Dalle coste assolate della Puglia al Tirolo austriaco. Classe 1984, il prossimo 24 agosto lo scenografo e architetto barese Emanuele Sinisi debutterà all’Innsbrucker Festwochen der Alten Musik, firmando le scene di una composizione desueta, La Dori di Pietro Antonio Cesti, con regia di Stefano Vizioli e la direzione di Ottavio Dantone.
Maturità artistica presso l’Istituto d’arte “Pino Pascali” di Bari e laurea in architettura con specializzazione in scenografie, allestimenti e architetture d’interno, conseguita alla facoltà di architettura “Ludovico Quaroni” della Sapienza di Roma, attualmente il giovane Sinisi è docente di scenografia all’Accademia di belle arti di Venezia. Dopo aver compiuto un periodo di apprendistato presso i laboratori del Teatro dell’Opera di Roma, continuato la sua formazione post lauream (con uno spiccato interesse per le arti visive, digitali e multimediali) e ricoperto il ruolo di assistente scenografo e direttore di scena, dal 2014 firma scenografie proprie. In questi anni ha collaborato, fra gli altri, con registi del calibro di Andrea Cigni (Nabucco, Circuito Lirico Lombardo 2014), Roberto Catalano (dittico Pierrot lunaire–Gianni Schicchi, Orizzonti Festival di Chiusi 2014; Madama Butterfly e La traviata, AsLiCo 2017 e 2018; dittico Che originali!–Pigmalione, Festival Donizetti 2017; Falstaff, OperaLombardia 2018), Danilo Rubeca (Il barbiere di Siviglia, AsLiCo 2014), Italo Nunziata (La forza del destino, teatri di Piacenza, Modena e Reggio Emilia 2019), Rafael Villalobos (Hänsel und Gretel, Budapest 2017; Acis and Galatea, Festival Castell de Peralada 2018).
Lo abbiamo intervistato a pochi giorni dall’importante debutto austriaco.
Il Festival di musica antica di Innsbruck si è sempre distinto, nel corso dei decenni, per la ricercatezza dei titoli proposti. Quest’anno, oltre a Broschi e Händel, è in programma un’opera dell’aretino Pietro Antonio Cesti, del quale ricorre il 350° anniversario di morte. Ci parli di questa rarità alla quale ha lavorato, aiutandoci a contestualizzarla meglio.
Non ancora trentenne Cesti entra al servizio dell’arciduca Ferdinando d’Austria come maestro di cappella a Innsbruck. Qui ha modo, per i cinque anni successivi, di dedicarsi alla composizione di diversi lavori teatrali con la collaborazione del conterraneo librettista Apolloni, anche lui a corte; questo spiega il profondo legame tra Cesti, Innsbruck e il Festival che a lui dedica la prestigiosa “Cesti Competition”. È proprio nel teatro di corte di Innsbruck che, nel 1657, debutta La Dori. Dopo diverse, celebri e documentate riprese a Firenze e a Venezia, l’opera avrà destino simile a tanti titoli dell’epoca sparendo dai palcoscenici. Mi perdoni l’introduzione storiografica che nemmeno mi compete, ma qui viene il bello. Bisogna arrivare al 1983 per parlare di una ripresa de La Dori in epoca moderna, allo Spitalfields Festival di Londra; ma non è finita: nessuna traccia audio-visiva risulta pervenuta. Ora, si sa quanto sia importante non solo per il regista, ma anche per uno scenografo, lavorare con la musica. La musica suggerisce colori, traiettorie e le traiettorie determinano gli spazi. Non avendo una traccia audio ho spesso avuto la sensazione di dover affrontare una prima assoluta. Provvidenziale è stato lavorare con un regista che è anche musicista: ricorderò sempre con piacere alcune delle nostre sessioni di lavoro, in cui il maestro Vizioli mi suggeriva alcune spazialità e atmosfere seduto al pianoforte, eseguendo frammenti della partitura.
In accordo con il regista Stefano Vizioli, che chiave di lettura ha adottato per questa Dori? Cosa vedranno gli spettatori sul palcoscenico del Tiroler Landestheater?
“La scena si rappresenta in Babilonia” scrive il librettista. Si è sulle sponde dell’Eufrate, poi si passa al serraglio, nei giardini di corte, nelle stanze del palazzo. Il pubblico non vedrà nulla di tutto questo, non per capriccio o semplice vezzo eversivo. Quella di Dori è la vicenda di esseri umani alla spasmodica ricerca della felicità che, nel misterioso percorso di ricerca intrapreso, vivono profonde solitudini, momenti di folle disobbedienza e spudorata trasgressione (che modernità!). Nulla di epico. Siamo partiti da qui e ho progettato, come sempre faccio, attenendomi a un assunto per me fondamentale: spazio scenico come riverbero delle sfere psicologiche di chi lo abita. La corte babilonese allora viene raccontata attraverso delle rimanenze architettoniche incastrate nella sabbia, a commento delle derive contingenti dei protagonisti. La presenza di elementi naturali teatralmente declinati, come dune di sabbia e mare, è forte e intende parlare al pubblico di libertà e fascinazione per l’ignoto. Ho cercato, insieme al regista, di rivelare metaforicamente quanto già nel libretto contenuto, oltre l’indicazione didascalica. Ritengo che nulla si sia disperso dell’ambientazione esotica immaginata da Cesti-Apolloni e che, piuttosto, tutto venga suggerito con un linguaggio diverso (preziosa prerogativa del teatro). Sono fiducioso che il pubblico coglierà Babilonia dai blu utilizzati per le pitture del mare, i giardini da un elemento che ruota su se stesso per aprirsi su un affaccio, il serraglio da un dettaglio di attrezzeria.
Non è la prima volta che affronta un titolo del repertorio barocco, avendo lo scorso anno messo in scena, al Festival Castell de Peralada, il masque su musiche del “caro Sassone” Acis and Galatea con regia di Rafael Villalobos. Che difficoltà incontra uno scenografo nell’allestire un’opera, magari desueta, del Sei e del Settecento, rispetto a un classico di Verdi o Puccini?
Ho già fatto cenno alla mancanza di una traccia audio nel caso de La Dori. Questo può essere frustrante e rivelarsi una difficoltà oggettiva, ma estremamente stimolante allo stesso tempo. Ribadisco: spesso è sulla partitura e sulle dinamiche musicali che può nascere l’idea di un cambio scena e, di conseguenza, un impianto scenografico. Confesso poi di non poter fare a meno, in fase di ricerca preliminare, di risalire ai bozzetti di scena delle prime assolute, perché significa fare amicizia col compositore, essere nei suoi occhi e constatare che “l’aveva immaginata così”. Purtroppo questo non è sempre possibile con titoli antichi e poco documentati, ma non è chiaramente fonte di difficoltà. Parlerei, piuttosto, delle infinite possibilità che un titolo di musica antica concede. La raffinatezza dei libretti dell’epoca è notevole; e per raffinatezza intendo non solo il talento del verseggiare ma, soprattutto, la capacità del poeta librettista di far passare informazioni complementari, tratteggiando, stilettando, sfumando. In tutto ciò la musica abbraccia il testo nelle sue intenzioni ma spesso può anche suggerire altro, stati d’animo opposti, finanche contraddirlo. I canali comunicativi si sdoppiano e possono moltiplicarsi esponenzialmente in un’opera barocca. I recitativi poi…teatro puro. Pane per denti di drammaturghi, registi, scenografi e costumisti.
Budapest, Peralada, ora Innsbruck: com’è lavorare in realtà teatrali straniere rispetto a quelle italiane?
Lavorare all’estero è per me sempre un invito alla moderazione. Sono realtà, seppur a volte piccole, sempre strutturatissime e, per questo, estremamente professionali e organizzate. Questo esige altrettanto rigore da parte dell’artista scritturato. Mi piace mettermi in ascolto per comprendere metodologie diverse di lavoro, senza impormi. È un arricchimento notevole che, ripeto, richiede moderazione e umiltà.
Nei suoi spettacoli numerosi sono i rimandi colti a iconografie di vario genere. Penso, per esempio, allo spazialismo di Lucio Fontana nel gustoso dittico Mayr-Donizetti al Festival Donizetti 2017, oppure al paesaggio naturale dell’arcipelago delle Frisone Orientali nella suggestiva Madama Butterfly “pocket” di AsLiCo. Quali motivazioni l’hanno indotta a creare questi interessanti collegamenti?
Ritengo che uno scenografo non possa esimersi dal rimando iconografico e credo che un’approfondita conoscenza della storia dell’arte sia conditio sine qua non per la pratica della professione. Inventiamo luoghi nuovi che si servono di tracce e frammenti precedenti. Ora, che siano colti o meno i rimandi onestamente poco mi importa: si può attingere dalla storia delle arti visive, come da un album di famiglia, da un magazine o da un oggetto trovato per caso. È però fondamentale che i rimandi rispondano a spinte drammaturgiche, che le soddisfino. Nel caso del dittico si trattava proprio di questo, l’opera di Lucio Fontana citata era il tassello mancante: inserito quello, la drammaturgia era risolta. Diverso è l’esempio di Butterfly, dove sapevo perfettamente che, nel finale, doveva manifestarsi agli occhi del pubblico una superficie blu che fosse un campo di fiori emersi dal fango. Nella mia testa era chiaro, ma non sapevo davvero come visualizzarlo. In quel periodo ero in viaggio su alcune isole del Mare del Nord e, un giorno, assisto alla secca di una bassa marea, con l’azzurro del cielo riflesso nei solchi umidi della sabbia. Non ero a Nagasaki, ma nel nord della Germania: avevo trovato il finale di Butterfly.
Lila De Nobili, Gae Aulenti, Ezio Frigerio, Margherita Palli, Pier Luigi Pizzi, Dante Ferretti: il nostro paese ha dato i natali a parecchi scenografi assurti all’Olimpo del teatro. Tra i grandi del passato o del presente, ha qualche modello di riferimento?
Ha citato dei talenti immensi che ho affrontato negli studi e di cui conserverò sempre memoria visiva. Ma c’è un nome che, dentro di me, ha smosso qualcosa, ed è quello di Emanuele Luzzati. Non è per me un riferimento stilistico, è evidente, ma tramite Luzzati l’innamoramento per il teatro è entrato in una fase irreversibile. Riferimenti stilistici per me sono Jerzy Gurawski e l’immenso Svoboda. Seguo i contemporanei Michael Levine, Wolfgang Gussmann, Christian Schmidt, Anna Viebrock oltre a una generazione di giovani tedeschi a mio avviso talentuosissimi. Ma quando sono solo davanti al foglio bianco sento di dover aprire il forziere delle arti visive.
Ogni artista ha, per quanto concerne la propria carriera, un sogno nel cassetto: il suo qual è? C’è qualche titolo che vorrebbe mettere in scena più di altri?
Non vorrei sembrare retorico, ma sento di essere onesto. È un onore per me fare questo mestiere e, spesso, mi sento un privilegiato. L’unica cosa che mi interessa oggi è continuare col massimo della concentrazione e professionalità. Titoli? Ho una “sinistra” attrazione per Wagner. Ma lasciamo passare del tempo.
Progetti futuri?
Il mio allestimento de Il cappello di paglia di Firenze di Nino Rota per la regia di Lorenzo Maria Mucci, già messo in scena a Pisa nel 2017, aprirà la prossima stagione dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis a Sassari. Tra le nuove produzioni, sempre a Sassari, Il trovatore per la regia di Roberto Catalano e Falstaff al Municipale di Piacenza per la regia di Leonardo Lidi.