In una splendida giornata, ormai al termine dell’estate salisburghese, incontro Yusif Eyvazov nel dehors del caffè davanti al Grosses Festspielhaus. Il tenore è reduce dalla prima delle due recite di Aida (si è avvicendato a Francesco Meli) sotto la bacchetta di Riccardo Muti. “Un grande direttore, importantissimo per me”, esordisce Eyvazov nel perfetto italiano appreso in 17 anni di studio e lavoro a Milano. Si dimostra subito cordiale e disponibile.
Come e quando ha incominciato a interessarsi al canto?
Relativamente tardi. A Baku, dove sono cresciuto, mio padre era ingegnere metallurgico e docente universitario. Nessun musicista nella mia famiglia: a 17 anni mi sono diplomato da scuola, non sapevo cosa fare e ho deciso di seguire le sue orme iscrivendomi a ingegneria. In facoltà ogni tanto si organizzavano festicciole e piccoli spettacoli. Una volta c’era da cantare, si sono tirati indietro tutti, ho provato io: l’accompagnatrice sentendomi si è stupita, diceva che forse avevo la voce per fare il cantante. Dopo tante insistenze, i miei genitori mi hanno accompagnato in conservatorio, dove mi hanno detto che studiando potevo tirar fuori qualcosa. Così ho incominciato a studiare canto continuando l’università: la mia idea era di dedicarmi al pop.
E invece poi è passato alla lirica: com’è andata?
Un giorno mentre ero a casa malato, una mia compagna di conservatorio mi ha chiamato per dirmi che alla televisione stavano trasmettendo un concerto di Montserrat Caballé dal Bolshoi. Mi sono messo a guardare giusto perché non sapevo che cosa fare: una folgorazione. È stato il punto di svolta della mia vita. Appena guarito sono andato a cercare tutti i dischi di opera disponibili, poi ho comprato i video che riuscivo a trovare: la prima opera che ho visto in film è stata La traviata di Zeffirelli, con Stratas e Domingo. Avrei voluto essere subito come loro, mi arrabbiavo perché non ci riuscivo… Studiavo giorno e notte con poco risultato, finché il mio primo maestro mi ha consigliato di andare in Italia e immergermi nella cultura operistica. Erano anni difficili in Azerbaijan. Mio padre è riuscito a mettere insieme 4.000 euro e così sono partito per Milano. La prima cosa che ho fatto appena arrivato è stato andare a vedere La Scala: ricordo la nebbia di febbraio, i tram che passavano e il teatro. I miei 4.000 euro sono durati un mese, poi per vivere e pagarmi le lezioni facevo il cameriere.
Finalmente nel 2010 è arrivato il debutto sul palcoscenico del Bolshoi con Cavaradossi nella Tosca.
Sì, avevo trovato la mia vocalità. Un giorno, io ero scritturato per la matinée, il sovrintendente mi ha chiesto di sostituire il tenore del cast principale, che avrebbe dovuto cantare la sera: ma dato che mi spiaceva far cancellare la matinée ho cantato due volte l’intera opera nello stesso giorno.
Una bella impresa.
Mah, diciamo che con Cavaradossi è possibile, non lo sarebbe stato certo con Des Grieux.
E allora veniamo al suo incontro con Muti, che l’ha scelto proprio per questo ruolo.
Nel 2013 ero a Ravenna per Otello con la regia di Cristina Muti. Durante le prove, lei mi ha incoraggiato a andare a Madrid a farmi sentire da suo marito che stava cercando un Des Grieux per Roma. A me sembrava una follia, non mi sentivo pronto. Ma ho seguito il suo consiglio: sono arrivato, prima di me c’erano altri due cantanti, mi sembrano bravissimi…
Muti ha fama di essere tanto severo con i cantanti: come si sentiva?
Per fortuna l’esperienza con lui è stata ottima da subito. Quando sono entrato ero terrorizzato, Muti ha capito e prima di cantare mi ha fatto parlare un po’, mettendomi a mio agio. Mi ha chiesto di cantare “Donna non vidi mai” e “No! Pazzo son”, mentre cantavo si è voltato a guardare dalla finestra: mi ha molto aiutato, mi sarei sentito meno libero se avessi avuto i suoi occhi addosso. Quando ho finito mi ha fatto ripetere tutto. Insomma, non ci credevo ma dopo due giorni mi hanno telefonato per dirmi che mi aveva preso.
A gennaio del 2014 hai iniziato a provare all’Opera di Roma.
Due mesi di prove e poi sei recite, una cosa massacrante, forse non ero pronto per una prova così importante.
Ma aveva già affrontato Otello!
È vero, ma Des Grieux è più difficile. Se pensiamo alla scrittura vocale, ogni atto sembra scritto per un tenore diverso: dal tenore leggero del primo atto fin quasi a un baritono con acuti tenorili per l’ultimo.
Questa produzione è stata importante anche per motivi personali…
A un certo punto si è saputo che sarebbe venuta Anna Netrebko che voleva fare Manon Lescaut: eravamo tutti un po’ preoccupati, pensavamo: “ecco, adesso arriva la diva, metterà tutti in riga, vorrà che si faccia quello che chiede lei”. Invece è arrivata all’inizio di febbraio, ha imparato la parte alla perfezione molto velocemente, si è dimostrata alla mano, cordiale.
E vi siete innamorati e dopo poco più di un anno sposati. Com’è organizzata la vostra vita adesso?
Viviamo fra New York e Vienna. Quando ho conosciuto Anna, lei aveva chiuso con Erwin [Schrott, ndr] da almeno un anno e si era organizzata una vita anche in funzione del figlio che allora aveva sei anni e doveva andare a scuola, quindi è stato più facile per me lasciare Milano.
Ma a Milano dovrà tornare presto per Andrea Chénier: ci sta già lavorando?
Prima di tutto, questo è un grande passo nella mia carriera: sono nato nel 1977, nel 1997 sono arrivato a Milano, e nel 2017 finalmente sul palcoscenico della Scala, e per un 7 dicembre. In giugno abbiamo incontrato Riccardo Chailly per una prima settimana di studio. Che grande direttore! Non solo ha la sua idea precisa di un’opera, ma sa spiegare ai cantanti tutti i particolari della sua visione, sicché tu hai chiaro perché si farà così e non in altro modo. Comunque, ho già debuttato Andrea Chénier a Praga l’anno scorso: per l’apertura della Scala voglio essere ben pronto.
Parlando di direttori, ha lavorato con Valerij Gergiev?
Abbiamo fatto Adriana Lecouvreur con Anna, l’abbiamo studiata insieme in 12 giorni: per una volta sono stato veloce anch’io, che di solito sono molto più lento di lei. Venendo a Gergiev, non è solo un grande direttore, ma un grande personaggio: il suo lavoro manageriale è enorme, segue le stagioni di cinque teatri e si lamenta che gli anni abbiano solo 365 giorni. A volte penso che dovrebbe prendersi più tempo per studiare, ma capisco anche che il suo ruolo è molto importante.
Un altro debutto importante è stato al Met nel 2015.
Ho sostituito Fabio Sartori in Turandot per due recite. Mi trovavo a Los Angeles per Pagliacci e sono andato in scena senza provare: ma Paolo Carignani, che era in buca, mi ha dedicato un’attenzione particolare, è andata benissimo.
Che differenza c’è fra cantare in Europa e negli Stati Uniti?
Soprattutto il pubblico: negli USA non è esigente come qui, specie in certi teatri: e non mi faccia pensare al prossimo 7 dicembre…
Allora non ci resta che aspettare Eyvazov a Milano per il nuovo Sant’Ambrogio e nel frattempo fargli gli ‘in bocca al lupo’ di rito: per il pubblico milanese sarà sicuramente una bella scoperta.