Mentre in Europa e in gran parte del mondo ci si muove ancora fra mille dubbi e incertezze, a Seoul, la Korea National Opera si appresta a mettere in scena, dal prossimo 25 giugno, un allestimento di Manon di Massenet firmato dal regista francese Vincent Boussard. Si tratterà di una delle prime prove di ritorno alla normalità, perché lo spettacolo andrà in scena senza alcuna restrizione: pubblico in sala, orchestra e coro al completo, scene e costumi. Qualche accorgimento durante le prove, in fase di preparazione dello spettacolo, forse c’è stato e sarà il regista stesso a raccontarci come si sta evolvendo il tutto. Boussard viene dal teatro e da venti anni si dedica alla regia. Ha già solcato importanti palcoscenici internazionali e Salisburgo ha ospitato la sua regia di Otello di Verdi diretto da Christian Thielemann per il Festival di Pasqua. Ma partiamo da Manon, che presto si vedrà a Seoul.
Signor Boussard, può dirci se si sta lavorando in serenità a Seoul in un momento in cui, all’opposto, i teatri europei sono ancora chiusi, o che in fase di annunciata riapertura avranno vincoli da rispettare che potrebbero scoraggiare il ritorno del pubblico?
Qui si lavora in serenità assoluta, nel senso che le prove si svolgono in maniera normale, senza distanziamento particolare. Dobbiamo solo usare o la mascherina o una visiera trasparente e verificare la temperatura due volte al giorno. Per il resto, le solite cose…
L’allestimento di Manon che si appresta a mettere in scena a Seoul è già stato apprezzato all’Opera Nazionale di Vilnius nel 2015, dove è nato, poi alla San Francisco Opera e a Seoul, dove ora ritorna dopo il grande successo già riscosso nel 2018. Insomma uno spettacolo fortunato?
Manon, con la quale ho viaggiato per tutto il mondo (ultimamente in Israele), mi porta fortuna è vero. Ma questo allestimento coreano è un allestimento diverso da quello lituano-americano. Anche se rimane una drammaturgia “sorella”, scene, costumi, tagli sono diversi e il colore generale più scuro.
Il cast, a Seoul, sarà interamente formato da cantanti coreani, anche se la protagonista, Anna Sohn, ha già una importante base di carriera europea all’Opernhaus di Dortmund. Come ci si trova a lavorare con artisti che sono per così dire “vergini” dinanzi allo stile dell’opera francese?
La maggior parte dei cantanti coreani ha fatto degli studi o corsi di perfezionamento in Europa, o ha studiato con maestri europei. Hanno un’idea abbastanza chiara del repertorio, o almeno hanno le chiavi stilistiche per capire le specificità del repertorio francese. L’uso della lingua francese può a volte essere problematico, non essendo una lingua naturale al canto. Però questo vale anche per i cantanti italiani o tedeschi.
Chi è Manon, nell’opera di Massenet, e in che modo l’opera è fedele al romanzo dell’abate Prévost?
Come al solito, l’opera è una riduzione rispetto al testo letterario che lo ispira e questo libretto di Henri Meilhac e Philippe Gille non sfugge alla regola. Con il passaggio all’opera, le situazioni e i personaggi diventano anche più emblematici. Si avvicinano alla loro propria caricatura. È particolarmente ovvio nei quattro ruoli maschili principali, accecati o dall’amore o dal loro cinismo o egoismo. Ho scelto di non avere paura di questa dimensione un po’ mostruosa, anche se costoro diventano quasi dei pagliacci. Per me, il “plusvalore” della musica di Massenet è offrire al rôle-titre un mistero e una profondità inaudita: non è solo la solita “civetta perversa e egoista” o il solito “diavolo fatto donna”, figura ossessiva che attraversa tutto il secolo. Anche se il personaggio rimane a mio parere antipatico e velenoso, è affascinante. Per esempio, indirizzandosi a Dio, lo prega di darle “la forza di osare di chiedere” qualcosa…di indecente. La musica in quel preciso momento è bellissima, dice di quanto Manon sia sincera nonostante metta davanti sentimenti di assoluto egoismo. Massenet fa un uso paradossale della musica, teatralmente molto potente: il “bello” non è sempre il “bene”. Succede lo stesso quando Manon celebra “l’oro” nel quarto atto, ecc. Questa è la complessità di Manon. Costei prende tutta la sua dimensione affascinante e commovente quando viene osservata alla luce delle proprie battaglie intime, quando si confronta col grande vuoto che la consuma. C’è anche una grande tristezza sotto la sua spontaneità e leggerezza apparenti; lo dice bene la Gavotte dell’atto terzo che non solo celebra con eleganza e leggerezza la “gioventù” che dobbiamo godere, ma segretamente denuncia anche la “gioventù” (“Profitons bien de la jeunesse…”) ridotta a “merce” goduta da maschi che fanno delle donne oggetti di orgoglio o godimento. Questa ricchezza di lettura è dovuta a Massenet, di sicuro.
A vedere alcune immagini dello spettacolo, non vorremmo sbagliarci, parrebbe che il suo spettacolo non sia certo fedele a un Settecento di maniera. Ci può raccontare cosa si vedrà sul palcoscenico e come è la sua visione e lettura di quest’opera?
Non possiamo totalmente lasciare il Settecento. Non solo perché Manon è un personaggio della Régence ma anche perché Massenet gioca in continuazione con il Settecento. Sono giochi di drammaturgia musicale di grande ricchezza, che non possiamo ignorare. Però, per le stesse ragioni, non possiamo neanche ignorare il fatto che la maggior parte dello spartito abbia un “profumo” ottocentesco. Allo stesso modo, non possiamo evitare il nostro tempo, quello dello spettatore. Dobbiamo creare un “tempo” sintetico e poetico che dia la possibilità di non escludere nessuna delle suddette particolarità. Questo è il mio primo lavoro di regista: non imporre all’opera in maniera artificiale e esterna al pezzo una narrazione che viene da chissà dove, ma dedurre dalle fibre intime del pezzo un contesto narrativo e poetico che tenga in considerazione e metta in luce la sua specificità e la sua risonanza con il pubblico, “aujourd’hui et maintenant” (oggi e adesso).
La sua carriera si è fino a oggi sviluppata soprattutto in Francia, Belgio e Germania. Sono già più di quaranta i titoli operistici che ha messo in scena. In quale repertorio la sua sensibilità di regista si è sentita più sollecitata?
All’inizio della carriera ho lavorato tanto con il repertorio barocco, insieme a vari gruppi e direttori musicali (William Christie, René Jacobs, Rinaldo Alessandrini, Alessandro De Marchi ecc.). Poi, a poco a poco il mio repertorio si è allargato fino a mettere in scena anche opere di musica contemporanea. Ma come regista ogni repertorio ha il suo valore, le sue caratteristiche e le proprie difficoltà, che sono diverse da un repertorio all’altro. Il mio gusto personale mi porta sempre verso opere che sono da “aprire” drammaturgicamente. Per esempio, sento che il repertorio belliniano, di cui mi sono appassionato, meriterebbe una nuova proposta scenica, senza perdere niente delle sue specificità musicali e mettendo in valore la sua particolare parte teatrale: un raffinamento estremo che nasconde una grande violenza intima, una certa dimensione biografica ecc. Questo repertorio richiede cantanti particolari, capaci di fare miracoli di sensibilità e di canto, ma capaci anche di una profonda qualità di presenza scenica (senso della tensione, della leggerezza, del raffinamento ecc.). Per me il teatro lirico nasce principalmente dal cantante, dalle sue proposte espressive, dalle sue necessità di cantare. C’è un lavoro enorme da fare, tanto è vero che registi e cantanti spesso fanno un patto diabolico. Ognuno lascia l’altro alle sue cose: “Tu mi lasci cantare e io ti faccio i tuoi movimenti”. Mi ricordo un direttore musicale che una volta mi disse: “Tu, fai i tuoi movimenti, lascia fare a me la musica!”. Più che assurdo, anche stupido e controproduttivo. Fortunatamente, è successo una volta sola nella mia carriera. Per me, mettere in scena è un atto musicale, un modo di fare musica, da condividere con il direttore musicale e il primo artista: il cantante.
Lei ha iniziato come regista di prosa, solo successivamente si è avvicinato all’opera. C’è stato un qualcosa che l’ha indotta ad avvicinarsi al teatro musicale e poi a non più abbandonarlo?
Vedo la cosa diversamente. Diciamo che il teatro di prosa era una tappa nel mio percorso personale per giungere al teatro lirico, una specie di scuola elementare. Da sempre la mia meta era l’opera. Da bambino ho studiato la musica appena ho iniziato a leggere, ho suonato il violino per dieci anni poi ho voluto fare l’attore e ho studiato teatro all’università. Per me il teatro lirico raggiunge una dimensione poetica che poche performing arts raggiungono.
Bisognerebbe essere preferibilmente dei musicisti per curare la regia di uno spettacolo d’opera?
Non necessariamente. È sempre più semplice quando si capiscono i problemi legati all’esecuzione musicale. Ma più importante è la sensibilità e la fantasia musicale, è intendere tutte le storie che si nascondono nel discorso musicale, tirarle fuori e condividerle con il pubblico.
Quando e se firmerà uno spettacolo per l’Italia?
Quando l’Italia mi farà il grande onore d’invitarmi. Verrò subito! Diciamo che ho una connessione particolare con l’Italia, paese della mia compagna.
Dopo Manon in Corea, quali appuntamenti l’aspettano in Europa e nel resto del mondo?
Oltre le varie riprese, sto preparando diverse nuove produzioni, Samson et Dalila, Mignon, Werther, Hamlet ecc. a scriverlo mi rendo conto che sono tutte del repertorio francese (mi manca il repertorio italiano). Per rispetto nei confronti dei teatri che conoscono ora delle difficoltà estreme, lascerò a loro la cura di comunicare informazioni più precise a proposito di questi progetti quando lo gradiranno. Devo anche “finire” Candide di Bernstein a Losanna che abbiamo dovuto interrompere dopo l’antepiano, a causa del Covid-19. Appuntamento già preso con il teatro per le prossime stagioni.