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La regia d’opera in Italia – L’elefante nella stanza, ovvero il Dramaturg

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Uno spettro si aggira nelle locandine dei teatri d’opera europei, solitamente in fondo, dopo gli scenografi, i lighting designers, i coreografi e gli autori dei video. Si tratta del Dramaturg o Drammaturgo, se si vuole usare il termine italianizzato; una figura poco nota, con un compito non facile da spiegare anche per i melomani più interessati agli aspetti registici di uno spettacolo, ma di cui è utile e interessante tracciarne la storia e le tipologie. Per fare ciò si deve però uscire dai recinti italiani e valicare le Alpi, approdando in Germania.

La storia odierna del Dramaturg inizia infatti all’Opera di Francoforte, allora Germania Ovest, dove nel 1977 viene nominato Generalmusikdirektor (cioè direttore musicale) Michael Gielen, che aveva già ricoperto tale ruolo anche a Stoccolma un decennio prima. Classe 1927, Gielen non è un direttore d’orchestra qualunque: durante i suoi anni svedesi aveva collaborato a spettacoli radicali come The Rake’s Progress con la regia di Ingmar Bergman, mentre nei suoi dieci anni da freelance aveva tenuto a battesimo opere come Die Soldaten di Bernd Alois Zimmermann a Colonia e Ein Traumspiel di Aribert Reimann a Kiel; si tratta quindi di una figura estremamente aperta alle novità sia musicali che registiche, che non ha paura di osare su alcun fronte e che si trova al posto giusto nel momento giusto. Tra i suoi primi atti all’arrivo a Francoforte, si occupa di nominare un Dramaturg principale del teatro, Klaus Zehelein: nato proprio nella grande città sul Meno, questi aveva studiato filosofia, letteratura e musica con Adorno nell’ambito della Scuola di Darmstadt, prima di diventare Dramaturg nei teatri di Kiel e Oldenburg, piazze comunque minori rispetto all’istituzione francofortese, che aveva inaugurato un nuovo e avveniristico teatro solo quindici anni prima.

Cosa fa di preciso il Dramaturg? In pratica cura l’aspetto intellettuale della messa in scena, studiando in modo approfondito l’opera in questione e il suo contesto. Fino a quel momento il Dramaturg di un teatro tedesco si concentrava principalmente sulle note del programma di sala. Con Zehelein e Gielen cambia tutto. Nei dieci anni della sovrintendenza Gielen vengono varate 49 nuove produzioni, a cui Zehelein collabora nominalmente come Dramaturg, ma di cui è quasi sempre co-regista. Il programma sottinteso dell’era Gielen è quello di trattare tutta la musica come se fosse contemporanea: il punto non è fare “come voleva il compositore” ma “come avrebbe voluto il compositore oggi”. Per Gielen l’aspetto teatrale non è secondario e l’unico modo per dare nuova spinta al repertorio è attuare una “decostruzione” drammaturgica, come quella realizzata da Chéreau nel Ring di Bayreuth, e qui portata a sistema. Ciò vuol dire da una parte attuare una “defamiliarizzazione” dei titoli noti, come accade con la famosa Aida messa in scena da Hans Neuenfels nel gennaio 1981 (Zehelein era il Dramaturg) in cui il Trionfo viene ambientato in una sorta di Teatro alla Scala dove gli Egizi, o in questo caso gli Occidentali, obbligano gli Etiopi a mangiare con coltello e forchetta dopo aver marciato come in un qualsiasi regime europeo di inizio secolo. Allo stesso tempo, opere più rare e complesse dal punto di vista drammaturgico, come il Doktor Faust di Busoni (sempre a opera del team Neuenfels-Zehelein), subiscono un trattamento volto a renderle drammaturgicamente più coerenti: un titolo del genere viene infatti affrontato come una sorta di viaggio à la Candide, che mostra la conoscenza pericolosa dell’età moderna.

Zehelein, come ogni Dramaturg, suggerisce il modo di affrontare l’opera, fornendo il nuovo piano drammaturgico che il regista deve poi tradurre in immagini con la sua inventiva e tecnica specifica, anche insieme agli altri artefici dello spettacolo (scenografo, costumista, ideatore delle luci, etc.). Dramaturg e regista, non lavorano ognuno per conto proprio, ma ovviamente collaborano insieme fin dalle prime fasi di ideazione di uno spettacolo. Zehelein incarna il classico Dramaturg fisso di un teatro, pratica che in molti teatri di area tedesca ancora sopravvive. Esempi di tal genere possono essere Simon Berger alla Komische Oper di Berlino e Christian Arseni al Festival di Salisburgo: entrambi lavorano con nomi del calibro di Barrie Kosky, Damiano Michieletto, Harry Kupfer, Andreas Kriegenburg e tanti altri, fornendo ogni volta il loro apporto intellettuale, che ogni regista poi attua a suo modo.

Fuori dall’ambiente tedesco, tuttavia, è prassi comune avere un Dramaturg fisso nel team di produzione associato a un regista. Il caso più noto al giorno d’oggi è probabilmente quello di Ian Burton, collaboratore di fiducia di Robert Carsen fin dal 1987: i due hanno infatti firmato insieme spettacoli storici come Alcina, Les Contes d’Hoffmann, Capriccio dell’Opéra di Parigi, ma anche il Don Giovanni della Scala che ha inaugurato la stagione 2011/2012, senza contare le nuove opere tenute da loro a battesimo di cui spesso Burton è lo stesso librettista (ultimo caso: Julius Ceasar di Giorgio Battistelli a Roma). Allo stesso modo, Krzysztof Warlikowski lavora quasi sempre con Christian Longchamp, mentre ultimamente Romeo Castellucci si avvale del pensiero di Piersandra Di Matteo. Sono figure che nascono e si sviluppano in contesti totalmente diversi. Burton è un uomo di teatro, autore di testi e regista anche autonomo: sia lui che Carsen puntano quindi a costruire spettacoli che, per quanto intellettualmente complessi nella loro ormai topica ricerca sul confine tra realtà e finzione, hanno una grandissima forza teatrale, percepibile anche senza una diretta comprensione del substrato intellettuale.

La figura di Christian Longchamp, invece, risulta più complessa: di formazione storico-filosofica, è stato una sorta di Dramaturg in-house dell’Opéra de Paris, dove ha collaborato, oltre ai vari spettacoli di Warlikowski, anche con Alvis Hermanis e con lo stesso Castellucci. Il caso di Longchamp è quasi paradigmatico nel mostrare quanto un regista sia fondamentale nell’attuazione della messa in scena. Laddove Warlikowski si dimostra comunque ferrato nel maneggiare il materiale drammaturgico musicale delle varie opere che mette in scena, nonché abile nella gestione degli interpreti, Castellucci lavora molto più sulle immagini (intriganti come poche quelle del suo Moses und Aron), mentre Hermanis o si salva per il rotto della cuffia (Jenůfa a Bruxelles, dove dimostra una notevole gestione attoriale nel secondo atto) o si dimostra incapace di esplicare al meglio la nuova drammaturgia (La damnation de Faust di Parigi).
Ci sono comunque anche registi che cambiano spesso Dramaturg, a seconda dei teatri in cui operano e degli spettacoli che devono costruire. Un caso da questo punto di vista è Claus Guth che lavora speso con Ronny Dietrich (esempi lampanti della loro collaborazione sono il Lohengrin della Scala o la mitica trilogia dapontiana di Salisburgo), ma non di rado lo troviamo in tandem con altri Dramaturg, come Yvonne Gebauer, o con quelli degli specifici teatri, senza che ciò vada a minare il suo riconoscibile stile.

In conclusione, si può dire che il regista mantiene la sua estetica, il suo rapporto coi personaggi, il suo modo per far marciare il palcoscenico a prescindere dal Dramaturg con cui opera. Quest’ultima figura può essere ritenuta non indispensabile, ma può risultare la fondamentale base intellettuale per costruire uno spettacolo coerente. Come è evidente, non sempre ciò accade, proprio perché la tecnica del regista rimane la base indispensabile da cui partire: senza quella, si potrà avere anche la più bella scrittura drammaturgica del mondo ma lo spettacolo difficilmente starà in piedi. Al contrario, i bravi registi dimostrano di esserlo anche senza un Dramaturg, come dimostrano molti registi inglesi da Richard Jones a David McVicar.
Rimane comunque curioso notare come i registi italiani non si avvalgano del Dramaturg a meno che non siano costretti a lavorarci all’estero. Emblematico il caso di Damiano Michieletto: egli collabora con i già menzionati Arseni e Berger a Salisburgo e Berlino, ma non ha un Dramaturg nel suo team, né tanto meno ne chiama uno quando si trova a operare in Italia, un po’ come fanno anche molti registi inglesi, i quali però si concentrano spesso sul lavoro attoriale vero e proprio più che sulla cornice intellettuale. Rimane da chiedersi che cosa si è fatto in Italia mentre all’estero questa figura prendeva campo, diventando parte integrante e talvolta essenziale nella produzione di un’opera. Ma questo è materiale da sviluppare un’altra volta. (continua)

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