Musicologa e organizzatrice di eventi culturali, Anna Maria Meo, direttore generale del Teatro Regio di Parma dal gennaio 2015, è un’inarrestabile, salutare locomotiva in movimento: da quando è alla guida del teatro, infatti, ha trasformato il Festival Verdi non solo nell’evento culturale princeps dell’autunno musicale internazionale, ma ne ha fatto un volano per la crescita, anche economica, del territorio. A un giro di lancette dall’apertura del sipario su Jérusalem, produzione inaugurale del Festival 2017, le abbiamo posto alcune domande sulla rassegna, sul rapporto con la città e con il pubblico.
La nuova versione del festival, che grazie alla sua direzione ha riacquistato nuovo vigore a partire dal 2015, sembra adesso aver raggiunto una fase di maturità – per la varietà della programmazione, per il respiro internazionale delle proposte, per il coinvolgimento delle realtà culturali del territorio. Cos’è, cosa dovrebbe essere un festival dedicato a Verdi nel 2017? Qual è il risultato di cui va più fiera e quali sono gli obiettivi ancora da raggiungere?
Sono stati due anni di lavoro intensissimo, su più fronti. Abbiamo dedicato molte energie e attenzione al nuovo pubblico e ai giovani, contaminando la programmazione con proposte innovative. Riuscire a portare a teatro una fascia di pubblico che ancora non si riconosce nella musica operistica è sicuramente una delle sfide che non possiamo permetterci di perdere. Da questo punto di vista, i risultati che abbiamo raggiunto a oggi, anche grazie all’esperienza di Barbara Minghetti [consulente per i progetti speciali e lo sviluppo del Teatro Regio di Parma, ndr], sono davvero rilevanti e ci rendono particolarmente orgogliosi.
Finanziamenti pubblici e sostegno dei privati: qual è lo stato di salute della cultura musicale a Parma?
Parma è una città fortunata che può contare su un tessuto di istituzioni culturali invidiabile. Con tutti siamo costantemente alla ricerca di un dialogo in termini progettuali che consenta un mutuo riverbero delle straordinarie potenzialità di tali istituzioni. Naturalmente il Regio è l’istituzione più grande e antica e interpreta un ruolo primario, soprattutto grazie al festival. Negli ultimi due anni, al sostegno dell’amministrazione comunale che non solo non è mancato ma ha decisamente incrementato il contributo a noi destinato, i privati hanno fatto la loro parte e questo ci ha consentito un rapido incremento delle risorse a disposizione, senza le quali il festival che debutterà domani non sarebbe esistito.
Da Jérusalem a Stiffelio, passando per La traviata, il prossimo Festival affronta il tema della religione, della colpa e della redenzione. Verdi nostro contemporaneo? Cosa racconta la drammaturgia verdiana allo spettatore di oggi?
Come sappiamo Verdi è stato un artista coraggioso, che ha espresso le proprie idee e preso posizioni spesso scomode su temi che ancora oggi fanno discutere. Questo ci consente di fare scelte che contengano in sé gli elementi per aprire un dibattito e anche attraverso le letture e le messe in scena registiche manifestare posizioni non necessariamente accondiscendenti con il pubblico più conservatore.
A partire dall’edizione 2017 il festival vanta la direzione di Roberto Abbado e un panel di consulenti scientifici presieduto da Francesco Izzo. Come si conciliano le esigenze produttive del teatro con il cantiere delle edizioni critiche, la cultura con il botteghino?
I titoli vengono selezionati in primis in base alla disponibilità delle edizioni critiche. Questa è una novità che abbiamo introdotto immediatamente a seguire la nomina, all’inizio di quest’anno, di un direttore musicale e di un comitato scientifico internazionale di grande prestigio che avrà parte attiva nel tracciare un percorso filologico che ritengo indispensabile al fine di legittimare il festival, anche da un punto di vista scientifico. Tale scelta non è in contrasto con il botteghino. Stiamo lavorando per creare una comunità di appassionati verdiani che desiderino ritrovarsi a Parma, provenendo anche da paesi lontani per ascoltare Verdi, tutto Verdi, non solo il Verdi più conosciuto che si può ascoltare ovunque e durante tutto l’anno. Gli straordinari risultati del botteghino, a oggi, ci confermano che siamo sulla buona strada.
Non solo Regio: dall’anno scorso la programmazione del Festival e del Teatro stesso coinvolge anche il Teatro Farnese. Dopo Giovanna d’Arco e il Prometeo di Luigi Nono, adesso sarà la volta di Stiffelio in una nuova produzione di Graham Vick, in cui già si annuncia che «il pubblico assiste all’opera in piedi, muovendosi liberamente all’interno dello spazio scenico». Un nuovo – benché antico – spazio scenico può dunque suggerire un nuovo approccio al più corrusco dramma verdiano?
Il Farnese è uno dei luoghi teatrali più affascinanti del mondo. Non è propriamente un teatro e per esempio non è dotato di tutti gli spazi accessori indispensabili alla realizzazione di recite d’opera. Ha dei vincoli molto stringenti finalizzati alla tutela delle persone e del bene monumentale e per finire il fascino delle strutture lo rende molto “invadente” anche dal punto di vista espressivo. L’unico approccio possibile è quello di rapportarsi con il Farnese come con un luogo astratto e di farne lo spazio dedicato a una proposta innovativa. È su questa linea che ci siamo mossi, collocando in questo spazio il progetto “Grandi Maestri al Farnese” che ha visto l’anno scorso la lettura registica della Giovanna d’Arco firmata da Peter Greeneway e quest’anno la proposta dirompente dello Stiffelio a cura di Graham Vick.
Oltre al Farnese, anche il piccolo Teatro di Busseto rappresenta una preziosa risorsa per le attività del festival, se non altro per il suo valore altamente simbolico. Si tratta di una mera sede decentrata o beneficerà di una programmazione ad hoc, magari site specific viste le ridotte dimensioni della sala?
Il Teatro Verdi è parte integrante e irrinunciabile della programmazione del festival. Fedeli all’idea di costruire per ogni spazio una vocazione, abbiamo collocato a Busseto il progetto giovani che comincia a giugno con il Concorso Internazionale Voci Verdiane, tra i vincitori del quale attingiamo per comporre i cast del titolo che viene messo in scena nell’autunno successivo. Il teatro diventa dunque luogo ospitante di una produzione, ma anche simbolicamente votato ad accogliere le nuove leve dell’interpretazione verdiana.
Parma è famosa in tutto il mondo per il suo “Club dei 27” e, soprattutto, per i suoi temutissimi loggionisti: come vanno i rapporti con questa parte del pubblico? Esiste – o può esistere un dialogo? È un pubblico fermo su posizioni intransigenti o si sta evolvendo?
I loggionisti hanno le loro idee e i loro gusti, ma mi piace dire che le loro posizioni sono meno granitiche di un tempo, sono oggi maggiormente consapevoli del fatto che il modo migliore per preservare la vitalità di un teatro sia quello di aprirsi ad approcci e interpretazioni diverse. In tal senso sarà interessante osservare l’effetto che produrranno su di loro le edizioni critiche che ripuliranno da consuetudini interpretative ormai consolidate, ma in alcuni casi non rispondenti alle partiture verdiane. Non di soli loggionisti, tuttavia, è fatto il pubblico: sono molteplici le azioni mirate al coinvolgimento del pubblico più giovane e, soprattutto, è stato bello verificare come il 10 ottobre, la data dell’anniversario della nascita di Giuseppe Verdi, sia ormai diventata l’occasione per una grande festa di compleanno in piazza della Pace, con tanto di flash mob, cori e danze.
Sta crescendo, il pubblico del festival?
Mi sento di rispondere di sì, assolutamente sì, il pubblico cresce numericamente, per provenienza geografica, per fascia d’età e per attitudine. Maggiore curiosità, maggiore disponibilità ad andare a “vedere”. Tutti segni di vitalità che ci motivano ulteriormente ad andare avanti sul percorso tracciato.
Per concludere. «Tutto nel mondo è burla»? O forse no? Esiste uno spazio per il sorriso nell’attività del direttore generale di un teatro?
Essere il direttore di un teatro e poi di un teatro come il Regio di Parma è un privilegio talmente grande che le (non poche) difficoltà del quotidiano possono essere considerate effetti collaterali accettabili.