Il 12 febbraio 1923 nasceva a Firenze Franco Zeffirelli, uno dei massimi registi e intellettuali del secolo scorso, il cui fervore creativo ha regalato al teatro alcuni importanti allestimenti anche in questi due primi decenni del nuovo millennio. In anni di riletture tanto ardite quanto profonde, il maestro fiorentino è stato spesso criticato per un certo suo gusto estetizzante, un rigore formale, una cura del dettaglio che virava talora al barocco, e che costituiscono, invece, il suo marchio, nato da una fede profonda nel teatro, da una cultura immensa e da una conoscenza tecnica di quel mondo, profonda e peculiare. Croce e delizia per molti appassionati e critici, il teatro, come il cinema di Zeffirelli, hanno nella meticolosa cura del dettaglio e nella ricerca del bello il proprio segno distintivo. Grande scenografo, quel gusto oleografico che gli è stato talora rimproverato, parrebbe piuttosto l’affermazione gioiosa e consapevole del celebrante che si appresti a rinnovare e officiare il mistero di un rito: fascino e grandeur sono elementi essenziali della sacralità, (ri)creazione di quella verità che è alla base del mistero.
Questa è forse la chiave di lettura del suo teatro – quello che nello specifico qui vorremmo ricordare, in considerazione dell’interesse di questo sito. Gli spettacoli di Zeffirelli, quelli che, come la Turandot scaligera o Otello, le “sue” Traviate, Il trovatore per l’Arena di Verona, le diverse edizioni di Aida, non ultima quella sempre per Verona del 2010, sono entrati nell’immaginario collettivo, come pure quelli che oggettivamente faticano a rientrare fra le edizioni di riferimento – citerei il Don Carlo nell’edizione della Scala con Pavarotti debuttante nel ruolo eponimo – hanno comunque sempre il grande merito di essere nati in funzione della musica e del testo. Non si possono non ricordare pertanto, La bohème – con quell’articolo nel titolo che in questo caso, riferito al celebre allestimento creato per l’edizione con Freni e Gianni Raimondi, assume significato di antonomasia – o i Pagliacci che dal teatro approdano nel 1982 nell’edizione cinematografica con Stratas, Domingo, Pons, trasposti con geniale sensibilità in pieno Novecento, carichi pertanto anche della memoria de La strada di Fellini e di un sentore, non casuale, se si presta attenzione ai versi del Prologo che apre l’opera, del cinema neorealista.
Ma torniamo brevemente alla Turandot che costituisce, a mio parere, un esempio emblematico di Zeffirelli regista: gli spazi che ricrea e moltiplica su più livelli a partire dalla piattaforma centrale da cui si dipartono a raggera quattro scale è tanto una reinterpretazione immaginifica e favolistica dello stile architettonico cinese, quanto espediente tecnico per una collocazione delle masse secondo ordini cromatici che rispecchiano non solo quanto immaginato dai librettisti, ma soprattutto quanto descritto da Puccini nella ricchezza timbrica della sua partitura. L’essenza del miglior Zeffirelli, la cui fede sincera nel teatro si evince anche dal suo rispetto della tradizione: “figlio” di Visconti, egli non rinnega quella scuola, ma la rigenera di volta in volta nelle proprie creazioni. Ha animo da filologo, in questo, come ogni sacerdote e come lo ebbe la sua musa sulle scene liriche, quella, non a caso “Divina”, Callas, per la cui arte dimostrò sempre ammirazione incondizionata e per la quale creò Tosca e Norma, oltre, naturalmente, a Traviata a Dallas nel 1958. La prima Traviata di Zeffirelli, erede di quella che la vide protagonista soli tre anni prima a Milano con la regia, appunto di Visconti.
Il rispetto del testo, musicale o letterario, e la consapevolezza del valore della storia, intesa sia come momento preciso di un’evoluzione sia come tradizione, diventano in Zeffirelli rigore formale in cui imbrigliare la sua fantasia ed entro cui costringere la propria potenza creatrice. Si pensi all’Aida del Bicentenario verdiano, quella “costretta” negli spazi ristretti del teatro di Bussetto eppure immensa con quella siepe di (poche) comparse viste di spalle oltre cui immaginare il trionfo possente, infinito, cantato da Verdi. Il tratto delle scenografie tradisce sempre, in Zeffirelli, la cognizione che, al di là di ogni preteso realismo, oltre ogni estetica del bello – o proprio in ragione di questa – ci si trovi nel regno della finzione per eccellenza, il teatro, e in ciò, credo, risiede la sua modernità, il suo legame con la nuova scuola, con quella almeno che ha nell’Autore il proprio punto fermo. Ma se quest’ultima riparte da lì per una rilettura libera e completamente nuova, Zeffirelli a quella ritorna con atto di umiltà. Libero nel rispetto, immaginifico nella concretezza della forma. In questo filologo, in questo “classico” come la sua tendenza al bello e pertanto, a suo modo, immortale.