Chiudi

Dal Belcanto a Boris: la mia voce per la Scala – Intervista a Ildar Abdrazakov

Condivisioni

Ildar Abdrazakov è uno dei maggiori bassi dei nostri tempi. In questi giorni è al Teatro alla Scala di Milano per vestire i panni di Banco nel Macbeth di Verdi che ha aperto la stagione, ma in passato aveva già preso parte ad altre inaugurazioni: due con la direzione d’orchestra di Riccardo Muti (Iphigénie en Aulide nel 2002 e Moïse et Pharaon nel 2003), due con quella di Riccardo Chailly, prima con Attila nel 2018 e l’anno scorso con la Serata “…a riveder le stelle”.
Oggi è dunque al suo quinto 7 dicembre, ma il pubblico scaligero l’ha già eletto come presenza di riferimento in un repertorio che spazia dall’opera del primo Ottocento italiano (il debutto su questo palcoscenico avvenne nel 2001 con La sonnambula) a Verdi.
L’abbiamo incontrato in vista del suo prossimo recital alla Scala, il 20 dicembre, nel corso del quale eseguirà, accompagnato al piano da Mzia Bachtouridze, pagine da camera russe di Georgij Sviridov e Modest Musorgskij e la scena finale di Boris da Boris Godunov, opera con la quale tornerà il prossimo anno per aprire nuovamente la stagione del teatro milanese.

Signor Abdrazakov, in diverse occasioni il pubblico milanese ha avuto occasione di ammirare la sua voce. Cosa significa per lei solcare un palcoscenico come quello della Scala, che in anni passati ebbe in Nicolaj Ghiaurov un punto di riferimento per la corda di basso?
Sono molto felice di festeggiare il mio ventennio di presenza in questo leggendario teatro, che mi ha visto cantare diverse opere che hanno accompagnato lo sviluppo della mia voce, passando dal belcanto a Verdi, compositore quest’ultimo che oggi prediligo. In merito a Ghiaurov, lo considero un gigante, un modello inarrivabile, eppure mi sento onorato di poter oggi interpretare parti su un palcoscenico che segnò i suoi trionfi.

Analizziamo l’evoluzione della sua voce. Lei ha iniziato come basso-baritono rossiniano e ancora esegue ruoli del genio pesarese. Come riesce a far convivere, ora che il suo repertorio si è assai allargato, vocalità tanto diverse?
Quando ho iniziato a cantare, la mia insegnante in Russia mai mi disse che tipo di voce avevo; non ero un baritono, ma neanche un basso. Quando cominciai avevo quattordici anni e la voce non aveva ovviamente ancora trovato, nelle sonorità gravi, quegli spazi che si acquistano solo nella piena maturità. Oggi ho quarantacinque anni e sento, con naturalezza, che certe cose mi portano sulla via di una vocalità più simile a quella del basso. La mia insegnante era convinta che sarebbe stato così per me, e aveva ragione. Mi disse che dopo i cinquanta anni avrei raggiunto il massimo sviluppo dello strumento vocale. Diciamo che il percorso potrebbe essere assimilabile a quello che fa un autista di Formula 1. C’è sempre qualche curva o qualche ostacolo in una pista da corsa; bisogna essere sempre attenti a tutto, ma quando si è preparati a intraprendere la gara arrivano poi le soddisfazioni.
Venendo a Rossini, e alle diverse tipologie di basso declinate dal genio pesarese, devo distinguere l’opera comica da quella seria. Nel repertorio buffo si può giocare sui colori, mentre in quello serio si avverte un maggior spessore orchestrale e una vocalità che, in alcuni cantabili, fa pensare a Donizetti. Certo Rossini vuole flessibilità nel canto di coloratura, ma oggi riesco ancora a dominare certe parti che mantengo in repertorio anche se la mia vocalità si è evoluta verso altri orizzonti.

Lei ha affrontato diversi ruoli dell’opera francese (Carmen, Faust e La damnation de Faust), il belcanto italiano (Lucrezia Borgia e Anna Bolena) e Verdi. Quale repertorio o autore sente oggi più attinente a una vocalità che, come la sua, è in bilico fra quella dell’autentico basso o, nella accezione ottocentesca del termine, del basso cantante, o basso-baritono?
Non ho mai tentato di scurire artatamente il colore della voce, né ho cercato di cantare in modo diverso da quella che è la mia natura. La voce, dal mio punto di vista, deve essere mantenuta sempre bella e fresca. La mia predisposizione alla cantabilità e al legato mi fanno sentire vicino alla tipologia di canto più vicina alle caratteristiche di quel repertorio che si definisce di basso cantabile, ancora diverso da quello che, in francese, è appannaggio del baryton-basse.

Quali sono i compositori che oggi sente adatti al naturale sviluppo della sua vocalità?
Certamente Verdi e, nel repertorio della mia terra, Musorgskij e Cajkovskij. Di quest’ultimo, quando canto la sua musica vocale da camera, percepisco che il suo melodizzare è vicinissimo al mio sentire e alle mie emozioni.

Esiste quella che nell’immaginario collettivo viene definita la voce verdiana e quali sono le caratteristiche che la contraddistinguono?
Grazie per la domanda! Credo che un cantante italiano sarebbe più adatto di me a spiegare cosa sia. Personalmente credo che una voce verdiana debba essere nobile, con una cantabilità ampia e con acuti ben coperti, senza che mai un suono risulti forzato, come sempre mi ha insegnato il maestro Riccardo Muti, con il quale ho avuto la fortuna di cantare spesso Verdi. Si deve insomma partire dal suono, renderlo bello e legato.

Detto così, sembra che siano richieste le medesime caratteristiche proprie al belcanto di Bellini o Donizetti. Quindi Verdi non chiede altro?
Nella sostanza l’approccio, per quanto riguarda l’emissione del suono, deve essere il medesimo. Forse Verdi vuole più scavo della parola, ma anche nella declamazione pretende morbidezza oltre che sostanza vocale ed espressiva.

Cosa gli ha chiesto nello specifico il maestro Riccardo Chailly per delineare musicalmente la parte di Banco?
Non è un personaggio che sta tanto sul palcoscenico, ma è comunque un ruolo che ho cantato spesso, anche in passato. Chailly mi ha domandato maggiore attenzione alla parola e al fraseggio, ma abbiamo costruito alcune atmosfere espressive, soprattutto a metà dell’aria. Ci siamo intesi alla perfezione.

Veniano al repertorio russo, che sarà oggetto del recital che affronterà alla Scala il prossimo 20 dicembre, nel corso del quale canterà anche la morte di Boris dal Boris Godunov, opera che ha già affrontato diverse volte sulle scene. Ci vuole parlare di questo personaggio e come lo sente?
Il personaggio di Boris ha una parabola espressiva variegatissima e ricca di contrasti. Nel primo atto, nel cantabile prima della sua incoronazione dinanzi al popolo è ancora preso dai dubbi, dai rimorsi quando intona le parole “Triste è la mia anima! Un involontario terrore di funesti presentimenti mi stringe il cuore”; è un personaggio che ha paura, carico di timori. La considero una scena importante, perché Boris qui parla fra sé e sé e, nonostante sia nominato Zar, non si sente ancora pronto. Quando deve rapportarsi con i figli Feodor e Ksenija, diventa più umano. Nel duetto con Sujskij, invece, è aggressivo e scaccia il subdolo boiardo dopo aver sentito i suoi racconti per poi abbandonarsi alle allucinazioni che gli fanno apparire lo spettro del defunto Dmitrij. Quando si trova in faccia alla morte è ancora diverso, mostra la commossa umanità di un padre smarrito che premurosamente si raccomanda a Feodor perché gli succeda sul trono con gli strumenti giusti per regnare e si affida alle forze celesti perché benedicano i suoi figli. Tutto questo percorso, sia umano che psicologico, rende il personaggio talmente sfaccettato, regale, spietato ma anche capace di suscitare pietà, da renderlo autentico, vero, mai monolitico. La mia lingua madre, il russo, mi aiuta inoltre a legarmi ad un personaggio che in quel declamato drammatico, scolpito ma illuminato da bagliori di lirismo, sento nel profondo dell’anima.

A chi deve dire grazie per la maturazione della sua vocalità e del suo essere artista?
Ringrazio la fortuna e la possibilità che ho avuto di lavorare con grandi direttori d’orchestra, primo fra tutti Riccardo Muti, che per Verdi mi ha svelato un mondo. Prima ancora ricordo gli anni al Teatro Marinskij di San Pietroburgo e al lavoro fatto con il maestro Gianandrea Noseda, col quale ho iniziato a cantare Mozart, con Le nozze di Figaro e Don Giovanni, e poi il belcanto, con La sonnambula e Lucia di Lammermoor. In Italia, nel 2000, ho vinto il V Concorso Internazionale “Maria Callas – Nuove voci per Verdi” e grazie a Ernesto Palacio, con il quale ho anche studiato, mi si sono aperte le porte dei palcoscenici italiani. Avvicinarmi ai vocal coach italiani è stato inoltre fondamentale per il mio percorso di cantante e artista.

Quali traguardi o obiettivi pone ancora alla sua carriera?
Molti sono i progetti di riprendere parti che fanno già parte del mio repertorio. Di Verdi mi manca Zaccaria in Nabucco e debutterò il prossimo anno Scarpia in Tosca al San Carlo di Napoli. Altro ruolo nuovo, che mi sta a cuore, è quello del titolo in Don Quichotte di Massenet; offre molte possibilità all’interprete ed è perfettamente attinente alla cantabilità della mia voce.

Parliamo di quello che viene definito il teatro di regia. Si sente maggiormente a suo agio in un contesto registico e visivo tradizionale o innovativo?
Amo molto le produzioni moderne. Mio padre stesso è regista di cinema e da lui ho imparato un linguaggio che vedo ha ormai coinvolto anche il modo di far spettacolo d’opera. Credo che il Macbeth scaligero sia un allestimento che guarda molto “avanti”, foriero di sviluppi futuri. Per altro, anche i parigini quando videro la Torre Eiffel gridarono allo scandalo e volevano che venisse abbattuta; oggi, invece, è divenuto simbolo della città stessa.

Come ha vissuto questo difficile periodo della pandemia?
Per me è stato un momento utile a vivere più vicino ai miei figli e, l’anno scorso, sono diventato papà per la terza volta. Una pausa, di tanto in tanto, anche se per motivi che nessuno di noi avrebbe voluto o immaginato, può offrire diverse prospettive e farci pensare sulle cose veramente importanti nella vita.

Cosa le crea più problemi nel suo essere cantante?
Amo il mio mestiere, non la disarmonia che talvolta viene ad instaurarsi con registi con i quali capita di trovarsi in disaccordo. In quel caso, bisogna iniziare a giocare di diplomazia. L’ideale è invece quando si crea quella sintonia che da subito permette di lavorare sereni, come tendenzialmente mi predispongo sempre a fare. Sul piano personale, carriera a parte, mi mancano i miei figli, che sono ancora piccoli e la distanza da loro spesso non mi aiuta.

Crede che il pubblico, attraverso televisione, social network e internet, abbia cambiato la percezione che oggi si ha di una voce di cantante d’opera?
Si tratta di un discorso molto articolato. La tv e i social permettono di allargare la fascia di pubblico e lo rendono più globale, ma l’esperienza del teatro va vissuta dal vivo; non si deve scambiare una cosa per l’altra. La percezione stessa di una voce ascoltata a casa, rispetto che in teatro, è differente. I nuovi mezzi di comunicazione servono alla divulgazione dell’opera, a mostrare aspetti poco conosciuti, come le prove e il backstage, ma non si deve dimenticare che lo spettacolo teatrale va fruito soprattutto nelle sedi che gli competono. Diversamente, poco per volta, lo si ucciderà.

image_print
Connessi all'Opera - Tutti i diritti riservati / Sullo sfondo: National Centre for the Performing Arts, Pechino