Spazia dal Belcanto di Rossini – di cui sostiene sia le parti di baritenore che quelle acutissime e pirotecniche di tenore contraltino – ai ruoli del repertorio protoromantico e romantico, con qualche sconfinamento nell’operismo francese. Di recente, ha iniziato ad accostare Verdi e, potendo contare su una vocalità particolarmente estesa e duttile, in futuro non esclude qualche sorpresa nell’ampliamento del repertorio. Con queste qualità Enea Scala si inserisce a pieno diritto nella tradizione del Belcanto all’italiana ed è di fatto uno dei tenori di punta dell’attuale panorama lirico. Da domenica 26 gennaio, per l’apertura della Stagione 2020 del Teatro Filarmonico di Verona, vestirà i panni di Edgardo in Lucia di Lammermoor di Donizetti, l’opera che più di ogni altra è attraversata dalle atmosfere, dalle figure letterarie e dai miti culturali di cui è intrisa l’anima del Romanticismo.
Partiamo da Edgardo, quintessenza della vocalità romantica e punto di arrivo per un tenore che affronti questo repertorio. Quali sono le difficoltà maggiori del ruolo?
Per tradizione, Edgardo rappresenta un punto di arrivo di grandi vocalità. Assieme a quelli del Duca di Mantova, di Alfredo e di Rodolfo in Bohème, è un ruolo identificativo del tenore lirico talvolta di retaggio belcantistico o talvolta più tendente alla vocalità lirica piena o spinta. Per me, la difficoltà principale consiste nel trovare una chiave interpretativa che porti a ottenere la veridicità del carattere di Edgardo sia nell’eroismo tragico del finale dell’opera (“Tombe degli avi miei…”), sia nella sua ossessione premonitrice di future sciagure del primo duetto ( “Sulla tomba che rinserra”), sia nella veemenza dell’invettiva contro la famiglia di Lucia dopo la scoperta del già combinato matrimonio di questa con Arturo (“maledetto sia l’istante”…” ah vi disperdo!”). È necessario tenere conto di tutti questi aspetti e amalgamarli, dosarli con estrema attenzione per non rischiare di rendere l’invettiva del finale primo, cosi come altri momenti dell’opera, vocalmente troppo eroici e con accenti simil veristici. Ritengo che si debba sempre mantenere il giusto equilibrio tra l’emissione belcantistica e gli accenti virili richiesti dalla scrittura donizettiana, accompagnata da un’orchestra talvolta estremamente generosa e sonora.
Si può parlare di evoluzione psicologica nel caso Edgardo? Lucia in fondo è un’opera che si consuma in atti contemplativi, che privilegia i momenti del racconto e della memoria.
A mio parere, per Edgardo, si può parlare di una serie di reazioni istintive ed estreme che sono conseguenza delle scoperte fatte nel corso della vicenda. Edgardo incarna l’eroe tragico, perso nel suo eroismo fatto di titanica sconfitta contro il destino avverso. Altamente romantico è il motivo del suicidio che, all’epoca della prima rappresentazione, così come ci riportano le cronache, ha lasciato esterrefatto anche il pubblico, incredulo davanti alla catena di morti che si susseguono nel corso dell’opera.
Il suicidio di Edgardo, come la pazzia di Lucia, è una scena madre, quasi un microcosmo dell’anima romantica. Come la affronta?
È una scena che rappresenta un topos della storia dell’Opera. Lucia di Lammermoor è uno dei pochi esempi (o forse l’unico) di un’opera che ha per titolo il nome della protagonista femminile ma che si chiude con la lunga scena del tenore il quale spesso risulta, agli occhi del pubblico, il vincitore morale di tutta la vicenda. Quella di Edgardo è l’ultima voce che risuonerà nelle orecchie degli spettatori. Inutile negare la difficoltà della divisione tripartita recitativo-aria-cabaletta. Il lungo recitativo accompagnato – “Tombe degli avi miei…” – per la sua complessità già può rappresentare un’aria a sé. Non appena terminato, ti rendi conto che l’aria “Fra poco a me ricovero…” è uno scoglio ancora più impervio per il difficile legato che sale e scende facendosi gioco di un passaggio della voce che diventa il perno dell’aria stessa, cosi come poi lo sarà della successiva cabaletta “Tu che a dio spiegasti l’ali..”. Questa, tradizionalmente, viene eseguita con una lentezza quasi da Requiem in quanto segue la scoperta della morte di Lucia: nel tenore potrebbe essere motivo di ulteriore stanchezza che va ad accumularsi a quella già prodotta prima.
Un bell’impegno, insomma.
Sì, sono diciassette minuti di sofferenza emotiva oltre che di estrema attenzione e concentrazione, specie nel momento del passaggio “Bell’alma innamorata” che batte e ribatte in una progressione per semitoni (dal Fa diesis al La naturale), che necessita di un estremo appoggio, di una emissione non forzata e di una copertura adeguata della vocale A. Questa deve essere posizionata nella giusta via di mezzo che porta a non aprire il suono e a mantenere la giusta relazione tra proiezione vocale e bellezza di timbro anche sotto lo stress di una compressione diaframmatica portata all’esasperazione. Certo non dobbiamo dimenticare che, molto spesso, i registi fanno cantare la seconda parte della cabaletta sdraiati, riversi su un lato, a terra. Insomma, la vita è stata dura per noi tenori…
Donizetti è un caposaldo del suo repertorio. Ha intenzione di continuare a esplorarlo?
Certo. Continuerò a esplorare le opere di Donizetti. Ho iniziato con Don Pasquale poi è arrivato L’Elisir e in seguito Caterina Cornaro, Maria Stuarda, Il Duca d’Alba e Lucia di Lammermoor. A breve mi aspettano Roberto Devereux e Anna Bolena: non vedo l’ora di affrontare anche questi capolavori che, spero, mi accompagneranno per lungo tempo.
Quali sono, secondo lei, i legami tra il tenore donizettiano e quello verdiano?
Il tenore del primo Verdi, più belcantista, è strettamente connesso con quello donizettiano e di questo ne perpetua lo stile, il gusto per il legato esasperato, gli accenti, le puntature in acuto così come le cadenze. Il tenore protoromantico si sublima in questi due autori.
A proposito di Verdi, recentemente ha messo in repertorio, oltre a Fenton del Falstaff, anche Alfredo e il Duca di Mantova: pensa che la sua vocalità possa evolversi in direzione di altre grandi parti verdiane?
Ci sono buone probabilità che il mio repertorio si ampli verso quello verdiano, ma senza che questo possa prendere il sopravvento rispetto ad altri autori che hanno portato il mio percorso e la mia voce ad avere la speciale e rara peculiarità di essere estremamente duttili. Ci sono già delle idee ma, in ogni caso, non si parla di un futuro molto prossimo.
Il suo autore d’elezione, al momento, resta Rossini, di cui sostiene sia i ruoli da baritenore che quelli acutissimi e acrobatici per tenore contraltino. In quali si sente più a suo agio?
Come già il Maestro Zedda aveva intuito, mi sento più a mio agio nei ruoli da baritenore che non in quelli per tenore detto “contraltino”, sebbene entrambi condividano le stesse insidie nelle tessiture estremamente acute. Affronto le parti da puro baritenore con più disinvoltura poiché, cantando su una base centrale della voce, si ha il tempo fisico e mentale di recupero. Durante una esecuzione difficile e pirotecnica, si ha la possibilità di ricreare ogni volta una piattaforma sulla quale appoggiarsi e svettare verso l’estremo, talvolta anche alla cieca.
Come definirebbe la sua voce?
La mia voce appartiene alla tipologia di tenore lirico, tendente al pieno, dotata di una coloratura non naturale ma raggiunta grazie allo studio puntuale della tecnica vocale e alla musicalità. È dotata anche di uno squillo e un metallo che lasciano prevedere un processo di evoluzione che, da qui ai prossimi 10-15 anni, potrebbe riservarmi qualche sorpresa….chissà! Specie all’estero, sono considerato tenore con una voce schiettamente italiana, anche se adattissima al repertorio francese, dalla facile proiezione, brunita e brillante; una voce che passa sempre l’orchestra e di cui tutti possano capire la dizione. E questo mi fa estremamente piacere.
Ha qualche punto di riferimento fra i grandi tenori del passato?
Certo. Ci sono varie vocalità tenorili a cui mi ispiro in base al repertorio. Luciano Pavarotti, Alfredo Kraus e Salvatore Fisichella per il repertorio tenorile tradizionale; ma ascolto e traggo preziosi insegnamenti anche da Beniamino Gigli. Mentre per il Rossini serio, Chris Merrit e Gregory Kunde sono i miei beniamini, sebbene anche Ernesto Palacio costituisca sempre un eccellente riferimento stilistico da ascoltare. Poi, per alcuni ruoli rossiniani, devo ammettere che rimango sbalordito dalle straordinarie vocalità di José Carreras e Franco Bonisolli purtroppo sottratti troppo presto al repertorio rossiniano di cui sarebbero stati, forse, dei principi durante la Rossini Renaissance. Parlando dei tenori contemporanei, invece, ritengo Roberto Alagna un eccellente esempio di come si possa unire la tradizione alla modernità. Lo adoro e lo ascolto anche nel repertorio francese che è proprio di sua competenza .
L’allestimento di Lucia al Teatro Filarmonico ha un’impostazione piuttosto tradizionale. Quanto incidono le scelte registiche sulla resa di un personaggio?
La produzione di Lucia firmata da Renzo Giacchieri è un allestimento che da trent’anni esiste e con successo. Ci sono opere come Lucia di Lammermoor che si prestano di più a un’impostazione tradizionale come questa. Devo dire che la maggiore difficoltà sta, come affermato spesso dal Maestro Giacchieri, nel rendere i personaggi il più naturali e reali possibili sebbene imbrigliati nel cliché operistico che sappiamo essere, ovviamente, finto e costruito. A fare da sfondo alla vicenda, ci sono delle bellissime immagini proiettate e sontuosi quanto accurati costumi d’epoca: ne risulta un allestimento romantico e crepuscolare che ben riprende l’atmosfera del romanzo storico del primo Ottocento di Walter Scott.
Il suo pensiero sulla annosa contrapposizione tra regie classiche e innovative che continua a dividere pubblico e addetti ai lavori.
Ho da pochissimo smesso i panni di Hoffman nei Racconti di Hoffmann al Teatro La Monnaie-De Munt con la regia di Krzysztof Warlikowski, noto regista internazionale, famoso per la sua estrema modernità e per l’ossessione verso un’impostazione cinematografica dello spettacolo. È stato davvero un ottimo risultato: credo fermamente che la modernità nell’opera lirica sia sempre benvenuta se ha la capacità di rispettare la vera trama della storia e la musica, senza martoriarle a colpi di accetta. È giusto che ci sia convivenza tra i due modi di pensare il teatro d’opera il quale, come centro di aggregazione culturale e sociale, deve farsi portatore di valori civili tramite regie che, se pur controverse, attualizzino le vicende facendo luce sui drammi della modernità e dell’attualità. Questo avviene, per esempio, al Teatro La Monnaie di Bruxelles che, in quanto capitale europea, simbolicamente dovrebbe darci qualche segnale su come interpretare la società europea e occidentale odierna.
Con i nuovi media l’immagine del cantante lirico è molto cambiata negli ultimi tempi. Qual è il suo rapporto con i social?
L’aspetto mediatico oggi è molto importante anche per i cantanti lirici, cosa impensabile fino a qualche decennio fa, quando il contatto con i grandi artisti era possibile solo a chi poteva permettersi di andare a teatro. Oggi è tutto rivoluzionato: il pubblico va in teatro più volentieri se c’è un nome che già conosce e si può tener vivo il rapporto con il pubblico stesso anche attraverso i social. Per me è fondamentale. Sono sempre felice di rispondere ai numerosi fan che mi contattano sui social per pormi domande su questo o quel ruolo, per complimentarsi con me o anche solo per un saluto; l’importante è saper tenere la giusta distanza fra la sfera pubblica e quella privata, a cui tengo particolarmente. Ritengo, infine, i social molto importanti per far conoscere al grande pubblico non solo la personalità artistica che il cantante ha sul palcoscenico ma anche il carisma che ha o può avere fuori dalle scene.
Come vede il futuro della lirica?
Lo vedo roseo. Penso sempre in positivo quando, all’estero, osservo come fra il pubblico le generazioni si amalgamano e si rinnovano così come quelle dei cantanti giovani, bravi e talentuosi. In Italia, meno giovani frequentano il teatro: forse la causa è da ascrivere al fatto che i progetti scolastici per l’educazione all’opera lirica si sono sviluppati più tardi rispetto ad altre nazioni, per cui i frutti li vedremo in un prossimo futuro. Osservo con molto interesse alcuni giovani studenti di canto che mi riportano alla mente la passione, l’impegno che avevo anche io alla loro età nel raggiungere il mio sogno. L’amore per la musica non si può arrestare… e smettere di rappresentare opere liriche sarebbe come chiudere per sempre la Cappella Sistina: l’umanità non può privarsi di questa arte stupenda. Dobbiamo sperare che i teatri sappiano gestire i finanziamenti ed evitare gli sprechi: si può essere virtuosi e produttivi allo stesso tempo, come dimostrano molti teatri in Italia e all’estero.
Ci vuole ricordare i suoi prossimi impegni?
Tra i prossimi impegni ci sarà Rossini e La donna del lago, in versione di concerto, al Theater An der Wien di Vienna dove, subito dopo, debutterò con Pollione nel nuovo allestimento di Norma. A seguire, un altro debutto con Roberto Devereux al Teatro La Fenice e poi Rigoletto ad Amburgo, Arnold nel Guillaume Tell a Dublino e, per finire il 2020, il debutto nei panni di Rodolfo nella Bohème a Marsiglia. Per gli anni a venire si profila un percorso ricco, sempre ornato da tantissimo Rossini, dal repertorio ottocentesco francese, da ruoli di tradizione a cui sono già approdato o da titoli in cui mi lancerò strada facendo, quando sentirò l’esigenza e la possibilità di poterlo fare.
Photo credit immagine di copertina: Simon Pauly