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Il mio Trovatore tra filologia e tradizione – Intervista a Vincenzo Milletarì

Sarà un Trovatore integrale ma con qualche concessione alla tradizione. E non mancherà l’acuto della “pira”. Il giovane direttore d’orchestra Vincenzo Milletarì racconta la sua idea del capolavoro di Giuseppe Verdi che dirigerà al Macerata Opera Festival sabato 25 luglio. Un doppio debutto per il trentenne maestro d’origine pugliese ma bresciano d’adozione: allo Sferisterio e nell’opera verdiana.
“Sono molto felice che Il trovatore si riesca a fare – spiega Milletarì – che si sia trovata la quadra per metterlo comunque in scena in forma di concerto. Non vedo l’ora di assistere anche a Don Giovanni, che invece sarà in forma scenica, un grande spettacolo che meritava di essere allestito. Credo che il sovrintendente Luciano Messi e la direttrice artistica Barbara Minghetti abbiano avuto un grande coraggio, proprio come lo slogan del Festival di quest’anno (bianco coraggio, ndr) quando, nel maggio scorso, hanno deciso di costruire un cartellone con due opere e tanti eventi collaterali. In quel momento, non eravamo ancora così tranquilli sul fronte pandemia”.

Come sarete collocati sul palco?
Avremo lo spazio necessario per restare a distanza di sicurezza. L’industria lirica italiana, spesso criticata, è una delle poche tra quelle dell’intrattenimento che rispetta la normativa in tema di Covid, in un ambiente sicuro, controllato, mentre altrove non mancano gli assembramenti. Stiamo dando una lezione di come si fanno le cose bene, siamo la bella Italia.

Parliamo del Trovatore.
È una delle prime opere verdiane nelle quali mi sono imbattuto, molti anni fa, e mi ha subito affascinato. Venivo da un passato più volto alla musica sinfonica e devo dire che tutti i discorsi relativi alla tradizione esecutiva mi erano sconosciuti o comunque indifferenti. Sono stato colpito subito dai dettagli della partitura e da quegli elementi più statici nella narrazione che sono stati un po’ messi da parte da un certo approccio esecutivo sviluppatosi soprattutto dalla metà del Novecento. Il trovatore sembra essere un’opera che vive del contrasto tra personaggi perennemente in movimento e lunghe scene dove questo movimento si placa per lasciare spazio alla riflessione e al racconto. Il dinamismo viene sacrificato a favore di uno scavo dentro le emozioni di ciascun personaggio. Se fossi regista, la ambienterei in un corridoio: i personaggi lo attraversano, si fermano e raccontano eventi che costituiscono la sostanza del dramma, ma che sono accaduti altrove.

Come si è preparato al debutto?
Studiando la partitura, nei mesi di lockdown, ho cercato un approccio che mi consentisse un respiro ampio, lento e meditato, proprio per lavorare al meglio sulla scrittura verdiana. Poi, ho letto il carteggio tra Verdi e il librettista Salvatore Cammarano, dove emerge chiaramente l’intervento del maestro per inserire tutta una serie di informazioni poi essenziali allo svolgimento del dramma, spesso in quelle scene che precedono arie e duetti, dove prendono corpo i dialoghi tra i protagonisti: anche questi sono quei dettagli a cui mi riferivo prima. Anche a causa dei ritardi del librettista, dalle lettere emerge chiaramente che il risultato è una sorta di compromesso rispetto a ciò che Verdi realmente voleva, ossia meno pezzi chiusi. Un po’ come accadeva con Wagner e Berlioz con i rispettivi librettisti, salvo poi che il primo compositore ha risolto i problemi decidendo di scrivere i libretti da sé. Verdi, in un certo senso, si è dovuto accontentare.

Se dovesse scegliere una pagina di quest’opera, quale sceglierebbe e perché?
La prima scena, il racconto di Ferrando, perché corrisponde in modo più preciso a ciò che voleva Verdi: una scena articolata ma armoniosa nella sua struttura, dove si respira in modo molto chiaro la sensazione di nuovo nel dramma. Per non parlare del colore notturno che la caratterizza e che in realtà è proprio di tutta l’opera.

Lei, nell’arco di poco più di un anno ha affrontato tutti i titoli della cosiddetta Trilogia popolare: che differenze ritrova tra questi capolavori?
Rigoletto e Traviata sono opere centrate sui due protagonisti, mentre nel Trovatore Manrico non è necessariamente il protagonista. Forse nemmeno secondo Verdi, che insisteva con gli impresari affinché le voci più importanti da scegliere fossero quelle delle due donne. Poi, Rigoletto e Traviata sono in un certo senso più moderne di Trovatore, perché raccontano storie che di fatto si possono collocare in qualsiasi contesto temporale, drammi che ritroviamo ancora oggi. Trovatore è invece fortemente connotato dal punto di vista dell’ambientazione: il suo fascino sta nella potenza del racconto e nella complessità della trama che mette in relazione i diversi personaggi.

Lei è stato allievo di Riccardo Muti. Quanto la lezione di Muti influisce sul suo approccio a Verdi?
Credo che Riccardo Muti rappresenti la chiave di volta dell’interpretazione verdiana degli ultimi 50 anni; il livello di eleganza e di rifinitura a cui ha portato in particolare il primo Verdi sono unici. Spero di aver metabolizzato la sua lezione e che questo sia chiaro dal mio modo di lavorare sull’opera. Poi, come è normale, ognuno ha un suo approccio: viviamo in tempi nei quali credo si possa operare una mediazione tra il dettato musicale e la tradizione. Macerata, poi, è un luogo dove storicamente viene esaltato il canto, ed è quindi normale che certi acuti vengano mantenuti, pur entro un itinerario di nuova concezione del testo verdiano.

Quindi ascolteremo un Trovatore con alcuni acuti di tradizione?
Esatto: esecuzione integrale, ma con un occhio di riguardo anche per la tradizione. Peraltro, ho la fortuna di lavorare con un cast (Luciano Ganci, Roberta Mantegna, Veronica Simeoni, Massimo Cavalletti e Davide Giangregorio, ndr) costituito da alcune perle del canto italiano.

Lei, nel marzo scorso, avrebbe dovuto dirigere anche L’italiana in Algeri di Rossini nel circuito lirico delle Marche, annullata a causa del Covid.
Era una bellissima produzione, con una magnifica regia di Cecilia Ligorio e un bel cast di giovani che meritano tanto. Spero possa essere ripresa non appena la situazione lo consentirà. Le Marche stanno diventando un luogo sempre più importante della mia vita, al punto che sto anche pensando di trasferirmici.