La morte di una figlia che lacera la coppia e sta all’origine dell’ambizione di lei e dell’allucinazione di lui. L’aspetto storico, politico della vicenda passa così in secondo piano rispetto a quello privato, intimo, di una coppia che scivola lentamente verso l’autodistruzione e la tragedia. Così il regista Damiano Michieletto racconta l’idea alla base della sua lettura di Macbeth, il capolavoro di Giuseppe Verdi che venerdì 23 novembre inaugura la stagione del Teatro la Fenice di Venezia. Diretti da Myung-Whun Chung, si esibiscono Luca Salsi (Macbeth), Simon Lim (Banco), Vittoria Yeo (Lady Macbeth), Stefano Secco (Macduff), Marcello Nardis (Malcom). Le scene sono di Paolo Fantin, i costumi di Carla Teti; light designer è Fabio Barettin, mentre i movimenti coreografici sono affidati a Chiara Vecchi.
Da dove è partito per questo suo Macbeth?
L’assenza di figli nella coppia dei protagonisti è il modo con cui ho cercato di dare un significato e un valore drammaturgico al mondo delle streghe: è il mondo dei defunti che si palesano come voci a Macbeth. Le streghe non sono presenze fisiche, ma dei medium che riportano in vita la figlia morta del sovrano. Nel preludio si racconta in modo simbolico la morte di questa figlia che ha lacerato la coppia. L’impossibilità di elaborare il lutto, da un lato fa regredire Macbeth a una sorta di infantilismo, dall’altro, nella Lady, genera la volontà di negare, scacciare la morte e proiettarsi in una dimensione di ambizione e di potere. Non avere la possibilità di un erede, crea nei due un disagio talmente forte che li porta a qualcosa di estremo, tanto più che sono circondati da famiglie che hanno bambini. Ci sono infatti molti bambini in scena. Le streghe incarnano così il mondo dei morti e alla fine, quando Macbeth resta solo, la battaglia conclusiva non è una battaglia di eserciti ma una lotta interiore contro queste allucinazioni che lo portano alla distruzione.
Cosa rappresenta per lei la possibilità di lavorare per la prima volta con Macbeth di Verdi, ispirato a un capolavoro di Shakespeare?
Macbeth è per me l’occasione di confrontarmi con un classico non solo dal punto di vista musicale ma anche drammaturgico e teatrale. Quando ci si relaziona con Shakespeare, ti si apre sempre un mondo di riferimenti estetici, teatrali, cinematografici e quindi è bello e affascinante perché ti puoi misurare con una prospettiva molto ampia. Chiaro quindi che, per cominciare a indagare un’opera come questa, bisogna anzitutto confrontarsi con Shakespeare. Macbeth è una tragedia breve, una delle più brevi di Shakespeare, e ovviamente il libretto di Verdi è brevissimo a confronto. Verdi toglie gli interventi comici, che ci sono in Shakespeare e che costituiscono uno degli elementi di grandezza di questo drammaturgo, ossia la capacità che pochissimi hanno di raccontare la vita intera e lavorare su più registri contemporaneamente. Ma ciò che viene tolto, nell’opera è restituito attraverso la musica: Verdi rinuncia al comico e si concentra sulla tragedia, dando grande risalto al ruolo delle streghe.
Lei ha già lavorato su opere di Verdi. Quali sono a suo avviso le peculiarità di Macbeth rispetto agli altri lavori del maestro?
Ho già messo in scena Falstaff, Corsaro, Luisa Miller e Ballo in maschera. Macbeth è profondamente diverso rispetto al linguaggio precedente di Verdi. Ci sento la volontà di sperimentare, di scrivere qualcosa anche di aspro, brutto: scrive infatti melodie con una vocalità quasi impossibile da cantare proprio per esasperare il carattere dei personaggi. Questa è la cifra di Verdi come uomo di teatro. È bellissimo leggere le sue lettere dove definisce i cantanti ‘signori attori’, dove pretende espressività nella voce, dove chiede che gli interpreti creino un personaggio. Si pensa a volte a Verdi come a un autore tradizionale, invece non c’è niente di più lontano in lui dall’essere tradizionale, anche nella scelta dei soggetti. Penso a Traviata che è la storia di una prostituta, o a Rigoletto, che è invece la storia di un uomo che arriva ad assassinare un re per salvare la figlia. Verdi è molto estremo nella sua ricerca. Forse noi, a distanza di anni, rischiamo di mettere una cornice intorno a questi personaggi senza capire che sono il frutto di un artista mosso da esigenze molto più forti delle nostre.
Nel caso di Macbeth siamo di fronte a un capolavoro del melodramma ispirato a un capolavoro del teatro, cosa che accade raramente nell’opera lirica. Come vede questo rapporto tra opera e dramma?
Scegliere una grande fonte letteraria è un’arma a doppio taglio perché rischi che ti schiacci. Questo, tuttavia, non accade con Verdi che non si faceva spaventare e non faceva confusione. Era perfettamente in grado di selezionare il materiale: confeziona infatti un libretto dove sono molto chiare la struttura e la narrazione e a sua volta ha grande chiarezza e lucidità nella scrittura musicale. Non senti la mancanza delle parole perché con la musica Verdi crea quell’effetto, quella tinta che restituisce la psicologia e la potenza del personaggio. Poche parole vanno dunque bene perché quelle non scritte sono nella musica: Verdi crea il contesto psicologico, laddove un altro artista privo di tale consapevolezza rischia di affannarsi dietro alle parole.
Lei è considerato uno dei più intelligenti e provocatori registi d’opera del panorama contemporaneo. Cosa significa per lei fare regia d’opera oggi?
Quello che cerco di fare nel mio lavoro è anche quello che mi piace vedere come spettatore, ossia sentire che quello spettacolo – che è un racconto, alla fine raccontiamo delle storie – che quel racconto mi riguarda, nel senso che tocca la mia sensibilità e immaginazione. Più che attualizzare, cambiando i connotati dell’opera, è importante usare il linguaggio teatrale contemporaneo. Che non è sicuramente quello dell’Ottocento. Il modo in cui si sviluppa l’interpretazione, l’uso delle scene, delle luci e dei costumi, anche a livello estetico, è diverso dal passato. Lo stesso Verdi lo ha fatto: vedi Rigoletto, che è ambientato a Mantova e non in Francia, in un’epoca diversa dalla fonte. Cambiano l’epoca e i costumi ma non cambiano la forza e i personaggi. Essere figli del proprio tempo significa quindi usare i linguaggi teatrali contemporanei e attraverso questi linguaggi filtrare l’opera. Così facendo si ha tantissimo da dire oggi, anche perché quello dell’opera è un linguaggio ricco, dove si fondono esperienze artistiche diverse. La sua complessità è ricchezza per il pubblico e fonte di godimento. Poi, l’opera non deve parlare solo a livello intellettuale ma anche alla pancia, ti deve coinvolgere. Più si lavora in questo senso, più il pubblico, anche quello giovane, coglie un’emozione e ha voglia di affezionarsi al teatro.
Ci sono opere o autori che vorrebbe affrontare e che non ha ancora messo in scena?
Amo Mozart, ne ho fatto molto e sono contento. Ci sono autori, soprattutto del Novecento, che mi piacciono particolarmente e che vorrei studiare e proporre di più: Janáček, Bernstein, Stravinskij. Mi piace molto anche l’opera barocca, nella quale esordirò l’anno prossimo con Alcina. La trovo molto stimolante a livello registico. È difficile perché si tratta di opere lunghe, dove non c’è una vera costruzione psicologica dei personaggi, la musica è stilizzata e a volte ripetitiva. Ma proprio per questo mi stimola ad andare fondo sui personaggi. Poi, trovo la musica barocca molto spirituale: c’è in essa qualcosa di sospeso, di interiore, che la rende molto lontana dalla dimensione solita a cui siamo abituati nel melodramma. Le storie, inoltre, hanno spesso a che fare con i miti, che ti aprono inediti orizzonti di umanità.
Photo credit copertina: Fabio Lovino