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Un anno senza Graham Vick: luci e ombre di un regista innovatore

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Il 17 luglio di un anno fa arrivò improvvisa la notizia della inaspettata morte di Graham Vick. Già allora, anche coloro che si limitavano a stimarlo senza considerarlo un profeta, hanno avuto la consapevolezza che ci aveva lasciato un personaggio che aveva fatto la storia della regia operistica degli ultimi quarant’anni. Pochi mesi dopo andò in scena il progetto di regia destinato a diventare il suo ultimo lascito, cioè il Ballo in maschera (Gustavo III) inaugurale del Festival Verdi 2021 a Parma, lasciato incompiuto da Vick e portato a termine da Jacopo Spirei, che era stato spesso suo assistente. Non fu quello che si potrebbe definire uno spettacolo riuscito, dato che gli elementi pensati per essere di impatto si limitavano a diventare cornice del solito Ballo coi costumi d’epoca e le pose stereotipate. Non certo uno spettacolo testamento, come non lo erano state molte prove degli ultimi anni a partire da Die tote Stadt scaligera, tanto lodata, ma fondamentalmente salvata dalla magnetica presenza di Asmik Grigorian, mentre intorno il dramma si dipanava nel più classico dei modi possibili: niente a che vedere con quello che avevano realizzato nello stesso titolo Simon Stone a Basilea e Monaco, o Robert Carsen a Berlino.

Eppure a cavallo tra anni ‘80 e ‘90 Graham Vick si afferma come un vero innovatore nel panorama inglese, esplodendo nel fervido ambiente dei teatri anglosassoni di serie B (più per finanziamenti che per idee), dal festival di Wexford alla Scottish Opera fino al teatro campione dell’avanguardia registica che era la English National Opera di Peter Jonas. L’allestimento di Pikovaya Dama di Čajkovskij nel 1992 a Glyndebourne spalanca a Vick le porte dell’incarico come direttore degli allestimenti del prestigioso Festival del Sussex. In collaborazione con lo scenografo Richard Hudson, il regista realizza a Glyndebourne alcuni capolavori del teatro di quegli anni, dalla già menzionata Pikovaya Dama in cui tutto sembra essere risucchiato nel buco nero in fondo al palco, al limpido Evgenij Onegin che inaugura il nuovo teatro nel 1994; e poi l’Ermione ambientata nella Restaurazione con una formidabile Anna Caterina Antonacci nel ruolo protagonista, e una Manon Lescaut spoglia, interamente basata su una cura maniacale della recitazione raramente riscontrabile in altri allestimenti d’opera. Basterebbero questi spettacoli per considerare Vick uno dei migliori registi della sua generazione.

Nel frattempo, gli vengono affidate produzioni in tutta Europa, e persino il Met nel 1995 lo chiama per un nuovo allestimento della Lady Macbeth dal distretto di Mzensk che fa urlare ai critici americani “Riesce a fare recitare persino il coro, fatto eclatante per questo teatro”. I teatri italiani si dimostrano interessati fin da subito alle regie di Vick, come dimostrano i primi allestimenti a Venezia negli anni ‘80, la Mahagonny “felliniana” di Firenze del 1990, L’incoronazione di Poppea di Bologna del 1993 fino ad approcciare anche il Belcanto con I puritani alla Fenice e Lucia di Lammermoor di nuovo al Maggio Musicale Fiorentino. Tutte esperienze che portano il regista a essere anche chiamato per una inaugurazione di stagione alla Scala: rianalizzandolo oggi, il Macbeth del 7 dicembre 1997 risulta però tanto moderno nell’apparenza, con l’enorme cubo che domina la scena, quanto povero nel contenuto teatrale, vista la sostanziale staticità degli interpreti, in una direzione attoriale che sembra essere quasi un passo indietro rispetto all’allestimento di Strehler di venti anni prima. Il Macbeth cosiddetto “del cubo” verrà comunque ripreso varie volte, evidentemente appagando anche Riccardo Muti che richiamerà Vick per l’inaugurazione scaligera del 2001 (Otello) e per una sua apparizione salisburghese, Zauberflöte nel 2005, talmente sfortunata che quando l’anno successivo sarà riprogrammato lo stesso titolo con lo stesso direttore per il giubileo mozartiano, la direzione artistica del festival preferirà chiamare Pierre Audi per un allestimento totalmente nuovo.

Questi episodi dimostrano quanto Vick avesse bisogno dell’ambiente giusto per realizzare spettacoli vincenti e di come, tutto sommato, il suo teatro non sapesse rimanere al passo coi tempi a livello internazionale. Le grandi produzioni infatti si diradano, anche se i grandi teatri continuano a riprogrammare i suoi vecchi spettacoli, e solo l’Italia continua ad avvertirlo come un innovatore rispetto al panorama nazionale. Arrivano così allestimenti come il tanto discusso Mosè in Egitto a Pesaro, il Macbeth fiorentino in versione originale, che su vari fronti finisce per essere una rimasticatura di quello scaligero, lo scarnificato Ring di Palermo, o la Traviata “pop” all’Arena di Verona.

In sostanza molte delle ultime produzioni di Vick si rivelano la solita montagna che partorisce il topolino, occasioni mancate nel loro riadattamento di vecchie idee, quando non si perdono in avvitamenti drammaturgici cerebrali che finiscono per avere minor presa teatrale di quello che ci si aspetterebbe. Eppure, anche in questo contesto, emerge talvolta la grande zampata dell’uomo di teatro, come accade a inizio 2018 in una Bohème bolognese, mai così cruda nel suo rappresentare la giovinezza con semplice realismo, in cui l’immagine finale dei ragazzi che davanti alla morte fuggono con orrore rimane vividamente impressa nella memoria dello spettatore.
Grazie a spettacoli come questo, continuerà a mancarci il Graham Vick uomo di idee e di cultura, che con le sue produzioni ha sempre portato gli spettatori più attenti a porsi domande. In fondo, è questo il grande apporto degli uomini di teatro, anche quando non convincono fino in fondo.

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