Nell’anno dedicato alle celebrazioni rossiniane e da interprete del belcanto fra i più interessanti della sua generazione per sincerità di tinta, ottima tecnica e nobiltà di tempra, il tenore russo classe 1981 Maxim Mironov sarà il Conte d’Almaviva nel Barbiere di Siviglia proposto quest’anno dal Rossini Opera Festival, a partire dal prossimo 13 agosto, nel nuovo allestimento firmato da Pier Luigi Pizzi.
Biondo e occhi tra il verde e il ghiaccio, physique teatrale dal fascino singolare e, vocalmente, due ottave di estensione (e qualcosa su e giù) con acuti che arrivano a toccare il mi bemolle, più un carattere docile e affabile, ma volitivo e dalle idee chiarissime, soprattutto in materia di repertorio o comunque di canto. Dunque, perfettamente a taglio con i ruoli “di grazia” o “amorosi” che fin qui lo hanno portato a brillare sui maggiori palcoscenici internazionali. Inoltre, per la voce, ritiene importantissimo il silenzio, tanto che il suo motto è “un mese di riposo all’anno, allunga il canto di un anno”. Per il resto, fuori dalla scena, ama la vita tranquilla e, quando non studia, pensa comunque alla vocalità, fa un po’ di sport, legge molto e, dopo tanti viaggi e assenze da casa, cerca di curare al meglio le rose che ha sul balcone. Quanto al suo percorso: nato a Tula e laureatosi alla Scuola Superiore di Musica di Mosca sotto la guida di Dmitry Vdovin, Maxim Mironov entra a far parte del Teatro dell’Opera Helikon di Mosca e in quella capitale poco distante dal suo paese d’origine, dopo aver vinto in Germania il Concorso “Neue Stimme”, inizia una luminosa carriera debuttando giovanissimo nel segno della tradizione teatrale di Francia, con un’opéra-comique di André Grétry ma dal titolo consono alla propria terra, Pierre Le Grand. Quindi, nel 1998, la “folgorazione” per i Tre Tenori, visti e registrati in tv mentre, all’anno 2005, risale l’incontro fondamentale con Alberto Zedda. Incontro che avrebbe dato il via, interpretando il Conte Libenskof nel Viaggio a Reims, alla sua speciale liaison con il ROF, oltre alla predilezione per tanti ruoli rossiniani e non solo.
Come sarà il suo nuovo Conte d’Almaviva per il Rossini Opera Festival di quest’anno?
Sarà bellissimo! Almaviva è il mio ruolo preferito e farlo a Pesaro è un grande onore. E un privilegio. Cercherò di portare in scena tutta l’esperienza fin qui messa a segno negli anni di lavoro sul repertorio rossiniano. Collaborare con un regista come Pizzi, poi, è una grande fortuna. Condividiamo molti punti di vista su quest’opera e sul mio personaggio. Ci aiutiamo a vicenda, non senza le discussioni, ovviamente. Ma proprio le discussioni rendono il nostro lavoro vivo e interessante. D’altra parte, il Festival rappresenta il luogo e l’occasione perfetti per fare ulteriore ricerca e provare a fare riemergere dalle incrostazioni secolari della tradizione un Barbiere nuovo, pulito, fedele al testo musicale di Rossini.
Quante volte lo ha interpretato e quanto è cambiato nel tempo?
Ormai da molti anni interpreto Almaviva. Non ho mai fatto i conti di quante volte l’ho cantato. Piuttosto ricordo le esecuzioni particolari, come per esempio il mio debutto nel ruolo con Michele Mariotti, oppure le recite alla Staatsoper di Vienna e a Berlino. Sono certo che anche questa esperienza pesarese rimarrà nella mia memoria. Il personaggio cambia molto col passare del tempo. Ho capito meglio alcune cose su di lui dopo essermi confrontato con un grande interprete rossiniano, Raúl Giménez. Proprio lui mi ha fatto notare la differenza tra Almaviva e il Principe Ramiro, i due nobili innamorati più famosi di tutto il repertorio rossiniano. Un approccio all’amore, in questi personaggi, completamente diverso. Se per Ramiro l’amore è piuttosto platonico, puro e privo di qualsiasi carnalità, per Almaviva l’amore è la passione pura. È la spinta sessuale che lo pervade per tutta l’opera.
Quali le difficoltà e il fascino del ruolo?
È uno dei ruoli più belli. Perché offre la possibilità di recitare, di essere attivo sul palco, di portare avanti quasi tutta l’azione dell’opera. Ma è anche una parte estremamente difficile, se fatta senza tagli, così come a Pesaro. È lunga, fisicamente molto impegnativa, con un grande rondò che arriva alla fine di tutta l’opera. Per sopravvivervi è necessaria una certa esperienza, oltre che saper dosare le energie nell’arco della recita.
C’è un momento, fra libretto e partitura, che predilige su tutti?
Per me il terzetto finale “Ah, qual colpo” rappresenta il fulcro di tutta l’opera. Come quando, dopo il gelo invernale, torna la bella primavera e il sole inizia a riscaldare il firmamento inondando la natura con l’Amore. Due cuori (quelli di Rosina e del Conte) fioriscono in un soave duetto pieno di cinguettii e di palpiti. Sono, a mio avviso, le pagine più sincere e riuscite del Barbiere.
Impiegherà nell’occasione sue colorature?
Le colorature per Rossini sono come l’acqua per i pesci: si fa fatica ad esistere senza l’altro. Sono cioè la linfa viva del suo stile musicale, il fascino e il lato quasi sportivo della sua musica. Ma devono essere scorrevoli e risultare facili. È allora che funzionano e affascinano. Trovo che, eseguire le colorature senza minimo sforzo fisico evidente, è la bravura da “extra classe”. E sono contentissimo quando la gente mi dice “sembrano così facili quando le fai tu”.
Come è stato ritagliato Almaviva secondo la prospettiva registica di Pizzi?
Senza svelare troppo, visto che stiamo ancora lavorando e la prima sarà solo il 13 agosto, posso dire che è una lettura molto moderna. Un giovane Conte che ha voglia di vivere e di divertirsi. Ne vediamo molti di questi personaggi nella vita quotidiana di oggi. In un certo senso li ammiriamo, ma ironizziamo anche molto sul loro comportamento.
Secondo lei, meglio le regie tradizionali o d’avanguardia?
Secondo me, meglio le regie che funzionano. Ritengo importante che i conti tornino alla fine della recita. Se il pubblico rimane con troppi “perché” in tasca prima di lasciare il teatro, vuol dire che la regia non funziona. È inutile cercare di stampare programmi di sala pieni di spiegazioni secondo il punto di vista del regista. C’è sempre già tutto nel libretto e nella partitura. Il lavoro del regista sta solamente nel decifrare e nel riportare alla luce il genio del compositore e del librettista. Poi, se lo spettacolo è ambientato su Marte o nell’antica Grecia, non importa. L’importante è che lo spettatore capisca perfettamente ciò che succede sul palco e il perché dei comportamenti dei personaggi. I grandi registi si rendono sempre conto del fatto che hanno a che fare con dei geni assoluti come Mozart, Da Ponte, Rossini, Puccini, Verdi e non credono di essere meglio e di saperne più di loro. Nel lavoro del regista ci vuole sempre una certa umiltà.
Un suo giudizio sull’arte teatrale e musicale rossiniana.
La musica di Rossini è teatrale per eccellenza. Non solo le opere, ma anche la sua musica da camera o strumentale trasuda teatro. Nessuna sorpresa se pensiamo al fatto che Rossini era praticamente nato in un teatro e lì trascorse la maggior parte della sua vita. La sua è una specie di musica universale che permette all’ascoltatore di decidere se è una musica buffa o seria. Perciò Rossini stesso, molto spesso, usa la medesima melodia sia nelle opere serie che in quelle buffe. La sua musica è il contenitore del senso. Sta all’interprete dare quel senso al pubblico. La sua genialità? Credo sia evidente nella capacità di toccare il cuore di tutti, al di là delle età, dei sessi e dei ceti sociali.
Quanto ritiene sia stata importante la dotta vetrina del Rossini Opera Festival per la divulgazione del compositore pesarese nel mondo?
La cosiddetta Rossini Renaissance è partita dal Festival di Pesaro. Ma, a mio parere, è stata la collaborazione tra il ROF e la Fondazione Rossini ad aver permesso la scoperta e la divulgazione della musica di Rossini a livelli mondiali. Il Cigno pesarese ha avuto la fortuna di avere delle persone che hanno dedicato le proprie vite a lui e alla sua musica. Forse proprio questo manca ancora per gli altri compositori del belcanto come Donizetti, Bellini, Mercadante. Montagne di musica bellissima che fanno parte del patrimonio culturale mondiale aspettano ancora il loro tempo e i loro paladini.
Ricordando anche le sue splendide prove in Lindoro per L’italiana in Algeri e in Don Ramiro per la Cenerentola rispettivamente all’Auditorium della Rai di Napoli e al Teatro San Carlo, anni fa e parimenti con targa del Lirico partenopeo, quali altri titoli di Rossini e ruoli per tenore “lirico leggero” o “di grazia” ama particolarmente?
Almaviva e Ramiro sono i due ruoli a me cari in particolare. Ma non posso non pensare appunto a Lindoro dell’Italiana, che mi accompagna fin dai primi passi nel canto. “Languir per una bella” è stata la prima aria in assoluto che ho imparato.
C’è ancora qualcosa dal suo catalogo che è rimasto fra i suoi desideri?
Oh, sì. Il grande Gioachino ne ha ancora molti di ruoli per me nel suo baule. Per esempio, da tanto tempo sogno di fare il Conte Ory. Nella Matilde di Shabran il tenore non ha un’aria, ma il ruolo è strepitoso e voglio farlo assolutamente. Anche il ruolo di Ilo nella Zelmira è uno che non ho ancora fatto e mi piacerebbe molto. Quell’aria portentosa, “Terra amica!”, è un vero incanto.
E di altri autori?
Continuo la mia ricerca nel belcanto. Bellini, Donizetti e Mercadante sono i miei migliori amici. Non solo in ambito operistico. La ricerca più raffinata sta nelle loro musiche da camera. Da poco ho inciso un CD interamente dedicato alla musica da camera di Bellini, “La Ricordanza”. È il frutto di ricerche musicologiche e fa parte del progetto concertistico “La Ricordanza”. Ho ideato un concerto-racconto sulla vita di Bellini illustrandolo con le sue musiche da camera. Abbiamo già fatto dei concerti a Mosca e a Vienna. Quest’inverno “La Ricordanza” sbarca anche in Italia. La città di Cuneo mi ha invitato a tenere il mio concerto e ci andrò ben volentieri.
Cosa significa, per lei, il termine “belcanto”?
A volte penso che la traduzione della parola “belcanto” dovrebbe essere “duro lavoro”. Ma non è sempre così. Belcanto è uno di quegli stili d’arte, sempre giovani, sempre nuovi, con la grande capacità di rigenerarsi con le nuove generazioni di cantanti e del pubblico. Uno stile raffinato, ma anche godereccio, il frutto della sua epoca. Mi affascina molto il margine di libertà che tale stile ti permette di avere. Le variazioni, le colorature e, ancora più importanti, le colorature del suono e della parola, forniscono uno strumentario ricco che serve per esplorare gli stati d’animo della natura umana.
Ricorda qual è stata l’esperienza d’ascolto grazie alla quale ha sentito scattare la scintilla per la Classica e quanto è stato importante il modello dei “Tre Tenori” Pavarotti-Domingo-Carreras?
I primi ascolti della musica classica li ho avuti a scuola. Avevamo le ore di storia della musica e dell’arte. Ma se ci penso, ancora prima, alla radio in casa quasi sempre accesa mandavano spesso i brani di musica classica e mi piaceva molto ascoltarli. Non ricordo più quali fossero, ma ricordo bene il senso di gioia che provocavano in me. Tuttavia, per innamorarmi del canto, avrei dovuto aspettare l’estate del 1998 e la trasmissione del concerto dei “Tre Tenori”, da Parigi. Ricordo che il progetto “Three Tenors” fu pesantemente criticato all’epoca. Il pubblico operistico si era sentito offeso dalla loro sacra arte profanata e portata in piazza, servita solo per gli enormi guadagni di quei tre. Per me invece è stato come un colpo di fulmine. Prima credevo che il canto lirico fosse una cosa per pochissimi prescelti, impolverata e ammuffita, priva di vita e di senso. Ma in quel concerto ho visto la piazza davanti alla Torre Eiffel gremita di gente che ascoltava le arie d’opera, erano pieni di entusiasmo e di gioia. Allora ho capito che il canto è la cosa più bella del mondo, che ha il potere di unire la gente in un atto di bellezza. Ancora adesso penso all’impatto che quell’evento ha avuto su di me, e a quello che ha significato per la mia vita.
Volendo abbinare un merito esemplare a ciascuno dei tre grandi tenori?
Domingo è un musicista a trecentomila gradi, dunque la straordinaria musicalità del fraseggio; a Carreras la passionalità del canto mentre, per Pavarotti, direi la solarità di un timbro italico unico al mondo. Pavarotti aveva realmente il sole e l’oro nella voce, chissà quanto avrebbe potuto insegnarci ancora.
Come e quando ha iniziato a cantare?
Ho appunto iniziato a cantare con Pavarotti, Carreras e Domingo. Sono stati loro i miei primi insegnanti, per modo di dire. Cantavo sopra la registrazione che avevo effettuato di quel famoso concerto di Parigi. Ricordo che, alla fine, avevo consumato completamente il nastro magnetico (all’epoca c’erano ancora le cassette). Scimmiottavo i suoni e le parole. Imitavo senza capire e mi divertivo da matti cantando a squarciagola e a qualsiasi ora, facendo impazzire i parenti e i vicini di casa.
Quali ritiene siano stati i passi fondamentali nel suo percorso di formazione?
Il primo passo fu quello di abbandonare l’università dove studiavo chimica e biologia per dedicarmi interamente allo studio della musica. Fu un passo doloroso, sofferto, che mi allontanò parecchio dai miei parenti. Non condividevano affatto la mia follia e credevano che il canto mi avrebbe portato alla rovina. Ho rischiato grosso, andando contro il volere dei miei. Ma alla fine ho avuto ragione io.
Il secondo passo di cruciale importanza è stato quello di andare a studiare nella classe del professore Dmitry Vdovin a Mosca. Lui è il migliore insegnante di canto in Russia e a lui devo la mia formazione. È un professore unico, uomo di grande cultura musicale e teatrale. Ha saputo indirizzarmi subito nel repertorio per tenore leggero e questo mi ha aiutato moltissimo. Dalla sua classe sono usciti cantanti che hanno una splendida carriera internazionale come Dimitry Korchak, Rodion Pogossov, Ekaterina Surina, Albina Shaghimuratova, Nikolai Didenko e molti altri.
Il terzo passo, importantissimo, è stato quello di venire in Italia. Il paese della lirica, la fonte, l’origine. Senza il contatto diretto con la cultura e la lingua italiana non sarei mai arrivato a un livello decente nella mia professione. Non ho mai avuto un professore di canto italiano ma l’Italia stessa, il suo popolo, le sue tradizioni, la varietà di dialetti e di usanze mi sono serviti come una grande scuola. Alla fine, di tutto questo parlano i compositori nelle opere. Ancora adesso per strada incontro molti Don Bartolo, Rosine, Lindori o Italiane di Algeri. Poi qui in Italia il teatro della vita quotidiana è dappertutto! Che nazione fantastica. Amo l’Italia alla follia. Quando sono qui risiedo a Bologna ma amo, ad esempio, profondamente ogni angolo di Napoli, una città, direi, miracolosa.
Oggi quanto e come studia?
Come sempre studio i nuovi ruoli che devo debuttare con dovuto anticipo. Ogni personaggio ha bisogno di tempo per diventare tuo. Durante le produzioni cantiamo già abbastanza per mantenere il livello alto di qualità sonora. Anzi, a volte bisogna trovare il modo di non cantare in prove per non caricare troppo l’apparato. Riposo sempre molto. A volte non apro la bocca per due-tre settimane tra un contratto e l’altro. Ritengo che questo permetta di mantenere la voce sana e la mente riposata. Ma arriva il momento in cui è la voce stessa a chiamarmi e a dire: ho riposato abbastanza, adesso lavoriamo!
Quindi ai giovani cosa direbbe?
Non ci sono vere e proprie regole. Bisogna piuttosto credere nelle proprie potenzialità e avere un buon insegnante, un buon orecchio che ti ascolti. Il repertorio, ovviamente, è cruciale: Mozart ad esempio non è per tutti e non è affatto facile. Io ho avuto la fortuna di essere stato indirizzato sin dal principio sul repertorio giusto, quello del belcanto. Vale a dire che, se avessi iniziato con il Duca di Mantova, non sarei arrivato da nessuna parte. Ecco perché ai giovani, che in genere vogliono tutto e subito, mi sento di dire: studiate il più possibile ma, soprattutto, registratevi, ascoltatevi e ascoltate in un’epoca dove, grazie a internet, tutto è facilmente accessibile. Quindi di non credersi la Netrebko o il Kaufmann del secolo, ma di confrontarsi e pensare molto. Per il canto, oltre alla voce, ci vuole testa, perché è una scienza moltiplicata per l’arte.
C’è qualcosa che non canta ma che le piace ascoltare?
Oh, tanta roba! Dal rap alle opere di Richard Strauss. Non credo che canterò mai né l’uno né le altre.
Come definirebbe la sua voce?
Molte volte la voce di tenore rossiniano è definita come “tenore contraltino” o “tenore di grazia”. Non è male, ma io adoro la definizione che ho trovato in un libro, “tenore amoroso”. Ecco, sono un tenore amoroso.
E il suo carattere?
Stranamente è quello di Rosina: io sono docile, sono obbediente. Ma se mi toccano…
C’è un palcoscenico al quale è particolarmente legato?
I templi sacri della lirica in Italia come La Fenice, la Scala e il San Carlo per me sono veramente i luoghi magici. E all’estero amo molto la Staatsoper di Vienna, dove canto spesso.
Attualmente dove vive e cosa le piace di più dell’Italia.
Non saprei rispondere. Vivo dove c’è la mia valigia. Prima pensavo: adesso lavoro, e poi quando torno dal viaggio, inizierò a “vivere”. Sbagliavo. Bisogna vivere adesso, cogliere quest’attimo. La vita di un cantante non è legata a un luogo ma alla gente. La metà della mia famiglia e dei miei amici abitano in Russia, l’altra metà in Italia. E poi ho altri amici sparsi in tutto il mondo. Meno male che c’è Skype.
Quali i suoi prossimi impegni sia per la scena che in ambito discografico?
Dopo Pesaro debutterò finalmente nella Figlia del reggimento di Donizetti a Bologna. Poi andrò a Barcellona con L’italiana in Algeri. L’inverno lo trascorrerò sotto lo stemma della Scala dove vado a fare la storica, bellissima produzione della Cenerentola di Ponnelle. Nel frattempo, con la casa discografica tedesca “Illiria”, stiamo preparando l’uscita del mio nuovo CD dedicato alle musiche da camera di Rossini. Lo abbiamo registrato in Germania con un magnifico Pleyel d’epoca e adesso il progetto è in fase di post produzione. Spero di poterlo presentare a Milano, durante le recite della Cenerentola.
Recentemente ha dichiarato che la vita è piena di sorprese meravigliose: quali sono state, a oggi, quelle nella sua?
Beh, trovare Placido Domingo a bussare alla porta del tuo camerino, prima della recita di Orfeo ed Euridice di Gluck a Los Angeles, è una di quelle sorprese incredibili. Trovare le persone che, credendo in te, offrono lezioni di canto senza prendersi un centesimo, è un’altra. Poter lavorare con un pezzo di storia del teatro come Pizzi o Dario Fo, o Sir Peter Hall, è un privilegio assoluto. Spero solo che queste sorprese continuino.