Connessa all’opera, ma anche, soprattutto al mondo che la circonda. Diva della scena lirica internazionale, Jessica Pratt sta ultimando le prove di Demetrio e Polibio al Rossini Opera Festival, primo cimento lirico del Pesarese in cui deve affrontare una scrittura funambolica. Ma non di sola musica vive e respira l’artista, italiana d’adozione, che in questa conversazione si consegna al suo pubblico tra ricordi di spettacoli memorabili e impegno per il rispetto degli animali, creme solari e social media.
Jessica Pratt è la seconda grande artista cresciuta in Australia che sta trionfando nel mondo della lirica, e in particolare nel belcanto ottocentesco. E allora cominciamo da lontano. Cosa rappresenta per lei Joan Sutherland: un modello, un incubo, uno sprone?
Un modello e un’ispirazione, ovviamente. Oltre ad avere una voce eccezionale e assolutamente fuori dal comune, Joan Sutherland rappresenta un esempio da molti punti di vista. La tecnica, la disciplina, le scelte di repertorio, la longevità della carriera ma, più di ogni altra cosa, l’umiltà e il suo essere sempre rimasta con i piedi per terra. L’ho incontrata più volte prima che ci lasciasse e ho avuto modo di confrontarmi con lei in alcune sedute di studio. Una volta, con lei in sala, alla fine di «Regnava nel silenzio» azzardai un sol sovracuto finale, decisamente sopra le righe. Mi redarguì affettuosamente dicendomi che era bello sapere che possedevo quella nota, ma che effettivamente era fuori posto. Temo di star ancora lavorando su quell’insegnamento.
Tentiamo di riavvolgere il nastro dei ricordi. Era il 2008 quando Jessica Pratt, all’epoca ancora poco conosciuta, al Teatro Donizetti di Bergamo si cimentava con la prima ‘prova’ in scena dell’edizione critica dei Puritani, realizzata da Fabrizio Della Seta, che dava un volto completamente diverso al testamento spirituale di Bellini. Eppure, bastò un «Ah vieni al tempio» riversa sul boccascena per lasciare con il fiato sospeso tutto il teatro, convinto che una stella fosse appena sorta nel firmamento della lirica. Ricorda quella serata? Da allora, I Puritani non l’hanno mai abbandonata, fino alle trionfali recite palermitane dell’anno scorso, dopo un rocambolesco arrivo da New York: e lì ha cantato a pochi metri dal manoscritto autografo del compositore…
Certo che la ricordo… come fosse ieri. Gli inizi della carriera rimangono incisi nella mente come nient’altro. I costumi erano un sogno, me li aveva fatti Simona Morresi, una cara amica che non c’è più e che rende quei ricordi ancora più toccanti. A casa mia ho uno dei suoi figurini appeso nel corridoio. Bellini, dei miei tre amati, è quello più struggente e che mi costa di più emotivamente a ogni recita. Ogni volta che affronto un suo ruolo, esco dal teatro distrutta e scavata dentro. La malinconia pervade la sua musica dalla prima nota. Solo lui mi costringe a piangere ogni volta mentre canto davanti a migliaia di persone. Portare in scena un suo lavoro in Sicilia è stata poi un’emozione doppiamente forte. La sua latente malinconia si legge nei volti delle persone della sua terra. Il pubblico di quei luoghi vibra come non mai alle sue note. Avevo lasciato solo poche ora prima la fredda primavera newyorkese e, fra coincidenze aeree funamboliche e praticamente nessuna prova, mi sono catapultata sul palco. La risposta della sala è stata emozionante. Anche quello è un ricordo indelebile che resterà nel tempo.
L’edizione 2008 del Festival di Bergamo era basata su uno scontro – ironico, naturalmente! – tra Donizetti e Bellini, che negli anni sono diventati i suoi compositori di elezione. Le giro la domanda: tra Bellini e Donizetti chi preferisce? Tertium non datur? Può avvalersi della facoltà di non rispondere.
No no, rispondo volentieri. I miei compositori preferiti sono tre, non dimentichiamoci Rossini di cui ho interpretato più ruoli degli altri due. Sono ben tredici le sue eroine di cui ho avuto l’onore di indossare i panni. Ognuno di loro ha le sue particolarità che stimolano la crescita artistica. Oltre alle differenze interpretative, tutti e tre compongono con uno stile diverso, che richiede quindi un diverso approccio tecnico. Con Bellini sono i legati infiniti a trasmettere la sofferenza e la malinconia, con Donizetti gli accenti e la parola per l’incalzare delle sue trame, per Rossini la coloratura di forza e il crescendo in cui le voci diventano quasi strumenti dell’orchestra.
Di Lucia di Lammermoor, ormai, è diventata interprete di riferimento: 32 produzioni, 98 recite. Già in vista la centesima? Pensa di festeggiarla? Qual è il momento più impegnativo dell’opera – sotto il profilo musicale, ma anche emotivo? E quello che la commuove di più?
Sì, effettivamente dovrebbero essere cento a breve. Questo è il ruolo con cui ho iniziato e, da allora, mi accompagna nel mio percorso. Cantare Lucia è come tornare a casa. La centesima recita capiterà a Bilbao sotto la direzione di Riccardo Frizza con cui abbiamo deciso, per l’occasione, di portare in scena la versione in tonalità originale, un tono sopra. Il suono in quella tonalità è più cristallino e meno cupo. L’atmosfera diventa ancora più inquietante quando la voce incontra la glassarmonica, creando quel suono ultraterreno tipico delle scene finali della composizione. Sempre con lui abbiamo anche registrato la scena della pazzia con il Maggio Musicale Fiorentino, e che farà parte del mio prossimo disco.
Ospite del Rossini Opera Festival per la quinta volta, si appresta a riproporre il personaggio di Lisinga, protagonista femminile di Demetrio e Polibio, ruolo scritto per Ester Mombelli, figlia del celebre tenore Domenico ed esponente di spicco di un’intera famiglia di musicisti e intellettuali. È una prova estremamente impegnativa, in cui l’eredità mozartiana si coniuga con le difficoltà di una scrittura ora altamente virtuosistica, come nella gran scena di sortita, ora più drammatica, come nel convulso finale del primo atto. Come sarà la sua Lisinga? Chi esagera di più, Rossini o Jessica Pratt?
Normalmente risponderei che sono io a esagerare, ma stavolta devo proprio dire che è Gioachino ad aver vinto. Alcuni passaggi sono davvero incredibili. Si vede che è un Rossini giovane, che scrive più per un pianoforte che per uno strumento a fiato. Le pause per respirare sono praticamente assenti, con impegnativi salti di due ottave. Rossini, inoltre, varia spesso di suo le ripetizioni, per cui i miei interventi sono effettivamente molto limitati. Insomma, stavolta la colpa è tutta sua.
Per l’occasione a Pesaro sarà ripreso l’apprezzato allestimento di Davide Livermore, che ha già interpretato a Napoli nel 2013 e che – lo riscopriremo tra qualche giorno – non si limita a mettere in scena la classicità richiesta dal libretto. Che rapporto ha con le regie d’opera? Preferisce letture più tradizionali o si accosta con interesse e disponibilità a interpretazioni più innovative?
A me piacciono le regie intelligenti. Classica o moderna non fa differenza. Se proprio devo espormi, direi che mi piacciono i costumi d’epoca, ma non ho alcun pregiudizio nei confronti delle trasposizioni, se fatte con criterio. L’importante è la fedeltà alla morale della storia e la credibilità del libretto in scena. La regia deve essere non solo coerente con la trama, ma anche con la musica.
Oltre ai titoli più celebri del repertorio ottocentesco, è stata interprete di numerose ‘prime riprese’ in tempi moderni, dalla Sposa di Messina di Vaccaj fino al più recente Castello di Kenilworth di Donizetti, riproposto l’autunno scorso a Bergamo e recentemente pubblicato in dvd. Le piace questo aspetto ‘archeologico’ del suo lavoro? Come affronta la preparazione di partiture in cui manca una storia della ricezione dell’opera?
Mi piace tantissimo. Quando si lavora su un’opera rara si è liberi da prassi interpretative sedimentate negli anni. Non c’è una ‘tradizione’ a dirti quello che devi fare e puoi veramente ‘interpretare’ come senti personalmente. A guardare il mio repertorio, si direbbe che ci sono più opere rare che di tradizione. Alcuni di questi lavori sono probabilmente destinati a non essere più ripresi, ma non per questo si tratta di tempo perso. Ogni compositore e ogni composizione ti insegna qualcosa che poi ritrovi nella prossima sfida.
Nel corso dell’ultimo prodotto alle produzioni liriche sta alternando anche le esibizioni solistiche in recital: un’occasione preziosa per regalare le pagine che l’hanno resa celebre – dal Finale della Sonnambula alla scena della pazzia da Hamlet – affiancando alle romanze da camera di primo Ottocento alcune gemme della liederistica – penso a Befreit di Richard Strauss. Come compone i programmi dei recital?
In Australia, da studentessa, mi capitava più spesso di affrontare il mondo dei Lieder e la concertistica. Ovviamente una volta intrapresa una carriera si tende a concentrarsi sul proprio repertorio d’elezione, ma questo non vuol dire che non si possano fare esperimenti. I recital del Teatro Massimo e della Scala di quest’anno sono stati programmati a quattro mani con il Maestro Scalera. Da una parte c’era la tradizione scaligera, che imponeva di limitare i pezzi d’opera in un contesto pianistico, dall’altra c’era il mio desiderio di proporre alcuni brani di Richard Strauss con cui ero cresciuta musicalmente, come Befreit e Breit’ über mein Haupt, o alcune sfide acrobatiche come Amor. Abbiamo deciso di sviluppare il concerto come un percorso dalla musica da camera a quella d’opera nel contesto italiano, tedesco e francese.
Affrontiamo adesso il suo rapporto con l’Italia. Perché ha deciso di stabilirsi nel nostro paese, cosa apprezza dell’Italian way of life? E cosa invece non le piace?
Agli inizi della carriera tutti i paesi mi hanno promesso mari e monti e non mi hanno mai dato nulla. L’Italia, invece, così difficile da affrontare, non mi ha mai promesso nulla e alla fine mi ha dato tutto. Oggi vivo con una valigia in giro per il mondo e canto sempre più raramente qui, ma quando torno è sempre come se tornassi nel mio paese d’origine.
Nella sua biografia si legge che vive con i cani e i gatti adottati: che parte hanno gli animali nella sua vita quotidiana – ma direi, in maniera più ampia, nella sua carriera?
Amo profondamente gli animali, con cui ho grande empatia. Prima di scegliere il canto volevo fare la veterinaria. Sono stata per molti anni volontaria in un rifugio per la salvaguardia di canguri e koala. Da piccola salvavo tutto quello che trovavo, che in Australia significa una collezione di pipistrelli, serpenti e ragni velenosi – che mi sono costati più di un rimprovero. Oggi mi limito a cani e gatti. Sono, però, profondamente contraria alla presenza degli animali in scena. Un espediente di regia relativamente inutile, che è fonte di grande stress per degli esseri che non possono capire il rumore di un’orchestra, gli urli degli umani e la contemporanea presenza di migliaia di persone in uno spazio così ristretto. Meglio usare un pupazzo.
Il Rossini Opera Festival le ha affidato per un giorno il suo account Instagram. Si occupa personalmente dei suoi profili sui social media? Le piace avere relazioni personali con i suoi fan?
Sì, faccio tutto io con l’aiuto occasionale di mio marito. Oggi la situazione è diversa dal passato. I nuovi mezzi ci hanno reso più accessibili al pubblico e credo che sia un dovere di coerenza non delegare questo compito. Ovviamente il tempo da dedicare a queste attività non è sempre tantissimo e magari rispondo con qualche giorno di ritardo, ma cerco sempre di farlo. Credo che la missione di un cantante lirico non si limiti a diffondere quest’arte dal palco ma anche, se necessario, da una piazza virtuale. Nei limiti di quel che posso, vado su internet, leggo le recensioni, rispondo ad appassionati, amici, colleghi e studenti e provo sempre ad attirare nuovi adepti in questo mondo. I social media sono un’opportunità incredibile. Proprio qualche settimana fa, ho postato su Facebook un piccolo video di qualche secondo in cui mostravo come si eseguiva la preparazione della ‘veste insanguinata’ della Lucia di Lammermoor appena conclusa a Valencia. Non so se sia stato il fascino e l’attrazione viscerale per il sangue, che era finto ovviamente!, ma il video è diventato virale ed è stato visto da più di venticinque milioni di persone. Ci pensa? Praticamente la popolazione dell’Australia. Speriamo che qualcuno di loro si incuriosisca e venga a vedere un’opera.
Se la nave della lirica colasse a picco, in caso di emergenza cosa porterebbe su un’isola deserta? E cosa lascerebbe naufragare senza rimpianti?
Facciamo che lasciamo affondare i microfoni che rovinano la lirica, i palcoscenici inclinati che fanno male alla schiena, il reflusso gastroesofageo che ci perseguita, le edizioni critiche che reintroducono gli errori, le polemiche sui social che hanno stancato, le buche d’orchestra fuori dal palcoscenico che ci fanno sgolare e la Regina della Notte che ogni volta fa paura. Salviamo invece una buona crema solare che mi brucio facilmente.
E dove va la nave di Jessica Pratt? Approdi immediati, viaggi progettati, sogni nel cassetto?
A breve uscirà il mio nuovo disco registrato con il Maggio Musicale Fiorentino e il Maestro Frizza, in cui affronto una selezione di scene di pazzia del repertorio italiano. Sul palcoscenico, invece, subito dopo Pesaro debutto le quattro eroine dei Contes d’Hoffmann a Bordeaux, con la direzione di Marc Minkowski. A ottobre c’è la ‘centesima’ Lucia a Bilbao e nel mese di novembre ho in programma un ciclo di concerti e recital a Mosca, Tolosa, Parigi e Berlino.