Il 7 dicembre 2009 si inaugura una nuova stagione scaligera e il titolo scelto è un caposaldo del repertorio: Carmen di Georges Bizet. Gli occhi sono puntati su Jonas Kaufmann, praticamente debuttante al Piermarini, e sulla giovane protagonista, Anita Rachvelishvili, che mai aveva calcato un palcoscenico prima di allora, ma anche sul debutto operistico di Emma Dante, che, quasi come da copione, si sorbisce la sua dose di fischi. In quel momento la regista, nata a Palermo nel 1967, è ormai un nome consolidato nella prosa, grazie alla sua compagnia, fondata dopo gli studi accademici a Roma e Torino, con cui porta avanti un percorso di ricerca fortemente ancorato al territorio e al tessuto sociale. Nei suoi spettacoli vi è una forte attenzione al linguaggio parlato (il siciliano), al ritmo sia musicale che teatrale, ma anche ai temi sociali più vicini al pubblico palermitano, così che risultano sempre fortemente ancorati al profondo substrato culturale che potremmo definire mediterraneo. Dante cerca di convogliare tutto ciò già in quella Carmen inaugurale, con un risultato apprezzabile ma non convincente fino in fondo: mette in evidenza la violenza e l’erotismo del dramma, come da tradizione, e aggiunge alla parte visiva una forte componente religiosa che diviene quasi ingombrante, anche se suggestiva nell’ultimo atto. La risultante è tuttavia una Carmen fortemente cupa, molto claustrofobica, anche a causa delle scenografie inconfondibili di Richard Peduzzi, ma che cerca di indagare nelle ombre primitive del Mediterraneo assolato e convenzionale.
Dopo l’esperienza scaligera, la carriera operistica della Dante ci mette un po’ a decollare. Viene prima chiamata nel 2012 ad allestire La muette de Portici di Auber all’Opéra Comique di Parigi (unica sua commissione fuori dall’Italia) in cui lavora soprattutto sul personaggio di Fenella (la muta), interpretata da una ballerina aggressiva, quasi bestiale negli approcci, mentre i soldati del viceré vengono tratteggiati come energumeni del profondo Sud, violenti ed estremamente virili. Questa visione sempre ancorata all’immaginario ancestrale e cupa del Sud Italia e del Mediterraneo diventa il marchio di fabbrica di Dante e si ritrova in tutte le sue creazioni, come testimoniano due produzioni pensate per il Teatro Massimo di Palermo: Feuersnot di Strauss (2014) ambientato in una piazza palermitana, e il Macbeth (2017) tra i fichi d’india. Somma testimonianza di questa visione può essere considerata la Cavalleria rusticana allestita a Bologna nel 2017 e poi ripresa in giro per l’Italia: la Sicilia della Dante è oscura e misteriosa, fatta di riti comuni e ancestrali, esemplificati dal continuo riferimento alla Via Crucis, mentre gli unici elementi di colore sono i ventagli delle donne disposte sulla scalinata barocca con fare inquisitorio e provocante allo stesso tempo. In tutto ciò gli interpreti vengono guidati in una interpretazione tradizionale ma che non potrebbe essere più vera grazie proprio alla potenza delle immagini che Dante sa far sprigionare, compresa la creazione sul finale di un tableau vivant di donne piangenti che fa pensare a quelle scolpite da Niccolò dell’Arca nel famoso Compianto su Cristo Morto nella chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna. In questa produzione Cavalleria viene unita a La voix humaine, interpretata in un modo totalmente diverso rispetto all’opera di Mascagni: Elle telefona da uno ospedale psichiatrico che si rivela al pubblico con l’avanzare del dramma, dove la realtà si mescola alle visioni dal passato della protagonista, che alla fine, dopo aver immaginato di strozzare il suo uomo col filo della cornetta, si siede calma sul letto pronta ad affrontare la terapia o forse a morire.
Grazie a questo allestimento, oltre che al già citato Macbeth, il nome di Emma Dante viene sempre più considerato dalle direzioni artistiche. In particolare inizia presto una collaborazione con l’Opera di Roma che la scrittura ad allestire L’angelo di fuoco di Prokof’ev nel 2019, ambientato tutto in una sorta di catacomba, con particolare riferimento a quelle palermitane dei Cappuccini. A partire da La voix humaine si instaura inoltre una collaborazione con Anna Caterina Antonacci, protagonista dell’allestimento di Iphigénie en Tauride che circuita tra i teatri del circuito Opera Lombardia nell’autunno 2021: qui tra richiami alla classicità, sempre comunque ancorata nel passato mitico e ancestrale, e grazie al carisma della protagonista, Dante realizza uno spettacolo di forte impatto visivo, in una delle letture più affascinanti e moderne che si siano avute dell’opera di Gluck. Il rapporto artistico con Antonacci trova poi un altro vertice nei Dialogues des Carmelites (2022) dove le scene di Madame de Croissy diventano i momenti meglio riusciti di uno spettacolo che ha molti pregi, ma che risulta nel complesso meno convincente di altri della regista, troppo concentrata nella resa cerebrale di un dramma che sopporta con difficoltà le sovrastrutture.
L’idea che si ricava da una panoramica degli spettacoli di Emma Dante è che siano degli ottimi contenitori, adatti per tutti i tipi di interpreti che ci passano attraverso, grazie a idee di base semplici e a un numero variabile di attori aggiunti che diventano parte fondante dell’azione. Oltre agli esempi citati, fa fede anche uno spettacolo come Cenerentola nato all’Opera di Roma nel 2016 e approdato anche a Bologna un lustro più tardi: Dante trasla la vicenda in un immaginario steam-punk dove si svela il congegno teatrale come una macchina e vengono evidenziati anche gli aspetti più grotteschi e crudeli della fiaba, ma che risulta fresco e vitale anche a una ripresa fatta anni dopo in un altro teatro.
Emma Dante è forse l’esempio più importante tra i registi d’avanguardia che si sono applicati all’opera. Tra gli altri italiani che lo hanno fatto si possono citare Pippo Delbono con Cavalleria Rusticana/Pagliacci a Roma, o il duo costituito da Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi. Negli ultimi anni è poi apparso prepotente il fenomeno della coppia formata da Stefano Ricci e Gianni Forte che, ormai forti di riconoscimenti nella prosa, approdano all’opera nel 2017 a Macerata con Turandot: nella loro lettura che potremmo definire psicanalitica, la glacialità della principessa protagonista viene esplicitata attraverso scene bianche e asettiche (firmate da Nicola Bovery), mentre la principessa cerca costantemente di bloccare tutto ciò che potrebbe portare a una sua crescita emotiva. Lo spettacolo di Macerata vale il Premio Abbiati come miglior regia a ricci/forte, i quali si cimentano poi nel Castello del duca Barbablù a Palermo, in Nabucco a Parma, produzione inaugurale del Festival Verdi 2019, così come nel 2020 firmano Marin Faliero, produzione di punta del Festival Donizetti di Bergamo. Entrambe queste due produzioni, che proiettano la vicenda in un futuro immaginario, si risolvono tuttavia spesso in una decontestualizzazione fatta più per sconvolgere il pubblico che in un vero e proprio tentativo di scavo drammaturgico, sembrando quindi il frutto di un lavoro in cui si poteva osare di più ma in cui si vede molta ordinarietà, semplicemente ambientata in un contesto moderno.
Tuttavia il più noto tra i registi sperimentali odierni è sicuramente Romeo Castellucci, nato a Cesena nel 1960, di formazione tutta italiana, ma che fa il suo debutto operistico all’estero (Parsifal a Bruxelles nel 2010). In dieci anni Castellucci arriva a essere conteso dai teatri d’opera di tutta l’Europa continentale e verrà chiamato a Madrid, Parigi, Amburgo, Monaco di Baviera, Salisburgo, Berlino, Vienna. I suoi spettacoli si basano sulle elucubrazioni filosofiche della sua Dramaturg, Piersandra Di Matteo, non sempre immediate o pienamente comprensibili, ma sulle quali Castellucci riesce a costruire un campionario di immagini teatrali talvolta banali nel loro simbolismo, ma spesso di estrema presa estetica. Sono sommi esempi di ciò Moses und Aron coprodotto dall’Opéra de Paris e Teatro Real di Madrid, o il fantasmagorico De temporum finae comoedia di Carl Orff, riesumato dopo anni al Festival di Salisburgo del 2022. Tuttavia, non tutte le estremizzazioni compiute da Castellucci su titoli di repertorio funzionano perfettamente: ne sono esempio due spettacoli pensati per la Monnaie, come Orphée et Eurydice, nel quale Castellucci usa la storia vera di una giovane ragazza in coma in un ospedale del Belgio per narrare un mito moderno in cui lo stato vegetativo diventa il vero sonno di Euridice, mentre Die Zauberflöte diventa estremamente cervellotico nelle due parti in cui è diviso, in cui vengono anche interpolati interventi di persone rimaste ustionate. Nonostante le molteplici commissioni, Castellucci risulta emarginato rispetto al panorama italiano, dove gli unici teatri a scritturarlo sono il Comunale di Bologna che aveva co-prodotto il Parsifal della Monnaie e, prossimamente, il San Carlo di Napoli con la messa in scena del Requiem di Mozart proveniente dal festival di Aix-en-Provence.
Alla fine di questa disamina, si può dire che i registi sperimentali diano qualche apporto in più rispetto a quelli di impostazione teatrale più classica. Un loro punto a favore è sapere spesso trovare in modo originale e accattivante la concordanza tra musica e immagine, ma manca spesso un lavoro approfondito sul gesto e una rilettura drammaturgica davvero convincente. Per le vere innovazioni non resta dunque che rivolgersi a chi nell’opera ci abita da sempre. (continua)
In copertina, Emma Dante