Chiudi

Addio alla grande Renata Scotto. Aveva 89 anni

Condivisioni

Renata Scotto o del coraggio premiato. È difficile pensare che Renata Scotto non ci sia più. Si è spenta questa notte, nella sua Savona, circondata dall’affetto dei suoi familiari, vicina a quel «confin del mare» che lei non aveva mai avuto, mai percepito, mai considerato. È stata donna, cantante dalle scelte difficili, talora apparentemente impossibili, a tutta prima incomprensibili: puntualmente premiate dalla grande intelligenza – personale, prima che artistica – e da un’apertura di spirito che non l’ha mai tradita.

Allieva a Milano del baritono Emilio Ghirardini, quindi della leggendaria Mercedes Llopart, aveva cominciato come contralto, per scoprirsi presto lirico-leggero: considerava il suo debutto quello che avvenne al Teatro Chiabrera di Savona, nel dicembre 1952, quando appena diciannovenne per la prima volta vestì i panni di Violetta Valéry. Il suo primo 7 dicembre in Scala arrivò un anno più tardi, quando fu il piccolo Walter en travesti, al fianco di Renata Tebaldi, Mario Del Monaco e la bacchetta di Carlo Maria Giulini. E appena quattro anni dopo fu Lisa a Edimburgo al fianco di Maria Callas, della sua stratosferica Amina. Fu un ideale passaggio di testimone tra un’artista ormai consacrata e una giovane, giovanissima cantante.

Cominciò a piccoli passi. Un video del 1967, rigorosamente in bianco e nero, la mostra piccante Adina, già all’epoca attenta a tornire la frase accanto al Nemorino di Carlo Bergonzi, pronta a restituire quel sano gusto di provincia che, all’epoca, rendeva sapido il Donizetti rurale dell’Elisir d’amore. Nello stesso anno però è anche Lucia di Lammermoor (dal vivo e poi anche in studio, in una splendida incisione con Di Stefano), in cui brilla la sua intelligenza: non aveva forse il più bel timbro del mondo, ma la sua pazzia era un piccolo, grande capolavoro di reminiscenze e recrudescenze, improvvise violenze, impossibili fughe d’amore. C’erano dentro i Tagli di Lucio Fontana, la levigata perfezione dei contorni. Non ci fu mai Mozart, nei suoi anni giovanili, ma una Serpina d’antologia in una Serva padrona (1959) diretta da Renato Fasano che rimane un capolavoro di ironia, arguzia, finezza.

Lievita come il buon pane, la carriera di Renata Scotto. Costellata di Rigoletto e soprattutto di Bohème e di Traviata, in cui si fa strada come interprete di riferimento – ai primi anni Sessanta, quando la concorrenza era praticamente smisurata e soprattutto spietata: difficile immaginare una sortita di Mimì cesellata con tanto intimo afflato, il grande duetto con Germont in cui la forza granitica di una donna traviata lascia trapelare l’umana fragilità, tutto il dolore di una peccatrice che sa di essere redenta, benché il mondo lo neghi.

Puccini diventa il viatico di scelte sempre più complesse. Dapprima Liù, poi Cio-Cio-San, protagonista di una Madama Butterfly con cui debutta nel 1965 al Metropolitan Opera di New York e che le schiude la strada al repertorio italiano di fine Ottocento e primo Novecento, in cui lascerà, negli anni, un segno determinante. La rotondità, la maturità di uno strumento in piena espansione le suggeriscono di non abbandonare il belcanto, ma anche di affinare il repertorio: nel 1976 a Catania recupera Zaira di Vincenzo Bellini – non si ascoltava dalla prima del 1829 – e due anni più tardi il Massimo di Palermo accoglie trionfalmente la sua Straniera, a far da battistrada a una Norma (1979) certo controversa, ma che merita di essere ascoltata per un gusto del fraseggio che diventa la sua arma vincente. Appena una manciata di anni prima il suo grande, poderoso Nabucco con Riccardo Muti, in cui per la prima volta vengono incrinate le certezze di Abigaille; accanto ad Adriana Lecouvreur, un’impareggiabile Suor Angelica, perfino Francesca da Rimini nell’ultimo scorcio della sua carriera, negli Stati Uniti, quando viene consacrata prima donna al Met, in un percorso costellato di piccole perle che fanno la grandezza dell’artista: come quando incide Il segreto di Susanna con Renato Bruson e la direzione di John Pritchard, prezioso explicit in odor di malva di una discografia d’inusitata ampiezza. Perché il catalogo continua, tanto da far invidia a quello di Don Giovanni: e fu Kundry e Klytämnestra, tra Wagner e Strauss, alla scoperta delle lacerazioni dell’io.

E poi. E poi cominciano gli anni della leggenda. Quelli in cui Renata Scotto sa reinventarsi, ritrovarsi, dare per ricevere, agli artisti più giovani, al pubblico che la idolatra. Nel 1986 debutta come regista d’opera: al Metropolitan nel 1986 firma Madama Butterfly, nel 1995 per New York City Opera assicura la regia – anche televisiva – di una Traviata con cui conquista l’Emmy Award per il miglior evento televisivo dal vivo. Nel 1993 al Festival Belliniano di Catania affronta Il pirata, di fronte agli occhi, alle orecchie stupite e meravigliate di Lucia Aliberti, Marcello Giordani, Paolo Coni. E a Savona è ritornata, nel corso degli ultimi anni, grazie all’accogliente complicità di Giovanni Di Stefano, che la rende protagonista di una sorta di grande laboratorio: firma le regie di Madama Butterfly e della Bohème, di Tosca e, appena l’estate scorsa, La Voix humaine. Un mese fa, all’indomani del debutto dell’opera di Poulenc, la sua ultima apparizione pubblica, per consegnare il Premio letterario “Renata Scotto” a una bambina, giovanissima autrice di un racconto a tema musicale. Perché aveva capito che era venuto il momento di passare il testimone: nell’ottobre del 2020 aveva idealmente consegnato a Rosa Feola la sua Violetta Valéry, che il pubblico del Chiabrera accoglie con commozione ed emozione. Lo registra Alessandro Mormile, su queste colonne, «in pienezza di emozioni e sentimenti», nel mentre elogia «la felice intuizione dell’operazione, paradigmatica di come si dovrebbe far teatro d’opera oggi, in maniera sobria ma altamente qualitativa.»

Testimone di alcune sue ultime prove, chi scrive desidera ricordare solo uno dei mille esempi del suo coraggio: il sodalizio, breve ma intensissimo, con Spiros Argiris, che la volle a Parigi – nella minuscola cornice del teatrino dell’Hôtel de Gallifet – dove distillò «Dopo l’oscuro nembo», da Adelson e Salvini di Bellini, con un’intensità soggiogante; ma soprattutto al Bellini di Catania, per due debutti che nessuno avrebbe mai immaginato. Il 22 gennaio del 1994 era stata protagonista di Erwartung di Schönberg: un grido ulcerante di un dolore rappreso, inconfessabile, ancora vivo. E appena due anni prima, il 28 aprile del 1992, aveva vestito i panni della Marschallin, in un Rosenkavalier – vincitore del Premio Abbiati come miglior spettacolo dell’anno – in cui era difficile resistere al fascino di quelle piccole dita affusolate che segnavano lo scandire del tempo, che scivola via perché «anche il tempo è una creatura del Padre, che tutti noi ha creato.» Renata Scotto non ha perso un solo minuto del suo tempo, mettendolo a profitto con una forza, con una tenacia, con la tenera, capricciosa dolcezza degli ultimi anni – che ne rendono incolmabile la perdita. Semmai, ci ha ricordato, insegnato che «in dem “Wie” da liegt der ganze Unterschied»: nel “come” si affronta sta la vera differenza.

image_print
Connessi all'Opera - Tutti i diritti riservati / Sullo sfondo: National Centre for the Performing Arts, Pechino