Tecnica ferrea, bellezza scenica generosa, un carattere simpaticamente vivace e il segno particolare di un canto da sempre apprezzato per la sua morbida dolcezza. A vantarli, il soprano milanese Barbara Frittoli, da trent’anni in vetta fra i maggiori palcoscenici del mondo a partire dal debutto al Comunale di Firenze avvenuto nel 1989 interpretando Ines nel Trovatore con Luciano Pavarotti, sotto la bacchetta di Zubin Mehta. Quindi, da lì il gran salto sulle assi di maggior prestigio in Italia e all’estero, fra Scala di Milano, Regio di Torino, Fenice di Venezia, San Carlo di Napoli e Metropolitan di New York, Royal Opera House e Covent Garden di Londra, Opéra di Parigi, Staatsoper di Vienna, Liceu di Barcellona, San Francisco e Washington National Opera. E ancora, Festival di Edimburgo, di Glyndebourne e di Salisburgo, con direttori fra i massimi del nostro tempo quali Muti, Mackerras, Levine, Maazel, Davis, Chailly, Oren, Gavazzeni, Barenboim, Conlon e molti altri ancora. Tanti e diversi i suoi ruoli, da Mozart a Bellini, Rossini, Verdi, Puccini, Cilea, Leoncavallo, Gounod, Offenbach, Bizet, ma in cima e memorabile resta la sua Desdemona nel 2001 in apertura di stagione scaligera per l’Otello di Verdi accanto a Placido Domingo (dal 2006 anche in dvd), poi a Parigi nel 2004 al fianco di Jonas Kaufmann.
Ebbene, in questi giorni Barbara Frittoli è a Vicenza, fra le voci protagoniste della Petite Messe Solennelle di Rossini proposta al Teatro Olimpico per inaugurare sabato 31 agosto il settimo Festival Vicenza in Lirica firmato dalla direzione artistica di Andrea Castello. Con lei ci saranno la parimenti magnifica Sara Mingardo (contralto), Alfonso Zambuto (tenore), Davide Giangregorio (basso), Michele Campanella (concertatore al primo pianoforte), Monica Leone (al secondo pianoforte), Silvio Celeghin (all’harmonium) e il Coro Schola San Rocco di Vicenza diretto da Francesco Erle. Per la prima volta ospite del Festival, ma in realtà la Frittoli dà lustro e luce già da qualche tempo alla manifestazione in qualità di docente nelle masterclass di alto perfezionamento in canto lirico realizzate proprio da Vicenza in Lirica per iniziativa dell’Associazione Culturale Concetto Armonico d’intesa con l’Archivio storico Tullio Serafin, entrambi capitanati da Castello.
Parliamo della sua liaison d’elezione con il polo vicentino.
Conosco questa realtà lirica e la stessa città di Vicenza con il suo splendido Teatro Olimpico soltanto – mi vergogno a dirlo, essendo milanese – da pochi anni, tre più o meno. Fu Andrea Castello a parlarmene presentandosi in camerino al termine di una mia recita dell’Adriana Lecouvreur, al San Carlo di Napoli, per invitarmi al Festival e, in qualche modo, a partecipare alle loro attività di formazione. Così venni a visitarla rimanendo letteralmente incantata dai luoghi del Palladio e da una gemma unica quanto luminosissima qual è appunto l’Olimpico. Con Castello poi, persona veramente adorabile e speciale, siamo diventati amici appena intuita la serietà dei suoi progetti e delle sue iniziative.
In particolare, cosa ha apprezzato?
Le loro masterclass non sono in pratica la solita solfa per spillar soldi ai giovani. Anzi, soprattutto nei faticosissimi inizi, i guadagni sono stati praticamente inesistenti e ancora oggi lui e i suoi collaboratori investono solo a vantaggio di uno straordinario spirito di crescita artistica. Compreso questo, ho voluto premiarli accettando di entrare a far parte di una realtà che mi piaceva moltissimo perché, fra l’alto perfezionamento e le audizioni per le opere da portare in scena, l’ho trovata perfetta per i ragazzi. Ho quindi iniziato a insegnarvi tre anni fa mentre, con il Rossini di sabato prossimo, sarà la prima volta che canterò per il loro Festival. È una realtà bellissima, molto piacevole e serena. Ossia, lontana da certi isterismi che troppo spesso appartengono al mondo dell’opera. Il segreto? Forse perché è fatta da persone che ci tengono veramente, con tutto il cuore. Credo sia la strada buona per riportare attenzione e cura sul migliore teatro musicale.
Qual è, nella didattica, il suo lavoro sulla voce?
Premetto che ritengo fondamentale insegnare quando ancora si canta in palcoscenico, quando si può dire ai ragazzi con maggiore consapevolezza ciò che serve o che si vuole sentire secondo l’attualità di un determinato momento musicale. Quando si è troppo vecchi, invece, credo si perda il polso del teatro. Quindi cerco di insegnare a cantare sul fiato e sulla morbidezza, arrivando a triplicare anche in pochi giorni di lezione voci che spesso mi arrivano quasi senza suono perché vengono spinte troppo e male. In fondo noi siamo fatti di sangue, di carne e di ossa. Non siamo delle trombe di metallo e non abbiamo i pistoni. Quindi perché spingere? Il nostro archetto è il fiato: ecco perché è necessario piuttosto lavorare sulla naturalezza dell’organo vocale, senza mai forzarlo.
Come articola le sue lezioni?
Devo vedere chi ho davanti. Ascolto, individuo i problemi più gravi e lascio gli interventi al mio istinto. Poi comincio a lavorare ammorbidendo la postura e le mandibole che in genere trovo fuori come quelle dei cinghiali, con tanto di gola dura e impossibilità a far salire i suoni. Poi si sistema tutto il resto. E alla fine mi dicono esterrefatti: “Ma è così facile?”.
Difetti o errori maggiormente riscontrati?
Di solito il fiato e l’emissione forzata. La maggior parte dei giovani spinge la voce quasi a far uscire fuori le corde dalle orecchie.
Sulla base della sua esperienza fra palcoscenico e lezioni, cosa ne pensa dell’ultima generazione di voci?
Ci sono dei talenti meravigliosi. Ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Il problema è piuttosto vedere con chi ci si mette a cantare, con quali direttori che, spesso, non hanno il debito rispetto per le voci. Purtroppo noto la moda crescente, sia in Italia che all’estero, a stringere i ritmi e ad alzare il diapason o i volumi, in modo da rendere tutto più squillante e forte per far contento il pubblico. Ma, ovviamente, distruggendo i cantanti in palcoscenico. Ecco perché poi tanti talenti durano così poco. Bellissime voci sparite dopo cinque, sei anni.
Quale ritiene siano, rispettivamente per uomini e donne, i tempi anagraficamente giusti per intraprendere lo studio del canto?
Tutti devono seguire il proprio iter e ogni caso è a sé. Dipende dalle risorse, da quanto sono svegli e veloci nell’apprendere, attenti ai suggerimenti, da quanta voglia hanno di concentrarsi per costruire bene. Mi è capitata recentemente un’allieva cinese di diciannove anni che cantava già in maschera, con tecnica e grinta impressionanti. Ma quanti ne capitano così? Una.
Pianista per scelta, cantante per caso, prima contralto e poi soprano: quanto è importante riconoscere subito un percorso, un registro e le sue potenzialità?
Faccio sempre il mio esempio. Io ho iniziato come pianista, al Conservatorio della mia città. Esperienza per me oggi fondamentale per la tenuta del ritmo e per la coordinazione (tutti i cantanti, a mio avviso, dovrebbero saper suonare uno strumento) ma percorso di studi da me avvertito come molto faticoso e con pochi progressi, mentre la voce cominciava già facilmente a sorprendere sia me che il maestro Bruno Casoni, insegnante di Esercitazioni corali. Fu lui a salvarmi la voce, mettendomi a cantare fra i mezzosoprani per preservarmi saggiamente gli acuti, usciti intatti solo successivamente. Cambiato percorso e a parte un primo anno in una classe terrificante che in quei mesi riuscì a portarmi via praticamente tutta la voce, perché impostata da contralto e portata sempre a spingere al punto da esser rimasta con sole cinque note, devo dire che sono stata in seguito molto fortunata. Grazie a un amico e ai consigli dei maestri Bertola e Casoni ebbi infatti la possibilità di incontrare nella stessa Istituzione Giovanna Canetti, maestra meravigliosa che mi avrebbe accolta nella sua classe insegnandomi l’ottima tecnica e il gusto musicale di base. È con lei che mi sono diplomata.
Qual è la maggiore eredità da lei ricevuta dalla signora Canetti al Conservatorio di Milano?
Mi ha saputo tirare fuori tutta la voce con la tecnica giusta, quella classica italiana. Ossia, la tecnica storica radicata nel belcanto di metà Ottocento. Vale a dire, non la tecnica dell’affondo, del grido, ma quella particolarmente attenta al fiato e al rispetto della voce. Con il tempo, poi, si approda a un proprio stile interpretativo. Sento comunque che è la stessa voce a scoprire nuove possibilità espressive e diversi colori.
Respirazione, appoggio, dizione e risonanza: come insegnare a gestirli?
È difficile da spiegare in astratto fuori lezione, parlando di uno strumento che non si vede perché produce il suono dentro di noi. Intanto l’insegnante deve sempre essere molto attento nel cosa chiedere ai ragazzi. Personalmente li porto a usare il loro organo senza forzarlo mai.
Ritiene utile l’uso dello specchio e del registratore?
In linea di massima sono sempre utili. Il registratore può servire ad esempio per riascoltare quanto detto durante la lezione.
Il segreto degli acuti, per dirla con la sua insegnante, “nota dolente, moneta contante”…
A parte il sostegno tecnico, la morbidezza. Per fortuna, dalle lezioni con la maestra Canetti, l’intera zona acuta, pian pianino, è uscita intatta in tutto il suo colore. Anche perché, nonostante l’anno da contralto, non era stata comunque in precedenza abusata e dunque compromessa.
Quali le linee-guida nella scelta di un repertorio entro il quale ha offerto prove mirabili in Mozart, Rossini, Bellini, Verdi, Puccini così come nel repertorio francese?
Nei primi anni ho sempre chiesto alla signora Canetti, facendo tesoro delle sue parole che dicevano “scegli seguendo la tua voce”. Poi, un ruolo può piacere di più o di meno, ma se è nelle giuste corde, funziona sempre. Ad esempio, il mio sogno è fare Valchiria, ma è ovvio che non potrò cantarla mai. Ora aspetto di vedere dove va la mia voce. Sono sempre in attesa, ne osservo i cambiamenti e così penso a ulteriori ruoli. Per ora ho aggiunto Tabarro, il Pulcinella di Stravinskij e canterò in Don Carlos, Falstaff, Così fan tutte.
Fra i tanti direttori d’orchestra incontrati, chi ha giocato un ruolo fondamentale per la sua carriera o da chi ha imparato di più?
Il più importante è stato senz’altro Riccardo Muti, colui che mi ha aiutato a capire e a sviluppare una tecnica per studiare. Come approcciare un’opera o un recitativo, come connettere la voce, il tipo di suono con la parola. Solo un grande artista può veramente insegnartelo.
Va d’accordo con i partner di scena?
Mi sono sempre trovata bene con tutti. Forse qualche tenore mi ha fatto disperare, ma è un po’ la categoria ad essere particolare, come i violisti o i cornisti in orchestra.
In che senso?
Ogni settore ha la categoria che s’impunta. Se la prova ad esempio sta andando liscia e si pensa di passare all’altra scena o atto, il tenore è capace di fermare tutto per chiedere o ritoccare qualcosa. E tu vorresti saltargli addosso e strangolarlo.
Lei ha cantato anche con Bocelli, in una Bohème diretta da Mehta…
Oh sì, non me lo ricordi. Non ne vado fiera.
Qual è il suo ricordo di talenti immensi purtroppo scomparsi troppo presto quali Hvorostovsky e Licitra?
Due carissimi amici. Con Dmitri, io e il mio compagno andavamo anche in vacanza. Era stupendo, una persona di cuore, divertentissimo, un immenso artista, con una gamma di colori nella voce meravigliosa. Ci metteva tutto se stesso nel canto. Con Salvatore ho cantato solo Trovatore perché poi lui si è diretto verso un repertorio molto più spinto rispetto al mio. Aveva una voce straordinaria ed era simpaticissimo. Purtroppo il Signore se li è ripresi.
Celebre la sua Desdemona con Placido Domingo e Leo Nucci diretta da Muti per la Scala di Milano in apertura della stagione lirica 2001, registrata anche in dvd nel 2006. Come commenta le recenti, infamanti accuse su Domingo?
È diventato pericoloso essere famosi. Noi tutti del nostro ambiente, per questa cosa, ci sentiamo tremare il terreno sotto i piedi. Se devo toccare il bacino o altri punti a un allievo per fargli capire la postura devo pensarci prima e avvertirlo debitamente. Io dico che la verità possono conoscerla solo i diretti interessanti, mentre credo che il movimento americano sia alimentato da interessi forse diversi, pubblicitari, di moda, economici. In ogni caso noi donne, ma ormai anche gli uomini, sappiamo benissimo che in tutti i luoghi di lavoro, dal panettiere come in teatro, tanto negli uffici come in palcoscenico, può capitare che un collega faccia una battuta d’approccio o che ti abbracci… niente di serio o di ingestibile se finisce lì. Se va oltre, poi, si può anche dire a chiare lettere “no” o, al massimo, dare uno schiaffo. Basta piantare subito un chiodo e si rimane amici. E finisce lì. Personalmente non mi sono mai sentita in pericolo e qui non posso che ripetere quanto scritto su Facebook nel post a suo sostegno: “Ho cantato molte recite con Placido, passate molte ore in sala prove, condiviso la tensione prima di una recita, imparato da lui come gestire il palcoscenico, apprezzato la sua professionalità e ammirato l’artista; pranzato e cenato con lui e Marta innumerevoli volte. Sinceramente non ce lo vedo a ricattare qualcuno per ottenere favori sessuali, credo non ne abbia mai avuto bisogno. È un uomo potente nel nostro ambiente, forse comincia a dare fastidio a qualcuno”. Diamo l’ultima parola al tribunale ma, secondo me, è innocente fino a prova contraria.
Sacra e profana, piccola e solenne: veniamo alla sublime pagina rossiniana giocata per antitesi e nel secondo frontespizio autografo dallo stesso compositore così definita: “Petite Messe Solennelle a quattro parti con accompagnamento di 2 pianoforti e harmonium. Dodici cantanti di tre sessi, uomini, donne e castrati, saranno sufficienti per l’esecuzione: otto per il coro, quattro per i soli, in tutto dodici Cherubini. Buon Dio, perdonami l’accostamento: dodici sono anche gli apostoli nel celebre affresco di Leonardo detto La Cena, chi potrebbe crederlo! Fra i tuoi discepoli ve ne sono di quelli che prendono note false!! Signore, rassicurati, sono sicuro che non vi saranno Giuda al mio pranzo e che i miei canteranno giusto e con amore le tue lodi e questa piccola composizione che, ahimè, è l’ultimo peccato mortale della mia vecchiaia, Passy, 1863”.
È un Rossini tanto particolare quanto fuori degli schemi. Realmente “da camera”, nella timbrica come nella tessitura. E infatti non amo per nulla la versione per orchestra.
Parliamo dei suoi due brani a solo: il Crucifixus e la preghiera eucaristica O salutaris hostia, tratta dai Péchés de vieillesse.
In entrambi seguo semplicemente la musica, quello che ha scritto Rossini, per trovare i giusti colori. Il Crucifixus è ad esempio un’aria di grande desolazione, ma al contempo serena. Un equilibrio non facile. Il punto più alto è però, a mio avviso, l’Agnus Dei, ma ce l’ha il contralto: porca miseria. Magari con l’età, ironia del destino, finirò veramente per cantare da contralto pur di intonare questa e altre parti superbe.
Con lei ci sarà un lodevole organico di pura marca italiana…
È una bellissima scelta, in un luogo tra l’altro di grande pregio e magia. Con Sara e Michele, poi, ci conosciamo da tempo. Ne siamo tutti molto felici.
Infine, quando non canta e non insegna, cosa fa?
Dopo circa trent’anni di attività serrata in giro per il mondo ho rallentato un po’, scegliendo solo quello che mi piace. Insegno di più, trascorro maggior tempo con mia figlia Arianna e, non ricamando come una volta, adoro dedicarmi alla cucina.
Avrà un suo piatto forte?
Certo! Sono milanese, quindi la “cassœula”. Per questa sera? In questo istante sto preparando un ottimo pollo alla birra. Poi, se verrà in futuro a Vicenza, le preparo un risottino a regola d’arte.