Un’opera chiave nell’evoluzione del dramma romantico ottocentesco, restituita alla sua originaria natura. Così Riccardo Frizza, direttore bresciano di carriera internazionale, racconta Lucia di Lammermoor, il capolavoro di Gaetano Donizetti che si appresta a dirigere al Teatro La Fenice di Venezia, in un nuovo allestimento con la regia di Francesco Micheli, le scene di Nicolas Bovey, i costumi di Alessio Rosati e le luci di Fabio Barettin.
La prima di venerdì 21 aprile sarà seguita da otto repliche: il 22, 23, 26, 27, 28, 29 e 30 aprile e il 2 maggio 2017. Nella compagnia di canto della nuova produzione veneziana figurano in alternanza Markus Werba e Giuseppe Altomare nel ruolo di Lord Enrico Asthon, Nadine Sierra e Zuzana Marková in quello di Miss Lucia, Francesco Demuro e Shalva Mukeria nel ruolo di Sir Edgardo di Ravenswood, Simon Lim e Alessio Cacciamani in quello di Raimondo Bidebent. Completano il cast Francesco Marsiglia (Lord Arturo Bucklaw), Angela Nicoli (Alisa) e Marcello Nardis (Normanno).
È la terza volta che nella mia carriera affronto Lucia – spiega Frizza – l’ho diretta un anno fa al Teatro Massimo di Palermo e lo scorso novembre all’Operà Bastille di Parigi. Questa di Venezia è una nuova produzione, sulla quale abbiamo lavorato molto sia dal punto di vista musicale che registico. Con Francesco Micheli abbiamo cercato di scavare a fondo in questo testo. Non sarà la classica Lucia con i cantanti che entrano, cantano ed escono: la recitazione avrà una parte fondamentale e quindi anche il canto ne risentirà in modo positivo.
Quale la cifra stilistica dell’opera?
Mi pare ben chiara: Lucia è, con Norma, l’eccellenza del belcanto e quindi sottolineerò tutti quegli aspetti che denotano il linguaggio tipico dei primi dell’Ottocento. Il canto legato, le varianti, le cadenze, l’elasticità del respiro musicale sono le caratteristiche da tenere presenti. Trovo che Donizetti sia un autore troppo spesso trascurato e mal eseguito. Ritengo invece che, genio assoluto del dramma in musica, abbia avuto nella storia del melodramma italiano un’importanza ben superiore a quella che purtroppo gli si riconosce.
Un esempio di questa genialità donizettiana?
I recitativi. Chi inventa il declamato è Donizetti, non Verdi, che lo usa magnificamente. Ma il declamato c’è già in Donizetti, le cui scene sono così ben costruire perché le parole sono davvero la chiave del recitativo.
Quale invece la caratteristica dell’opera sotto il profilo orchestrale?
Si tratta di un capolavoro che si caratterizza per un colore che è quello dell’orchestra romantica italiana dei primi decenni dell’Ottocento, quindi con uno spiccato accento bandistico e con suoni sovente raddoppiati: cose che non sembrano incontrare il gusto del pubblico contemporaneo. Tante volte noi direttori dobbiamo snaturare un po’ questa orchestrazione per trovare un colore più leggero. Tuttavia, se ci si attiene alla partitura cercando di eseguirla con eleganza, la scrittura non è per nulla volgare.
Come sarà questa Lucia rispetto alla tradizione?
Ho riaperto molti tagli, soprattutto in diversi tempi di mezzo solitamente sacrificati nelle esecuzioni dal vivo. Per la celebre cadenza del soprano nella scena della follia utilizzeremo la glassarmonica e non il flauto, come fu alla prima. In merito alle variazioni nelle pagine virtuosistiche del soprano, poi, ognuna delle due interpreti ne eseguirà di più consone alla propria vocalità, ma sempre nell’alveo della tradizione. Il canto di Edgardo sarà amorevole, improntato alla gentilezza e alla nobiltà.
Impegni futuri?
Passerò l’estate in Italia, all’insegna di Verdi: dirigerò Aida al festival estivo di Macerata e poi, in ottobre, Falstaff al Festival Verdi di Parma.
Riccardo Frizza photo credit: Merri Cyr