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Sebastiano Rolli e Rosmonda d’Inghilterra – L’intervista

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Sebastiano Rolli è uno dei direttori più apprezzati del momento, anche a livello internazionale. Nato nel 1975 in una famiglia di musicisti (il padre era direttore di coro), svolge gli studi di Musica da Camera e Composizione ai Conservatori di Milano e di Parma, per intraprendere molto giovane la carriera di direttore d’orchestra spaziando in un repertorio vario ed eclettico. Negli ultimi anni ha mostrato un deciso interesse nei confronti del repertorio belcantistico, partecipando ad esecuzioni di opere raramente messe in scena, ed è su questo argomento, complice la prima rappresentazione mondiale in epoca moderna di Rosmonda d’Inghilterra di Donizetti a Bergamo, che verte l’intervista che ci ha gentilmente rilasciato.

Maestro Rolli, lei ha un repertorio molto vasto che spazia da Mozart a Puccini, da Fauré a Stravinskij, eppure negli ultimi anni si è fatto notare e apprezzare soprattutto per una particolare dedizione al belcanto: è stata una scelta ponderata o un caso?

Sicuramente non è stato un caso. Il mio interesse per l’Ottocento italiano viene da radici lontane. Direi che è uno stato culturale di matrice addirittura popolare. Il melodramma è stato il mezzo espressivo che ha creato nella nostra nazione una cultura e una coscienza condivise. Sarebbe troppo lungo richiamarne le ragioni storiche, ma l’influenza di questo processo non è diminuita. Il belcanto è un particolare concetto che impronta di sé tutta l’opera romantica anche quando la sua peculiarità più evidente verrà sostituita da un realismo di marca pronunciata. L’ultimo Verdi è figlio del belcanto e la sublimazione romantica del sentimento che porta con sé, anche se cambia la forma più epidermica, rimane sempre come sottinteso musicale. Mi spiego meglio: c’è stato un periodo nel quale si tendeva a leggere certi titoli verdiani alla luce di quello che ci sarebbe stato poi, anziché alla luce di quello che c’era stato prima. Ora, sebbene Verdi abbia spalancato letteralmente le porte al Novecento musicale in tante sue forme, è pur vero che è rimasto figlio di una tradizione che vedeva nell’espressione vocale un momento di simbiosi sublimata con la situazione scenica. Verdi predicava l’immedesimazione totale del cantante con il personaggio e sappiamo che chiudeva un occhio, e magari anche un orecchio, su eventuali imperfezioni tecniche; ma esigeva verità nell’approccio vocale. Questa verità, tuttavia, si inseriva su una scrittura di stampo romantico e mai veristico. Il romanticismo di Verdi esige insomma realismo e non verismo, ossia aderenza alla verità drammaturgica stilisticamente trattata alla luce dell’elevazione del sentimento.

E Donizetti come si muoveva in questo ambito?

Donizetti, vero padre musicale di Verdi, era ancora più compenetrato da questa tendenza: quella di togliere peso alla sofferenza umana grazie alla bellezza. Le grandi scene di martirio, di dolore, di morte, spesso sono accompagnate da marcette, oppure da melodie che tutto esprimono tranne che la fisicità del dolore. È stata fraintesa a più livelli tale scelta, ma non si tratta che della traduzione in termini musicali del precetto di Schiller: Chi arriva alla bellezza, troverà che dietro si cela sempre la verità. Questo è il succo del belcanto: la bellezza come veicolo di verità, la sublimazione del sentimento, la catarsi, la purificazione dell’umano peso, e il raggiungimento del bello. Questa sottrazione di peso ricorda un po’ quella predicata da Italo Calvino all’inizio delle sue Lezioni americane: la leggerezza non come superficialità, bensì come rifiuto della scoria che ci tiene attaccati a una terra mortale.

E Rossini?

Rossini aveva capito questo in una misura eccezionale, ma non ha mai portato nella propria opera alcuna immedesimazione. Il gioco della vita, per lui, si svolge all’interno di una grande perfezione formale. L’illuminismo di Rossini ci restituisce un teatro dell’intrattenimento che vede nei propri personaggi delle pedine delle quali sorridere dall’alto; il romanticismo di Bellini e Donizetti porta una fede positiva nella sorte del dramma. Il compositore si immedesima totalmente nella vicenda che sta narrando e soffre con i propri Edgardo, Lucia, Amina, Norma…

Quali altri elementi influiscono a questo proposito nella produzione musicale del primo Ottocento?

Un elemento che a mio avviso rimane motivo di grande fascino ancora oggi, è il sentimento popolaresco. Il popolare così come lo intendeva Leopardi nello Zibaldone fa capolino in ogni lavoro di questo periodo: un misto di stupore, di estraneazione dalla realtà più spicciola, ma soprattutto il senso del suono, del colore semantico a scapito del significato immediato. Fu Leopardi a scrivere che l’artista creatore deve ascoltare il popolo perché più vicino alla natura e meno contaminato dalla razionalità. Cent’anni dopo un altro grande poeta e musicofilo milanese, Delio Tessa, scrisse nella prefazione di quella deliziosa raccolta che è L’è el dì di mort, alegher: “Il mio maestro è il popolo quando parla, perché più attento al suono che ai significati apparenti”. Anche qui viene espresso un grande concetto che fa parte dello strumento espressivo su cui poggia il belcanto: il suono, il colore quale veicolo di un’emozione, di uno stato d’animo, di un sentimento…quindi l’affrancamento dal descrittivismo, dal didascalismo; l’arte come espressione del bello, e il significante quale veicolo principale del messaggio. È per questo che i cantanti devono cantare non sulla parola, ma dentro la parola. Gustarne le sfumature, le sonorità interne…sentire la parola come i nostri grandi della prosa, penso a Vittorio Gassman o al lavoro svolto sul suono del testo da Carmelo Bene.
Il grande poeta Franco Loi mi raccontava che da bambino faceva un gioco con mio nonno, si era durante la guerra in un paesino della bassa parmense, Colorno: a turno sceglievano una parola poi la ripetevano assieme velocemente sino a perdere il significato per perdersi nel suono. Infatti quando Franco mi legge le sue poesie allunga le vocali come cantando, oppure pronuncia le consonanti in modo da creare fratture tra le sillabe. Quello che gli preme mettere in evidenza è il suono: questo è belcanto, e questo è quello che mi affascina e amo.

In questi giorni è impegnato a Bergamo nelle prove di Rosmonda d’Inghilterra, che, dopo alcune esecuzioni in forma di concerto, fra cui quelle da lei dirette a Firenze il mese scorso, verrà eseguita in forma scenica per la prima volta in epoca moderna. Ci può spiegare come mai, secondo lei, un’opera della maturità donizettiana di ottima fattura come Rosmonda sia sfuggita alla “Donizetti Renaissance” iniziata negli anni ’50/’60 del secolo scorso?

Io credo che certe casualità possano giocare una parte importante. Rosmonda è un’opera di fattura notevole, anche se non parliamo di un capolavoro. A Firenze nel 1834 ebbe una o due repliche poi venne abbandonata. Donizetti la rimaneggiò tre anni dopo per Napoli, le cambiò titolo e divenne Leonora di Guienna, non venne mai eseguita. Si tratta di un lavoro di grande mestiere con momenti di ottima ispirazione. Il fenomeno Donizetti, che si ripeterà anche con Verdi, è tale per cui la tenuta teatrale del melodramma non cade mai. Anche quando siamo di fronte a lavori non perfetti, d’ispirazione discontinua, non siamo mai di fronte a lavori noiosi o zoppicanti dal punto di vista drammaturgico. Bisogna sottolineare ancora una volta, come ha fatto Marcello Conati nella sua ultima imprescindibile opera Piegare la nota, che la drammaturgia nasce dalla partitura musicale. Quello che vediamo rappresentato sulla scena o leggiamo nel libretto (in questo caso un lavoro non ispiratissimo di Felice Romani), acquista vita solo alla luce della partitura musicale che è la chiave di lettura del dramma. I compositori dell’ottocento s’interessavano al soggetto nella misura in cui questo gli permetteva una determinata traduzione musicale. Sono le scelte armoniche, contrappuntistiche, melodiche e ritmiche che innervano il dramma del proprio significato. Dobbiamo quindi ritenere che un’opera teatralmente valida la sia anche musicalmente! Il fatto che la Donizetti Renaissance abbia ignorato Rosmonda potrebbe essere conseguenza del sospetto in cui era tenuta la convenzione formale. L’opera a forme chiuse, mezzo mai abbandonato dal compositore bergamasco, tende ad essere fraintesa nel proprio contenuto. La forma, lontana da ogni convenzionalismo, è l’architettura su cui poggia il dramma! L’alternarsi dei singoli pezzi chiusi non è altro che la scansione delle situazioni della vita dei personaggi. La scelta del compositore, quindi, non è mai casuale, bensì di completa immedesimazione a quella che è la ragione più profonda della psicologia dei personaggi e della situazione scenica. Donizetti, per esempio, è incline a preferire l’aria a due anziché il duetto perché vuole, servendosi di questa, mettere maggiormente in rilievo le singole posizioni e psicologie senza fonderle troppo presto. Il processo verso un approfondimento realistico dell’interiorità dei caratteri scenici, viene veicolato sempre da scelte musicali e formali precise. In Rosmonda abbiamo una scansione di pezzi chiusi molto marcata come marcata è la volontà di entrare nell’anima dei nostri eroi. Chissà che questa sottolineatura del formalismo non abbia spaventato qualcuno…mentre è l’architettura su cui poggia tutto il teatro in musica.

Che cosa contraddistingue Rosmonda rispetto alle due opere fra le quali risulta cronologicamente incastrata, Lucrezia Borgia e Maria Stuarda, due titoli che al contrario hanno prepotentemente conquistato il loro spazio nel repertorio di ogni teatro?

Credo che le differenze si possano rintracciare principalmente dalla minore continuità d’ispirazione di Rosmonda rispetto agli altri due lavori citati. Maria Stuarda anche è un’opera non perfettamente bilanciata: il primo atto, benché abbia pagine alte, è spesso risolto attraverso un grande mestiere; ma il secondo diventa una cantata profana di grandissima fattura, nella quale la protagonista viene accompagnata alla catarsi attraverso pagine che vogliono veramente trasformare l’umano dolore in qualcosa di trascendente, addirittura in una offerta a Dio. Maria muore in modo cristologico. In Rosmonda questo manca. L’opera si chiude perentoriamente, direi quasi sperimentalmente. La scelta di Donizetti di non dare a nessuno la possibilità di redimersi può spaventare l’esecutore e anche lo spettatore, ma un certo pessimismo cosmico era nell’aria in quegli anni…La ginestra, ovvero il fiore del deserto è stata scritta nel 1836 (fra le due rosmonde o leonore che dir si voglia) proprio a Napoli, non dimentichiamolo.

Come moltissime opere donizettiane e non solo, anche Rosmonda d’Inghilterra, nonostante la quasi immediata scomparsa dai teatri dell’epoca, è contraddistinta da pagine alternative. L’opera è conosciuta agli appassionati soprattutto per l’incisione di Opera Rara, che adottava un finale, quello di una revisione mai però rappresentata, forse teatralmente più efficace, che prevedeva una cabaletta per il personaggio della deuteragonista. Come mai si è optato per un finale al contrario ben più “sbrigativo”?

In effetti le pagine alternative sono sempre numerose, ma, nel caso dell’autografo che è rimasto e scritto per Firenze, in questo caso si limitano a un’unica pagina: la cavatina di Rosmonda. Nell’autografo non compare il pertichino di Arturo, che però compare nel libretto di Romani e nello spartito canto e piano. Ora sappiamo che il libretto riportava fedelmente ciò che veniva eseguito in scena, quindi a Bergamo abbiamo pensato di reinserire il pertichino di Arturo ricostruendo l’accompagnamento della chitarra fuori scena grazie al canto e piano. Per quanto riguarda il finale, il discorso è differente. La scena di Leonora venne scritta per la ripresa napoletana alla quale Donizetti cambiò il titolo. Leonora di Guienna non è il semplice rifacimento di Rosmonda, bensì un’altra opera nella quale il personaggio principale viene affiancato da un altro carattere di pari peso ed importanza. La scena finale di Leonora, Donizetti non l’aveva nemmeno completata a Napoli…è stata completata da un revisore. Noi abbiamo scelto di eseguire Rosmonda, l’opera che Donizetti rappresentò a Firenze nel 1834, non Leonora di Guienna che Donizetti scrisse e non rappresentò mai a Napoli nel 1837. Purtuttavia esistono pochi versi conclusivi di Felice Romani che Donizetti ha sicuramente musicato per Firenze e che vennero eseguiti ma di cui non abbiamo più la musica.

Una decisione delicata, insomma.

Indubbiamente. A Firenze abbiamo eseguito questi versi musicati dal revisore Alberto Sonzogni; abbiamo utilizzato il principio conosciuto a proposito di Turandot. Anche l’ultima opera di Puccini vede un libretto (peraltro integralmente musicato da Puccini anche se non integralmente orchestrato) completo al quale manca la versione definitiva del finale in musica. Turandot è stata completata da Alfano e da Berio, ma non sono sicuro della legittimità dell’operazione. Sarebbe come terminare Die Kunst der Fuge o un affresco incompiuto di Giotto! Io credo che in un’operazione come la nostra, che decide di prestare fede all’autografo, si debba eseguire ciò che Donizetti ci ha lasciato, nella consapevolezza di essere di fronte ad un autore non ancora così attento a tramandare ai posteri un autografo perfettamente fedele all’esecuzione teatrale da lui realizzata. Dovremo aspettare Verdi per ritenere l’autografo un vincolo (sempre letto alla luce di tutte quelle regole non scritte perché implicite nella quotidianità del far musica che chiamiamo prassi esecutiva e non tradizione).
Donizetti scriveva un’opera, poi nella realtà scenica, nel vivere giornaliero del teatro, cambiava, correggeva, aggiungeva, toglieva inserendo il tutto nelle parti dell’orchestra o in quelle che consegnava ai cantanti…materiale irrimediabilmente perduto. Non si preoccupava di riportare in partitura tutto ciò che era partorito in sede di prova. Il concetto di posterità non si prendeva in considerazione. L’opera era materiale per il momento, da bruciarsi nell’attimo teatrale così come la vita dei suoi personaggi: i caratteri di Donizetti, infatti, non vivono una vita extrascenica come quelli di Verdi, bensì consumano e bruciano le loro passioni nell’attimo in cui recitano la propria parte sulla scena. Non portano con sé un passato e non ne possiamo intuire un futuro. Le partiture autografe servivano solo come traccia modificabile per l’esecuzione del momento. L’esecutore come può integrare ciò che sa esserci stato ma è andato perduto? Dovremmo comporre noi al posto di Donizetti oppure sottometterci alla volontà del tempo e restituire ciò che la Storia ha voluto arrivasse? Io, nelle esecuzioni bergamasche di Rosmonda, propendo per un’esecuzione fedele dell’autografo fiorentino così come è arrivato sino a noi.

Può illustrarci la tipologia vocale dei personaggi di quest’opera?

La vocalità di Rosmonda è abbastanza tipica e simile ai lavori coevi. Prima ricordavamo Maria Stuarda e devo dire che le similitudini non mancano: abbiamo una protagonista alla quale la frase musicale richiede sempre un abbandono interiore e melanconico. La curvatura melodica non è dimentica della coloratura, ma questa è comunque indirizzata ad approfondire una piega psicologica del personaggio. La deuteragonista poggia su una scrittura più incisiva e aggressiva. La scelta del compositore vuole infatti sottolineare un carattere scolpito, benché non manchi (all’inizio del secondo atto) un duetto in cui, come si diceva prima, la sublimazione romantica del sentimento fa capolino. Quindi una Leonora che si lascia trasportare dal suono più che dal significato apparente… Enrico, il nostro tenore, ha una parte ingrata: sempre sul passaggio, in una tessitura scomoda nella quale vengono richieste molte smorzature e mezze voci. Il suo è un canto che deve alternare l’aggressività alla dolcezza e manca di una vera e propria aria. Donizetti sceglie per il suo ingresso una scena ibrida fra recitativo e cantabile, prima della musica di mezzo e della successiva cabaletta. Clifford rappresenta l’auctoritas. E’ il padre ferito, l’istitutore tradito, e nel suo canto sentiamo l’eco del Raimondo della Lucia. Anche lui non ha un’aria, ma la sua presenza è costante e fondamentale, con due duetti in cui percepiamo la preferenza del compositore per la vocalità di basso più che di baritono. Arturo è il classico ruolo en-travesti. E’ un mezzosoprano accorato e innamorato. Un Cherubino che ha perso la propria innocente eccitazione? Comunque un ruolo dotato di aria e cabaletta, molto presente nelle scene d’assieme.

Come affronta la questione delle variazioni: le scrive di suo pugno, o le lascia agli interpreti?

La questione delle variazioni è sempre delicata. In Donizetti e Bellini, a differenza che in Rossini, queste non devono essere di carattere puramente virtuosistico o edonistico, ma devono condurci ad approfondire maggiormente l’interiorità del personaggio. E’ uno scatto qualitativo fondamentale. In quest’opera l’autore ha scritto delle cadenze molto interessanti che noi eseguiamo, ma ovviamente non le variazioni nelle ripetizioni. Devono quindi essere inserite dall’interprete come da prassi. Tendo a lasciare una certa libertà ai cantanti perché devono sentirsi sicuri e comodi all’interno della scrittura. Oltretutto la variazione deve intensificare le difficoltà e non semplificarle. Intervengo solo nel momento in cui qualcosa non mi convinca o lo ritenga inadeguata o fuori stile. Non dimentichiamo però che la variazione può anche riguardare il colore, la condotta dinamica o agogica, gli accenti, i pesi della parola o delle intenzioni, non solo le note. Anche se la melodia non deve essere la stessa, basta un’acciaccatura, un mordente, un gruppetto per creare la variazione. Noi abbiamo anche scelto di inserire diverse puntature, soprattutto nei finali maggiormente drammatici.

Ha in programma altre rarità del belcanto?

Ho in programma una tournée con il Maggio Musicale Fiorentino in cui eseguirò L’italiana in Algeri e Il barbiere di Siviglia in Oman; quindi Norma a Tenerife e La traviata a Firenze. Non si tratta di rarità ma di belcanto sì… in un certo senso anche La traviata, benché ovviamente si parli un linguaggio differente da quello di Norma.

Possiamo aspettarci un suo studio critico su Donizetti, sulla scia di quello da lei dedicato a Verdi?

Per arrivare a scrivere qualcosa che valga la pena di essere letto ci vuole molto studio, riflessione e silenzio. In questo periodo mi manca il tempo per studiare e riflettere come vorrei e dovrei. Mi piacerebbe un giorno scrivere qualcosa sul melodramma italiano dell’Ottocento e sull’approccio che credo debba richiedere. Ora cerco di tramutare una sommaria istruzione in cultura, se mai ci riuscirò. L’istruzione è un fatto quantitativo, la cultura qualitativo. Si deve arrivare a trasformare l’informazione in esperienza di vita, allora forse può valere la pena illudersi di comunicare qualcosa che rimanga. Ora sono in una fase di osservazione, e il silenzio va recuperato sempre di più…

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