Dodici anni dopo il suo debutto a Genova, torna a calcare il palcoscenico del Teatro Carlo Felice il tenore spagnolo Celso Albelo. Dal 17 al 28 maggio sarà Leicester, il protagonista maschile di Maria Stuarda di Gaetano Donizetti, ruolo con cui il cantante ha debuttato al Metropolitan Opera House di New York lo scorso anno conquistando un grande successo. La nuova produzione genovese si avvale della regia di Alfonso Antoniozzi e della direzione musicale di Andriy Yurkevych.
Felice di tornare a Genova?
Molto. Ci torno dopo dodici anni e con lo stesso compositore: feci Don Pasquale, la mia prima recita in un teatro al chiuso in Italia. Prima di allora mi ero esibito a Busseto ma all’aperto.
Ci presenti brevemente l’opera.
Maria Stuarda è un’opera che ha tutto: una storia d’amore e una politica. C’è amore per le donne e per il potere, si tratta di una storia molto contemporanea. Il mio ruolo cade nel mezzo della lotta tra due donne, due regine, e tra le due cerco di portare la pace, ma senza successo. Essere in un mondo di potere e di donne a volte è complicato, così come venirne fuori con un carattere.
Com’è Leicester dal punto di vista vocale?
È uno di quei ruoli di cui il pubblico, in genere, non comprende la difficoltà tecnica e vocale. Presenta infatti una scrittura piena di passaggi che, se non risolti, sono pericolosi. Ad esempio, l’aria d’entrata è una pagina molto difficile da gestire e anche piuttosto lunga: si basa tutta sul passaggio e non lascia mai sfogare la voce.
Come sarà invece il suo personaggio sotto il profilo registico?
Devo dire anzitutto che con direttore e regista stiamo lavorando in perfetta armonia. Ci sono tante possibili letture del personaggio: non abbiamo puntato tanto sulla dimensione romantica, ma ne abbiamo fatto un uomo con pochi scrupoli. D’altro canto, in un mondo dominato dallo scontro tra due donne e dove uno sbaglio può costare la testa, Leicester è consapevole dell’ascendente che, come uomo, ha su entrambe le protagoniste. Nel complesso, l’impostazione registica ha un taglio classico, ma con alcune scelte originali.
Qual è il suo giudizio, a questo proposito, nel dibattito tra regie attualizzanti e regie più tradizionali?
Prima di dedicarmi al canto ho studiato storia dell’arte e sono consapevole che, come accade nella fruizione di un’opera d’arte, anche l’ascolto di un capolavoro musicale cambia nel tempo. Penso quindi che si debba essere fedeli al compositore senza stravolgerne l’intenzione, ma semmai cercando dei parallelismi tra il momento in cui l’opera è stata scritta e il presente.
Parliamo del suo maestro Carlo Bergonzi: qual è il suo più grande insegnamento?
Direi il gusto per il fraseggio all’italiana. Di nascita sono spagnolo ma di crescita musicale sono italiano, e cerco quindi di perseguire il canto all’italiana che sembra un po’ passato di moda.
Il suo repertorio presenta molti titoli belcantistici.
Sì, ho avuto la fortuna di cantare la Trilogia Tudor di Donizetti in tutto il mondo, spesso con grandi soprani, da Mariella Devia a Edita Gruberova e Anna Netrebko. In repertorio, di Donizetti, ho anche Lucrezia Borgia. Vengo ora da una tournée in diversi teatri italiani con Puritani di Bellini, un’opera che canto da dodici anni senza tagli: per me è una grande soddisfazione. Si tratta di un ruolo meraviglioso, che mette a dura prova la voce dall’inizio alla fine: penso, ad esempio, all’abbandono romantico del personaggio o al lungo recitativo all’inizio del terzo atto. Certo, ci sono gli acuti, che poi costituiscono l’aspetto più spettacolare della scrittura per un certo tipo di pubblico. Ma io lavoro tanto sui colori, sul fraseggio, cercando di perseguire ciò che voleva il compositore.
Impegni per il futuro?
Approfondirò sempre di più il repertorio francese, nel quale mi trovo molto a mio agio. Ho già cantato Werther, a gennaio debutterò in Manon di Massenet a Bilbao, una piazza molto importante in Spagna. In progetto ho anche Roméo et Juliette.
Un sogno?
Riccardo di Un ballo in maschera, un ruolo fantastico.