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La regia d’opera in Italia – L’apertura internazionale degli anni ‘90: Vick, de Ana, Krief

Dopo l’ascesa di Luca Ronconi come astro della regia operistica italiana, nell’ultimo quindicennio del secolo scorso si assiste a una doppia tendenza nei teatri del nostro Paese: da una parte avviene la glorificazione di registi ormai entrati nel sistema come Ronconi, Pizzi e Zeffirelli, dall’altro si tenta una maggiore apertura internazionale. Non che prima non si chiamassero registi dall’estero per realizzare nuove produzioni in Italia (basti pensare che a Firenze tutti si ricordano ancora del Rigoletto di Jurij Ljubimov del 1984 e della Tosca di Jonathan Miller di due anni dopo), ma la tendenza diventa alquanto marcata con lo scadere del secolo. Ciò è dovuto da una parte alla volontà di rimanere al passo con quello che avviene all’estero, ma allo stesso tempo salta all’occhio anche la mancanza di personalità di spicco nel panorama nazionale.

Per un periodo il nome italiano di grido sembra essere Pier’Alli, un fiorentino, classe 1948, distintosi nel teatro sperimentale degli anni ‘70. Approda alla regia lirica con le opere di Wagner, di cui allestisce anche una Tetralogia al Comunale di Bologna tra 1987 e 1992, resa famosa dal massiccio uso di proiezioni che diventeranno la sua cifra stilistica per i decenni a venire: il suo universo simbolico non è sempre immediato, ma col passare degli anni diventa smaccatamente polveroso e datato nell’apparenza. Allo stesso tempo Liliana Cavani, dopo un Cardillac fiorentino, viene chiamata alla Scala da Riccardo Muti per allestire la famosa Traviata del 1990 (la prima in quel teatro dopo uno iato di 26 anni), la quale spalanca le porte per La Vestale del 7 dicembre 1993. Il suo stile assai tradizionale e ben poco innovatore sia nel linguaggio che nella direzione attoriale (un punto in comune con Pier’Alli) non lascia particolarmente il segno, come invece fanno alcuni giovani stranieri che, chiamati in Italia al momento giusto, diventano i beniamini delle direzioni artistiche.

Graham Vick approda giovanissimo al Festival di Batignano, in Maremma, guidato da Adam Pollock, mentre alla Fenice di Venezia negli anni ‘80 allestisce la mozartiana Zaide (1982) e Oberon di Weber (1986). Sono gli anni in cui il regista inglese ha un grande successo in area anglosassone con I gioielli della Madonna a Wexford e con varie produzioni nella English National Opera diretta da Peter Jonas, la vera fucina registica di quegli anni. Tuttavia il vero riconoscimento italiano avviene a Firenze nel 1990 con Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny di Kurt Weill, allestita al Teatro Verdi in una scena che voleva evocare una Cinecittà felliniana. Così inizia a essere chiamato in Italia con una certa regolarità mentre in Inghilterra diventa il direttore degli allestimenti a Glyndebourne dove realizza alcuni dei suoi capolavori. I suoi spettacoli si vedono a Pesaro (L’inganno felice, 1994, e Moïse et Pharaon, 1997), Venezia (Puritani, 1995) e Firenze (Lucia di Lammermoor, 1996), fino alla consacrazione nel 1997 quando firma la produzione di Macbeth che inaugura la stagione scaligera. Soprannominato il “Macbeth del cubo” a causa della scenografia firmata da Maria Björnson, composta da un enorme cubo girevole, questo allestimento viene tutt’oggi salutato dalla critica come all’avanguardia rispetto alla sua epoca, ma tale sensazione doveva darla principalmente proprio per l’impatto visivo della scena: rivisto e analizzato nella sua vera componente registica, questo Macbeth presenta una recitazione convenzionale e nessuna particolare rilettura dei personaggi. Il confronto con un altro spettacolo di Vick realizzato nello stesso periodo ma in altra sede, come può essere la Manon Lescaut di Glyndebourne, mostra cosa sapeva davvero fare un regista come lui in ambienti più stimolanti. La Scala degli anni ‘90 è infatti sotto la direzione musicale di Riccardo Muti, il quale, soprattutto nei suoi spettacoli, non ammette grandi sperimentazioni registiche e questo può già in parte spiegare l’anomalia di quel Macbeth rispetto ad altre regie coeve dello stesso regista. Questo non impedisce comunque a Vick di venire considerato in Italia uno dei migliori sul campo, anche quando la resa dei suoi spettacoli sarà palesemente altalenante, con alcuni evidenti successi (non ultima La bohème di Bologna del 2018) e tanti altri non pienamente riusciti.

Nello stesso periodo, inizia ad avere successo l’argentino Hugo de Ana, che approda in Italia all’inizio degli anni ‘90 con produzioni di opere rossiniane a Bologna e Pesaro, i cui successi spalancano la strada a un successo che nel nostro Paese dura ancora oggi. Le produzioni di de Ana sono concepite a colpire soprattutto l’occhio con scenografie di impatto, spesso ideate da lui stesso, illuminate da luci innaturali che acutizzano il senso di precarietà e inquietudine dato dagli elementi simbolici di cui è disseminato il palcoscenico, oltre a evidenziare i ricchissimi costumi. Questa grande forza visiva è però spesso anche il limite delle regie di de Ana, dato che gli interpreti sono guidati nella recitazione senza grande inventiva. Tuttavia il regista dimostra negli anni di saper tenere le redini anche di spazi ampi e da sempre problematici per molti altri suoi colleghi come l’Arena di Verona (a partire dal Nabucco del 2000 fino alla Carmen del 2018, de Ana firma cinque produzioni) o lo Sferisterio di Macerata (Turandot, 1996): nei suoi spettacoli più riusciti la scenografia si accompagna a un tentativo di lavoro drammaturgico, che tenta di dire qualcosa di nuovo, come la Tosca areniana che viene vista come una sorta di Via Crucis della protagonista.

Gli spazi all’aperto sono sempre stati infatti luoghi affascinanti ma rischiosi per i registi, anche a causa di un pubblico non sempre ben disposto a vedere cose che esulano dalla tradizione. Ne è un esempio il tentativo maceratese della Bohème del 1984 con la regia di Ken Russell, in cui ogni quadro rappresenta un momento diverso della storia parigina, sempre visto attraverso gli occhi della gioventù dei bassifondi, tanto che alla fine Mimì muore in crisi di astinenza da eroina. La forte reazione del pubblico e di una parte della classe politica, convincono i direttori artistici per anni a non osare più in questa direzione, il tutto mentre all’estero esistono esempi come quello di Bregenz, al cui festival estivo vengono chiamati tutti i grandi registi di grido ad allestire spettacoli memorabili sulle rive del Lago di Costanza.

Accade comunque che ogni tanto vi siano tentativi meno convenzionali, come accade quando nel 2007 viene chiamato Denis Krief a realizzare un nuovo allestimento di Nabucco in Arena. Se quello di De Ana del 2000 aveva il fascino del bassorilievo assiro che prende vita, questo Nabucco è quasi contemporaneo nelle sue enormi scene stilizzate che rimandano alle biblioteche del sapere ebraico. Anche Krief ha una vera ascesa negli anni ‘90, non solo in Italia, ma anche in Germania, dove il teatro di Karlsruhe lo chiama ad allestire una Tetralogia wagneriana. I suoi spettacoli non possono definirsi tutti pienamente riusciti, ma quando lo sono dimostrano scioltezza della direzione attoriale e concentrazione sul dramma; pur senza aprire grandi spaccati di novità, si nota comunque una discreta cura nella direzione attoriale, come è ad esempio visibile nella Luisa Miller di Parma (2007) e nella più tarda Rondine fiorentina (2017).

Questi tentativi di importazione di talenti dall’estero si traducono in una situazione alquanto peculiare. I decenni a cavallo del nuovo millennio vedono infatti l’Italia perdere quel ruolo di voce autorevole nel panorama registico internazionale che aveva avuto fino a quel momento, ma contemporaneamente i palcoscenici della penisola rimangono indietro rispetto alle nuove conquiste in questo campo. Qualche piazza come Firenze e Torino tenta di mantenere un appiglio col resto d’Europa, importando o coproducendo spettacoli di registi in ascesa come Robert Carsen e Willy Decker, ma questi non attecchiscono come ci si aspetterebbe. Il pubblico rimane così ancorato più che all’estero a una concezione di ritorno delle convenzioni che verrà scosso solo dal divisivo arrivo sulle scene di Damiano Michieletto. (continua)