Con la scomparsa di Luciano Berio, esattamente 20 anni fa, il 27 maggio 2003, se ne andava una punta di diamante della musica contemporanea italiana. Un esponente internazionale del post-webernismo sino alle sue ultime conseguenze. Impossibile ripercorrerne esaustivamente l’intensa attività di compositore, didatta, direttore d’orchestra, saggista e conferenziere. Berio nasce nel 1925 a Oneglia (Imperia), studia a Milano con Paribeni e Ghedini, diplomandosi nel 1950. Nel 1954, assieme a Bruno Maderna, fonda lo Studio di fonologia musicale della Rai. Successivamente dirige gli Incontri musicali (Quaderni internazionali di musica contemporanea) con i quali dà impulso alla diffusione delle più aggiornate sperimentazioni musicali. Insegna quindi in Europa e in America: da Darmstadt a Harvard. Lavora alla Columbia University e alla Juilliard School of Music di New York, fino a coprire, negli ultimi anni, la carica di presidente e sovrintendente dell’Accademia di Santa Cecilia.
A differenza di altri compositori, Berio è stato sempre poco incline alla discussione ideologica. Ha preferito invece elaborare progetti linguistici concreti, partendo dalla materia sonora, dalla sperimentazione del materiale acustico. Muovendo da un ampliamento aggiornato, in chiave “atonale” o liberamente seriale, del discorso tradizionale, si inoltra progressivamente nell’esperienza elettronica, fino a diventarne un cultore convinto. La considera una nuova dimensione tecnica e poetica in funzione della creazione musicale. Tra le partiture in cui utilizza questo procedimento, figurano Omaggio a Joyce (1959), Momenti (1960), Visage (1961). Tuttavia l’approccio precoce alla musica elettronica (in Italia avviata proprio da lui in collaborazione con Maderna) va considerato uno dei tanti momenti della sua ricerca. Nella creatività di Berio l’elettronica convive di fatto con la rivalutazione dell’artigianato musicale. Senza contare le aperture – difficile dire fino a che punto critiche – sul fronte del repertorio leggero e di consumo, come dimostrano le sue strumentazioni e contaminazioni di song dei Beatles. Caratteristica di fondo della sua inventiva musicale è dunque una sorta di eclettismo sfrenato, che non rende mai decisiva e carismatica la sperimentazione acquisita, ma la inserisce in un bagaglio di approdi e ipotesi.
La produzione di Berio in campo cameristico è vastissima, ma è nelle opere teatrali che il musicista si precisa come manipolatore onnivoro di elementi eterogenei. Non disdegna di accogliere materiali presi in prestito dalla Musical Comedy, come in Allez-hop del 1959 (riadattata nel 1968). A questa segue Passaggio (1963), dedicata a Darius Milhaud, dove il musicista sottopone il materiale a un processo continuo di ripetizioni, montaggi, variazioni di sezioni e cellule. Il linguaggio di Berio, con la sua vocazione alla struttura aperta, portata ad accogliere tutti i mezzi espressivi della composizione musicale, è evidente in quello che è forse il suo lavoro più emblematico: Opera (1970). Qui, l’individuazione di nuove possibilità in campo vocale è il presupposto per generare un meccanismo complesso che trova sbocco naturale nella drammaturgia. Opera è anche una parodia di generi musicali riconoscibili, un’accumulazione di modi diversi di composizione musicale, vocale e scenica. Seguiranno La vera storia (1982) su libretto di Calvino, una riflessione sul processo dell’invenzione, e Un re in ascolto (1984), ancora in collaborazione con Calvino, che propone una rilettura della Tempesta di Shakespeare. Avanguardia e tradizione recuperano così uno spazio comunicativo comune fino a Outis, data alla Scala nel 1996, dove la variabilità della musica, del testo e della scena è la “costante narrativa”, per ammissione dello stesso compositore.
La poetica di Berio tocca i punti cruciali dei più intricati nodi esistenziali e linguistici dell’epoca moderna. Certi aspetti di Opera, per esempio, fanno pensare alla scrittura di Beckett, al tema dell’incombenza della morte, a un’ossessività senza scampo. Tuttavia, la spirale angosciante non soffoca mai, in Berio, aspirazioni, desideri e vitalità. Proprio la continua metamorfosi dei materiali smentisce l’assolutezza e l’orrore della morte. La spirale metamorfica, che intreccia in modo sempre nuovo organismi e forme musicali, lascia aperti tutti gli interrogativi e rifiuta di fornire risposte certe. Lasciando spazio alla speranza e alla continuità della vita.