quale far teatro non ha senso. La mia formazione di drammaturgo mi suggeriva che il teatro non si fa solo sul palcoscenico ma nella testa dello spettatore; senza di lui tutto è vano. L’incontro con l’artista e la storia che racconta è la nostra stessa storia: quella che è nella mente di chi la narra, in rapporto diretto con chi la vede e la ascolta, con la sua sensibilità e i suoi sensi. Per questo vedevo molto difficile fare un’opera senza pubblico. A settembre la programmazione è ripresa, ma ovviamente abbiamo dovuto rimodulare l’intera stagione e tutte le produzioni importanti che non hanno potuto andare in scena durante il lockdown sono state spostate, non cancellate. Abbiamo utilizzato parte degli artisti che erano in cartellone nella stagione del 2020 per quella attualmente in corso e, per chi lo desiderava, abbiamo garantito la copertura del venti per cento sui cachet di contratti già stipulati e rinnovati spostando le produzioni. So che questo non è sempre avvenuto in Italia, dove in alcuni teatri si è verificato l’arrivo di star che hanno rimpiazzato, con nuovi titoli, contratti cancellati ad altri artisti. Il nostro agire credo abbia avuto anche un risvolto morale nei confronti di cantanti che si sono trovati in improvvisa difficoltà. Non possiamo fare il teatro senza artisti, per noi sono come una sorta di “famiglia” che in un momento di difficoltà come questo andava sostenuta, garantendo nuovi progetti o spostando in altre date quelli non andati in porto come avremmo voluto.
Fatto questo, abbiamo cambiato tutta la programmazione da settembre a dicembre, adattando i progetti per la previsione di un pubblico ridotto, ma in presenza. Abbiamo ad esempio realizzato una edizione di Die tote Stadt (La città morta) di Korngold con orchestra ridotta, adottando tutte le precauzioni per andare in scena in sicurezza. Ci tenevo a non far saltare questo progetto in omaggio ai cento anni dalla prima esecuzione di quest’opera legata al Belgio perché ispirata al romanzo del fiammingo Georges Rodenbach, Bruges-la-Morte. Dopo due recite c’è stata una nuova chiusura e tutta la programmazione della fine dell’anno passato è slittata per preservare il lavoro che i nostri artigiani avevano già fatto. Per me questo era importantissimo. Tutte le produzioni già pronte andranno in un magazzino in attesa di essere riprese. Così vale per il progetto Bastarda, cui seguirà Enrico VIII di Saint-Saëns, entrambe riprogrammate nel 2023. Buona parte degli artisti che avrebbero dovuto prendere parte a Bastarda sono appena arrivati a Bruxelles per un nuovo progetto legato al belcanto. Purtroppo non abbiamo potuto riprendere The Turn of the Screw di Britten, perché non si potevano ospitare cantanti in arrivo dalla Gran Bretagna.

Una stagione che sembrava ispirata a tematiche inglesi?
Esattamente. Avevo studiato un cartellone che avesse come filo conduttore il richiamo alla cultura musicale e alla storia inglese. C’era Shakespeare con Falstaff di Verdi, The Turn the Screw di Britten, Enrico VIII di Saint-Saëns e, appunto, il progetto intitolato Bastarda. Era mia precisa intenzione, in tempi di Brexit, fare riferimento all’eredità della cultura inglese e all’importanza che essa ha avuto ed ha per l’Europa.

Può spiegarci in poche parole in cosa consiste l’ambizioso progetto Bastarda, che verrà ripreso nel 2023?
Vuole essere un omaggio alla regina Elisabetta I d’Inghilterra attraverso le quattro opere di Donizetti che si ispirano alla sua figura e alla sua epoca: Elisabetta al castello di Kenilworth (1829), Anna Bolena (1830), Maria Stuarda (1834) e Roberto Devereux (1837). Al tempo stesso intende rendere omaggio alla regina Elisabetta II ancora oggi sul trono e che, grazie al successo planetario della serie Netflix The Crown, è divenuta ancora più popolare. L’opera è una combinazione su due serate che in sei episodi narrano la vita di Elisabetta I. Tutta una storia sulla sua vita, che ne percorre le diverse tappe, parlando della di lei madre Anna Bolena, della rivale Maria Stuarda e dell’amante Roberto Devereux. Compito del regista Olivier Fredj, con la collaborazione artistica di Cecilia Ligorio e del direttore d’orchestra Francesco Lanzillotta, è ripercorrere questa epopea distillando una colonna sonora dalle suddette opere che narrano appunto la vita della regina e della donna che, nonostante il suo potere, è combattuta tra gli affari di Stato e i suoi sentimenti più intimi. Il risultato è una maratona operistica di sei ore, divisa in due serate: “For better, for worse …”, racconta la storia dell’infanzia di Elisabetta e della sua improvvisa ascesa al trono, mentre “… Till death do us part” racconta il suo inevitabile declino. Ho scelto questa idea che è nata dopo il successo riscosso col progetto dedicato alla trilogia Mozart-Da Ponte. Ora sto lavorando su un analogo progetto dedicato a Verdi. Bastarda è come fosse una serie Netflix in sei episodi tradotta in teatro musicale, ma rigorosamente concepita per la scena; rimodularlo per lo streaming lo avrebbe mortificato. Come detto, lo vedremo nel 2023.

Nel frattempo, però, nasce il progetto su Elisabetta, regina d’Inghilterra di Rossini e su La favorita di Donizetti che verrà trasmesso in diretta streaming l’11 e 12 marzo. Di cosa si tratta?
Gli artisti italiani che stanno provando in questi giorni sanno bene che non eseguiranno le due suddette opere, bensì due serate intitolate La regina e il suo favorito (per l’Elisabetta, regina d’Inghilterra di Rossini) e Il re e la sua favorita (per La favorita di Donizetti). Ancora alla concezione visiva e alla mise en espace di Olivier Fredj e alla direzione d’orchestra di Francesco Lanzillotta, che realizzeranno la posticipata Bastarda, è affidato il compito di trarre circa il settanta per cento di musica dell’opera di Rossini e di Donizetti con un nuovo progetto idealmente collegato al primo. Utilizzeremo la stessa attrice, una bambina che avrebbe dovuto dar vita a Bastarda interpretando la giovane Elisabetta I e, in questo nuovo progetto, sarà la bambina che entra nella platea vuota e racconta la storia della regina e del suo favorito, poi quella del re e della sua favorita interagendo con i cantanti e presentando anche la storia di ciò che si vedrà e sentirà. Per l’opera di Rossini canteranno Salome Jicia (Elisabetta), Sergey Romanovki (Leicester), Lenneke Ruiten (Matilde), Enea Scala (Norfolk) e Valentina Mastrangelo (Enrico); per quella di Donizetti, Vittorio Prato (Alfonso), Raffaella Lupinacci (Leonora), Luca Tittoto (Baldassarre), Enea Scala (Fernando), Valentina Mastrangelo (Ines) e Gavan Ring (Don Gasparo). Questi spettacoli saranno realizzati in diretta, con immagini video preregistrate. Molti dei giovani cantanti sono italiani, di grande talento e che ammiro molto, come Enea Scala, un tenore che a La Monnaie ha affrontato importanti debutti che l’hanno, a passi ben meditati, convinto che era il momento di allargare il proprio repertorio. Prima di questo omaggio al belcanto italiano è andato in scena in diretta streaming Der Schauspieldirektor (L’impresario teatrale) di Mozart diretto dal nostro direttore musicale Alain Altinoglu, mentre a Michael De Cock e a Fabrice Murgia è stato affidato l’intero progetto visivo di questa versione attualizzata del breve Singspiel, con i dialoghi opportunamente adattati all’emergenza Covid; sono loro che hanno curaro il concetto, la regia delle parti filmate, la messa in scena e l’adattamento del libretto, che ha previsto l’aggiunta di alcune pagine mozartiane, fra cui l’Ouverture de Le nozze di Figaro e l’aria da concerto “Vorrei spiegarvi, oh Dio”.

Come hanno reagito le masse artistiche dinanzi a questo lungo periodo di chiusura del teatro?
Sono sempre stato in contatto diretto col Consiglio di amministrazione attraverso riunioni in Zoom. Per gli artisti dell’Orchestra e del Coro, che non potevano lavorare, ho percepito, anche se non spetterebbe a me dirlo, grande riconoscenza per il sostegno che il teatro ha garantito loro con stipendio pieno, senza che nessuno si sentisse mortificato economicamente. Ho avvertito una energia positiva, ma anche un senso di fatica nel riprogrammare tutto ciò che era stabilito e poi subito cancellato per nuove direttive legate ai cicli pandemici. Una situazione non facile da gestire, ma sempre con grande speranza su un futuro pronto subito a ripartire al momento di un’eventuale e auspicata riapertura. Anche con i partners esterni, come gli agenti, c’è stato grande lavoro e piena collaborazione.

Quindi gli agenti non sono il “cancro” dell’opera?
Al contrario, sono utilissimi e preziosi. Bisogna solo saper lavorare con loro, non accettare i pacchetti quando si formano i cast e instaurare una collaborazione di stima e sostegno reciproco che non induca per forza di cose a cercare canali preferenziali, quanto piuttosto a creare un confronto costruttivo e trasparente.

Può fotografare in poche parole il pubblico de La Monnaie di Bruxelles?
Per lo più è formato da locali belgi. Abbiamo l’otto per cento di spettatori che vengono dall’esterno. Non è forse un pubblico che ha una tradizione paragonabile a quella di altri teatri italiani, nei quali si trovano appassionati che si muovono a vedere spettacoli in altre città, mossi da interessi legati a questo o quell’altro artista, o regista. Eppure è curioso e accetta di essere stimolato. Ci impegniamo molto a prepararlo quando proponiamo opere poco note o spettacoli che registicamente escono dai binari della cosiddetta tradizione. Sostengo che la tradizione non sia sempre la strada giusta da seguire, anzi desidero che venga messa in discussione. Per me la cosa più importante è capire l’idea che un compositore ha avuto quando pensò a un’opera; bisogna partire da lì, da ciò che l’autore aveva nella mente al momento in cui decise di musicare un soggetto e capire come comunicarlo al pubblico di oggi nel suo messaggio autentico. Questo non significa per forza di cose modernizzare e andare contro una vecchia idea di tradizione, bensì realizzare l’idea del compositore come se nascesse oggi. Io parlo spesso col mio pubblico e dialogo con loro tentando di aprirgli la mente anche quando vedo preclusioni. Spesso, riguardando spettacoli che hanno fanno discutere o analizzando assieme aspetti che hanno suscitato iniziali perplessità perché non capiti, ho visto persone tornare sulle loro idee una volta che si sono spiegati loro i motivi per cui sono state fatte scelte da subito non facili da comprendere. Anche questa, per me, è una grande conquista.

Photo credit immagine copertina: Mireille Roobaert

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