Quarant’anni appena compiuti e una carriera in ascesa nel panorama lirico, Vittorio Prato non è solo un cantante apprezzato per le sue doti vocali. Da due anni è anche testimonial della casa di moda Missoni, complice il bell’aspetto fisico che, come si sa, oggi più che mai, anche nell’opera lirica non guasta. Prato ha appena cantato nelle vesti del Conte di Almaviva ne Le nozze di Figaro applaudite al Teatro Coccia di Novara, allestimento che il 22 e 24 febbraio sarà nuovamente in scena al Teatro Alighieri di Ravenna.
“Mozart e Rossini sono un toccasana per la voce – dice Prato -. Anche se ora sento che il mio strumento sta conoscendo una naturale evoluzione che mi porterà ad affrontare nuovi ruoli e ad ampliare il repertorio nella direzione di compositori come Puccini e Verdi”.
Quale la sua lettura del personaggio del Conte?
Ho in repertorio sia il Conte che Guglielmo di Così fan tutte e Don Giovanni, che ho da poco cantato a Pechino. Dei tre, quest’ultimo è quello che, ovviamente, mi intriga di più perché ti impone una continua ricerca su te stesso. Ma devo dire che metto un po’ di Don Giovanni anche nel personaggio del Conte: è pur sempre un aristocratico, con un suo aplomb. Nell’allestimento di Novara e Ravenna (la regia è di Giorgio Ferrara, ndr), Figaro gioca molto sullo scherzo, mentre il Conte sul lato serio.
Parliamo del suo percorso musicale. Com’è cominciato e come si è evoluto nel tempo?
Il primo titolo che ho cantato è anche quello all’origine della storia dell’opera, L’Orfeo di Monteverdi; ho cercato di seguire un percorso coerente con la trasformazione della mia voce. Ho cantato molto Rossini, ad esempio, ma negli ultimi anni ho fatto solo Barbiere di Siviglia. Nell’ambito del Belcanto ci sono un po’ di ruoli che vorrei debuttare, come Lucia o Puritani, ma, con tutto ciò, ho sempre avuto anche un piede nel Novecento: ho in repertorio Bohème come Marcello e Il segreto di Susanna di Wolf Ferrari, che ho cantato a Torino con Anna Caterina Antonacci, un ruolo molto impegnativo.
E Verdi?
Ho debuttato in Traviata in Giappone, con i complessi del Teatro Comunale di Bologna. È stato un esperimento su una strada che piano piano voglio percorrere. Verdi è un punto di arrivo: quando lo si inizia a cantare, poi è difficile tornare a Mozart e al Belcanto. Certo, un personaggio verdiano che mi piacerebbe molto interpretare è Macbeth, perché si parla di Shakespeare e perché c’è un grande lavoro attoriale da fare, al di là delle note. Tuttavia, non è ancora il momento. Sono contento di avere debuttato Don Giovanni in età abbastanza matura: farlo a vent’anni, per me, non avrebbe avuto senso, sia per l’esperienza personale che per la maturità vocale.
Nel suo immediato futuro c’è anche Lescaut nella Manon di Puccini. Com’è questo ruolo?
Lo canterò ad Amburgo con Kristine Opolais nel ruolo del titolo, nell’ambito della cosiddetta settimana italiana, nella quale, una sera dopo l’altra, vengono messe in scena solo opere italiane. Quello che mi stuzzica di Lescaut è un po’ questo suo sgusciare da una situazione all’altra, come un serpente: prima fa una cosa, poi se ne pente e ne fa un’altra. È un ruolo di cattivo: per me che, di natura non lo sono, è molto stimolante. In fondo, è la magia del teatro: acquisire qualcosa in più da ciò che canti e portarlo nella tua vita e viceversa far vivere l’esperienza personale sul palcoscenico. In verità, io canto più per la voglia di esibire la mia vita che non la mia voce.
A proposito di questo cortocircuito canto – vita, c’è un ruolo dove si trova particolarmente a suo agio?
Due: Marcello in Bohème e Figaro in Barbiere. Anzitutto perché sono le prime opere che ho ascoltato e che mi hanno fatto innamorare di questo mondo. Quando avevo 20 anni, sono venuto via da Lecce e mi sono trasferito a Bologna: ho vissuto in contesti molto goliardici, con uscite serali e pochi spiccioli in tasca, un po’ come accade ai protagonisti dell’opera di Puccini. C’è, in questo lavoro, l’illusione della giovinezza, che sembra non avere mai fine. Poi arriva una morte improvvisa e tutto cambia, ti rendi conto che non si può vivere solo di spensieratezza. È un evento anche simbolico. Di Figaro invece mi piace il fatto che riesce con ingegno a imporsi in ogni situazione.
Quali sono – se ci sono – i suoi modelli?
Mi piace molto Ludovic Tézier, perché ha una proiezione importante e un gusto raro nel porgere le frasi e nel legare il suono. Dei cantanti del passato, ammiro Carlo Tagliabue, anche se aveva una vocalità completamente differente dalla mia.
Progetti futuri?
Quello che mi intriga, negli ultimi anni, è fare un po’ di riscoperta: in maggio uscirà un cd registrato a Wildbad, con arie tratte da opere italiane tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta dell’Ottocento. Ci sono autori importanti come Donizetti e Bellini, ma anche compositori meno noti come Carlo Coccia.
Parliamo della sua attività di testimonial per la moda. Come è cominciata?
Ho sempre avuto la passione per il vestire bene. L’incontro con la famiglia Missoni è avvenuto in Giappone: due anni fa cantavo L’Orfeo di Monteverdi, con la regia di Stefano Vizioli e i costumi firmati da Missoni. È stata una bellissima produzione, un Japan Orfeo, con inserti di teatro nō trasmessa anche dalla tv nipponica; a una recita è stato presente anche l’imperatore. Da questo incontro è nata l’idea di fare da testimonial: porto gli abiti di Missoni con orgoglio e grande piacere perché non solo si tratta di un marchio famoso, ma ha anche una accuratezza nei dettagli che pochi hanno. In fondo, quello della moda è un mondo che per alcuni aspetti simile al teatro: vedere una sfilata è un po’ come assistere a una recita d’opera, perché bisogna saper portare gli abiti, interpretarli.
Questo mi porta a chiederle quanto conta oggi l’apparenza nel teatro d’opera.
Credo che a teatro essere di bell’aspetto conti relativamente. Il corpo è un involucro: se io fossi più rotondo e avessi la mia credibilità, non ci sarebbe nessun Brad Pitt che tenga. L’apparenza ha una sua importanza ma deve essere accompagnata da una adeguata crescita interiore e culturale.
Come vive il suo rapporto con i social network?
Con discrezione. Non uso i social per esternare emozioni profonde perché credo che il privato vada custodito. Ci sono momenti nei quali ho l’esigenza di stare solo. Ciò detto, non posso negare che i social mi piacciano e mi divertano. A volte sono felice di far vedere qualche lato di me che non emerge dalle performance sul palco. Credo che i social siano utili perché consentono il nascere di nuove amicizie e per tenere i contatti soprattutto quando si è lontani. Di certo, hanno cambiato la vita di noi artisti: 20 anni fa, viaggiando per il mondo per lavoro, avevi la compagnia di un libro e poco di più, oggi i social aiutano a sentirsi meno soli.