Alcuni fortunati ascoltatori ricordano la voce di Cesare Siepi per averla ammirata negli anni Ottanta del Novecento, quando il basso milanese, dopo una sfolgorante carriera americana, era tornato a esibirsi con più costanza in Italia. A Parma, nel 1982, fu ad esempio Baldassarre in una indimenticabile Favorita a fianco di Alfredo Kraus, ma ancora, nel 1983, Filippo II in un altrettanto memorabile Don Carlo allo Sferisterio di Macerata, con Montserrat Caballé, Grace Bumbry, Giuseppe Giacomini e Giorgio Zancanaro. Poi, nel 1986, sempre al Regio di Parma, Roger in Jérusalem di Verdi. La voce non aveva perso lo smalto vocale originario, solo qualche lieve smagliatura si era fatta strada in quella che possiamo considerare una delle ultime grandi voci di basso della scuola italiana. Dopo di lui, spiace dirlo, ben pochi hanno eguagliato quei suoi suoni morbidi, ampi e vellutati, attraversati da un calore e un colore di autentico basso, che gli permisero di affrontare un vasto repertorio che spaziava dall’opera barocca (fu Seneca nell’Incoronazione di Poppea di Monteverdi e anche protagonista di Giulio Cesare di Händel, prima in Italia, a Napoli, al Teatro Grande di Pompei, con Renata Tebaldi nei panni di Cleopatra, poi negli Stati Uniti, per l’American Opera Society di New York, questa volta al fianco di una giovane Leontyne Price), al Montemezzi de L’amore dei tre re (opera registrata per la RCA nel 1977, con la direzione di Nello Santi).
Per il resto la sua voce, che sembra al primo ascolto suonare come un organo, o meglio ancora, come l’arco sonoro di un violoncello dagli impasti dorati, si plasmò con naturale predisposizione nel grande repertorio dell’opera italiana, quello dell’Ottocento di Rossini (fu Don Basilio di riferimento nel Barbiere di Siviglia: in molti è infatti ancora vivo il ricordo della sua “Calunnia” subissata di applausi a Macerata nel 1980, in un ormai storico Barbiere con Marilyn Horne (vedi link), ma anche protagonista del Mosè), Bellini e Donizetti, per dare ovviamente il meglio di sé in Verdi, l’autore che diede spazialità alla sua voce imponente, ma nobile, tendenzialmente, come scrisse Rodolfo Celletti, di “basso-cantante”, ma anche, grazie ai cospicui mezzi vocali, impegnata in parti di autentico basso profondo.
Toccò il repertorio russo, perché si esibì in Chovanščina e Boris Godunov, e quello wagneriano (fu Pogner ne I maestri cantori di Norimberga e Gurnemanz nel Parsifal). Fu un memorabile Alvise ne La Gioconda e si impose naturalmente anche in Mefistofele di Boito, così come non mancano all’appello incisioni di importanti pagine da basso del grand-opéra francese (Marcello negli Ugonotti e il Cardinale Brogni nella Juive) e dell’opéra-lyrique francese, ovviamente a partire dal Faust di Gounod (inciso ed eseguito fin dalla sua prima stagione al Met). Eppure furono le figure regali, nobili e sacerdotali verdiane che lo videro maggiormente impegnato in un arco di repertorio che comprendeva opera giovanili, come Nabucco, Ernani e Attila, fino a quelle della piena maturità, come I Vespri siciliani, Simon Boccanegra, La forza del destino, Don Carlo e Aida, con punte di straordinaria qualità toccate come Silva in Ernani, Fiesco in Simon Boccanegra, Filippo II in Don Carlo e Padre Guardiano ne La forza del destino. C’è un video, molto noto, che lo ritrae quando intona l’aria di Procida, “O tu, Palermo”, da I Vespri siciliani (vedi link). Ascoltarlo oggi, in tempi in cui voci della sua levatura latitano, fa riflettere sulle qualità del suo prezioso strumento, sorvegliato da uno stile supremo, come sulla decadenza che il teatro lirico italiano ha mostrato, dopo di lui, dinanzi alla mancanza di bassi di tale calibro vocale.
Col senno di poi, potrebbe far dunque quasi sorridere leggere le riserve mossegli da Giacomo Lauri-Volpi in Voci Parallele, quando scrisse che aveva una “voce togata, un po’ sorda e aperta nella zona inferiore”, mancando, prosegue Lauri-Volpi, di quel “metallo aureo che costituiva il blocco compatto del lingotto vocale di Ezio Pinza”, del quale Siepi fu da tutti considerato l’erede. Eppure si tratta di una notazione significativa, sulla quale riflettere qualora si voglia storicizzare l’apporto del suo contributo rapportandolo alla parabola storica dei bassi italiani del Novecento, quelli che, dopo Nazzareno De Angelis e Tancredi Pasero, videro prima in Ezio Pinza e poi appunto in Cesare Siepi gli esponenti di una scuola di bassi destinata, in seguito, a veder venir meno ampie porzioni di nobiltà, austera compostezza stilistica, chiarezza di dizione e “solennità ieratica del suo atteggiamento scenico” (è sempre Lauri-Volpi ad affermarlo); qualità che in Siepi si accompagnavano all’eleganza e alla bellezza aristocratica della figura che gli permisero di essere un protagonista storico del Don Giovanni di Mozart (altrettanto significativo fu il suo Figaro ne Le nozze di Figaro), prima sulle scene del Metropolitan di New York, poi a Salisburgo (vedi link), con la direzione di Furtwängler e Mitropoulos, e alla Scala. Divenne così il Don Giovanni di riferimento degli anni Cinquanta, come testimoniano le incisioni dal vivo, quelle in studio del 1955 e 1959 e le riprese video (quella salisburghese del 1954 e quella in lingua inglese del 1960).
Alla morbida pastosità della voce si accompagnò dunque, da subito, l’avvenenza della figura, ammantata di virilità quasi togata, senza che, per questo, il suo contributo all’arte interpretativa fosse sganciato dalla natura di un canto che avvolgeva con il suo calore la melodia centrando il personaggio trovandone la verità attraverso l’anima della voce stessa. Questo perché Siepi, a differenza di bassi che cantarono nei suoi stessi anni di attività, come Boris Christoff e Nicola Rossi-Lemeni, portatori più di lui della grande lezione di Feodor Chaliapine (colui che rivoluzionò il modo concepire l’arte interpretativa operistica con un magnetismo istrionico fatto anche di arbìtri vocali, ma capace di imporsi per un forza teatrale travolgente), realizzò sulle scene, al loro opposto, interpretazioni che nascevano dalla compostezza del canto e, prima di ogni altra cosa con la voce, trovavano sostanza per dare vita ai personaggi che portava sui palcoscenici. Due modi differenti per dare rilievo drammatico alle opere affrontate, talvolta anche messi in relazione fra di loro, stabilendo ad esempio quella rivalità che mise in contrasto Siepi prima con Rossi-Lemeni e Christoff e poi col giovane Ghiaurov, considerati, soprattutto i primi due, a lui superiori, non certo per pasta vocale, ma per statura drammatica, almeno secondo i gusti del pubblico di allora.
Siepi calcò i palcoscenici di tutto il mondo, anche la Scala lo accolse in importanti parti, verdiane e non (Mefistofele, Don Giovanni, Enrico VIII in Anna Bolena con Maria Callas e, infine, nel 1979, come Fiesco in Simon Boccanegra), ma fu al Metropolitan di New York dove, dopo il trionfale debutto in un Don Carlo del 1950 che lo vide al fianco di Jussi Björling e Fedora Barbieri, rimase per un ventennio, divenendone il primo basso assoluto.
Per lui si aprirono anche le porte di Broadway. Interpretò con grande successo il musical Bravo Giovanni, nel quale rese celebre la canzone “Rome”, e poi in Carmelina, cui seguirono, parallelamente all’attività operistica al Met, altri importanti debutti nel musical e in concerti in cui si esibì in songs di Cole Porter affiancandoli alle romanze da camera di Francesco Paolo Tosti.
È lo stesso Rudolf Bing a raccontare, nel suo libro di memorie intitolato 5000 sere all’Opera, come si arrivò a far debuttare Cesare Siepi sulle scene del Met. In realtà per quel Don Carlo del 1950, che fu il primo spettacolo dell’era Bing, il direttore artistico aveva intenzione di scritturare, come Filippo II, Boris Christoff. Ma la difficoltà di garantire visti d’ingresso negli Stati Uniti a cantanti che si sospettava potessero essere collusi con passati e presenti partiti totalitari (erano tempi in cui dilagava quella sorta di caccia alle streghe scatenata dal maccartismo), costrinse Bing a piegare sul nome del basso milanese, in tal senso lontano da ogni sospetto, dal momento che, proprio perché ostile al regime fascista, si era rifugiato in Svizzera durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale per tornare in patria a conflitto concluso. Dopo questo felice debutto, Siepi si guadagnò, sulle scene del Met, lo stesso ruolo che per decenni aveva avuto Ezio Pinza e si esibì per ventitré stagioni, fino al 1973.
Ricordare oggi Siepi, a cent’anni della sua nascita (nacque a Milano il 10 febbraio 1923 e morì ad Atlanta il 5 luglio 2010), ripercorrendo le tappe di una carriera lunghissima, significa non solo ammirare un patrimonio vocale senza successivi eguali, ma anche rendere omaggio alla professionalità e alla dedizione artistica e vocale di quello che possiamo considerare uno degli ultimi autentici grandi bassi della scuola vocale di tradizione ottocentesca italiana; una scuola che traghettava la sua arte nel Novecento trovando in lui un rigore stilistico consapevole, in prima istanza, di potenzialità che partivano soprattutto del dettato vocale, esaltando la magnificenza di uno strumento che forse, come si è detto, non ha più avuto eredi in ambito italiano, sia in termini di bellezza di impasto timbrico, sia di traguardi di carriera raggiunti in un amplissimo arco temporale. Gli rendiamo, dunque, l’onore che merita.