Il giovane tenore uruguaiano Edgardo Rocha, applaudito in tante produzioni rossiniane, guarda ora con interesse al repertorio belcantistico e in questi giorni debutta nel ruolo di Ernesto, marito di Agnese, protagonista dell’opera omonima di Ferdinando Paër che il Teatro Regio di Torino mette in scena in prima rappresentazione moderna. La direzione musicale è affidata a Diego Fasolis, mentre la regia è di Leo Muscato.
Com’è questa Agnese di Paër?
Per me è stata una bellissima scoperta musicale di un lavoro che all’epoca ebbe grandissimo successo: alla sola Scala si contano oltre 50 diverse produzioni di Agnese. È la prima volta che affronto questo compositore, che conoscevo già anche perché ha scritto parecchie opere per la mia vocalità. Musicalmente, si trova in un momento di transizione, tra la fine del periodo classico, con Cimarosa e Mozart, e l’inizio del Belcanto. Nella sua scrittura, si possono sentire entrambi, in una sorta di andare e tornare che fa molto piacere all’orecchio. Ciò detto, è molto difficile da studiare per lo stile, è una bella sfida: c’è da curare molto la linea di canto, il fraseggio, ma anche la recitazione e la prosodia dei recitativi. Da buon italiano, Paër ha saputo valorizzare il senso delle frasi ai fini della drammaturgia.
Parliamo allora del suo personaggio, Ernesto, marito che ha tradito la moglie Agnese ma che fa di tutto per riconquistare la sua fiducia.
Ernesto è il motore dell’azione, che parte da questo tradimento: per tutta l’opera, lui cerca di riparare all’errore commesso e va dai personaggi influenti su Agnese a cercare aiuto. Si sente colpevole e vorrebbe tornare a tutti i costi con Agnese e con la figlia. Non mancherà il lieto fine. Ernesto ha due arie, una delle quali di appendice, che abbiamo deciso di inserire con Fasolis. I cantabili sono molto spianati, con un fraseggio senza troppe colorature, molto legato, sempre sulla zona di passaggio. In questo momento storico, le cabalette non erano ancora sviluppate come tali. Paër presenta una struttura di cabaletta classica che fa sì che il virtuosismo sia poco visibile. In compenso, ci sono tante cadenze nel mezzo, che permettono all’artista di sfogare il virtuosismo.
Com’è la lettura registica del suo personaggio?
Mi sono trovato davvero bene col regista Muscato, anche perché è un uomo molto aperto e ci lascia una certa libertà sulla scena. Quello a cui abbiamo lavorato è una caricatura, un personaggio eccentrico, melodrammatico, un po’ esagerato, che si atteggia a gagà: fa sempre sceneggiate, compie gesti molto esagerati, agendo sul filo del ridicolo. Con tutto questo, funziona molto bene, è un personaggio vivo, che si stacca da tutti gli altri che hanno invece un carattere più normale. Più in generale, Muscato ha pensato a ogni personaggio come se fosse isolato e recitasse in un suo mondo: ha dato consistenza scenica a questa idea, facendo uscire i cantanti da grosse scatole di medicinali che racchiudono l’universo di ciascuno.
Lei ha cantato molto Rossini: le piace essere definito un tenore rossiniano?
In realtà non amo le etichette, né per me né per altri: condizionano il cantante e anche il pubblico, perché così siamo catalogati per quello che facciamo e non per come lo facciamo. Da parte mia, mi considero un tenore lirico leggero belcantista e cerco di fare sempre il meglio con i miei mezzi e di affrontare un repertorio adatto alla mia voce. In questo momento della mia carriera, la voce mi permette di affrontare ruoli un po’ più lirici: ho appena debuttato in Anna Bolena, ho già cantato Puritani, presto arriverà Sonnambula, così come il debutto in Rosenkavalier, che considero una bellissima esperienza.
Come definirebbe Rossini nel quadro dell’opera italiana?
Da tenore posso dire che Rossini è il compositore che ha plasmato la vocalità tenorile dell’Ottocento: ha aperto la porta per creare il tenore moderno, romantico. Col suo spostare il ruolo dal baritenore al tenore di grazia o contraltino, ha procurato un certo fascino alla voce di tenore che prima non aveva. In fondo, la voce tenorile rappresenta l’unico registro vocale che ha avuto un’evoluzione nell’Ottocento. Il suo è stato un colpo da maestro: ricreare questa vocalità sul repertorio serio. E poi Rossini è l’inizio del Belcanto: negli autori successivi trovi sempre del Rossini dentro.
Lei ha lavorato diverse volte con Cecilia Bartoli. Cosa le ha insegnato?
Ho avuto questa fortuna: per me, è stata una svolta più che altro nell’approccio alla carriera e allo studio, per far sì che la voce sia sempre al servizio di quello che fai e non il contrario, ossia cercare di adattare lo spartito alla tua voce. Cecilia è un’eccellente artista, un esempio di professionalità, e poi ha una resistenza ammirevole. Per me, che ho scoperto l’opera anche attraverso i suoi dischi, ritrovarmi a cantare con lei e godere della sua amicizia è bellissimo, un premio, una grande gioia. Delle cinque produzioni condivise, ricordo in particolare i due debutti in Otello di Rossini a Parigi come Rodrigo e poi in Comte Ory.
Programmi futuri?
L’incisione di una cantata inedita di Rossini con la Radio della Svizzera Italiana e poi Il Turco in Italia a Zurigo. Tra i ruoli che aspetto con trepidazione, quello che mi è più vicino e mi è più caro, è Elvino in Sonnambula, che in Italia mi hanno offerto tante volte ma che non sono mai riuscito a cantare per i noti ritardi dei cartelloni italiani. Eppure era il mio sogno debuttarlo proprio in Italia… Sono certo che Elvino mi aprirà un nuovo orizzonte: sarà una chiave di volta per affrontare un altro repertorio. Mi piacciono i ruoli Rubini, mi stanno molto bene perché si muovono su una linea dove mi sento molto comodo, nel fraseggio e nel canto legato belliniano e donizettiano.