Il 1968 provoca un forte sconquasso nel mondo dell’opera. La ribellione che i giovani operano nei confronti dei genitori passa anche da questo genere artistico di intrattenimento che inizia a essere visto come “roba da vecchi”, magari anche noiosa: si interrompe insomma l’autogenerazione di pubblico che fino a quel momento si dava quasi per scontata. Questa forte crisi porterà in ambito internazionale a varie soluzioni sia a livello di repertorio che di modalità esecutive: la riscoperta del repertorio barocco, da Monteverdi a Händel, è la grande novità, ma insieme si allarga lo sguardo su alcuni compositori novecenteschi come Janáček e Britten, ci si interessa sempre più del Rossini serio, mentre la regia d’opera comincia a prendere strade quasi inaspettate. Tutti questi processi ci mettono tuttavia almeno un decennio abbondante per dare i primi veri frutti, mentre i grandi teatri continuano a bearsi nei soliti titoli con i soliti nomi pompati dalle major discografiche, all’epoca veramente potenti.
Dal punto di vista registico, in Italia ci sono due grandi e interessanti figure ad affrontare questa crisi: il triestino Giorgio Strehler e il romano Giorgio De Lullo. Entrambi nati nel 1921, ed entrambi sulle scene dall’immediato dopoguerra, sono i due che più di tutti lasciano un segno nel panorama nazionale.
Giorgio Strehler aveva debuttato alla Scala già nel 1947, con La traviata di Verdi e L’amore delle tre melarance di Prokof’ev (in italiano ovviamente), e non aveva mai smesso di collaborare con il teatro milanese tanto che nel 1955 firma l’allestimento del Matrimonio segreto che inaugura la Piccola Scala. Tuttavia è a partire dal 1966 con la Cavalleria rusticana diretta da Karajan che Strehler mostra la cifra stilistica per cui ancora viene ricordato: toglie tutti gli elementi incrostati della tradizione e mette a nudo la tragedia e la solitudine dei personaggi di quest’opera, in uno spazio sgombero dal bozzettismo e assolato come solo la Sicilia sa essere. A ciò fanno seguito alcune produzioni storiche: il Simon Boccanegra che inaugura la stagione 1971/72, Die Entfuhrung aus dem Serail del 1972 e il Macbeth del 1975. Quest’ultimo titolo, in particolare, può essere tranquillamente considerato il suo lavoro migliore: Strehler lavora per sottrazione, ambientando tutto in un ambiente claustrofobico, chiuso tra pareti di rame (le scene di Luciano Damiani sono ancora oggi da ammirare), concentrando tutta la sua attenzione sulla coppia protagonista e il suo desiderio di ambizione e di potere, mentre le streghe diventano una massa informe, connotati quasi della natura caotica pronta a divorare l’uomo. Il lavoro con Piero Cappuccili e Shirley Verrett è certosino e dettagliatissimo, condotto sempre in stretta sinergia con Claudio Abbado. Strehler, come già Visconti infatti, vuole lavorare a stretto contatto con il direttore d’orchestra, cosa che fa sia con Abbado che con Muti, e proprio con questa figura vuole scegliere gli interpreti che meglio si adatteranno alle esigenze di entrambi: notevoli a tal proposito le sue preoccupazioni per la produzione scaligera di Don Giovanni, il cui cast gli risulta poco familiare dal punto di vista umano.
Gli spettacoli di Strehler verranno poi mitizzati e riproposti per decenni, soprattutto alcuni come Le nozze di Figaro, nate a Parigi con Georg Solti e poi approdate a Milano nel 1981: qui lo spazio si allarga sempre di più, investito dalla luce dorata, mentre i personaggi si stagliano nella loro umanità. Tuttavia, riguardando i video delle produzioni immortalate (non poche), si nota come Strehler sia fondamentalmente un regista di prosa che non sempre sa gestire i numeri musicali che si trova di fronte: basti vedere l’ingenuità con cui è risolto il duetto d’amore tra Amelia e Adorno nel Boccanegra, mediante le solite pose operistiche, o alcune fissità in momenti delle Nozze e Falstaff, opere estremamente dinamiche per natura. A Strehler manca l’abilità di portare a compimento la vera compenetrazione tra musica e azione, un lavoro che alcuni registi del periodo sanno comunque fare. Un esempio su tutti può essere quello di Jean-Pierre Ponnelle che all’epoca lavora spesso in Italia creando gli storici spettacoli rossiniani con Abbado a Firenze e alla Scala, poi visti in tutto il mondo. Ponnelle, nato come scenografo in Germania, dove attua una riscoperta del Mozart serio quasi dimenticato a quelle date, trasforma Cenerentola, Italiana e Barbiere in quei meccanismi a orologeria visivi che conosciamo, con la differenza che oggi sono la norma mentre all’epoca erano rivoluzione.
L’altro grande protagonista menzionato è Giorgio De Lullo. Nato come attore di prosa, recita sotto Visconti e anche sotto Strehler, diventa poi regista, approdando all’opera negli anni ‘60. Come Visconti, debutta alla Scala in un 7 dicembre: è il 1962 e si inaugura con Trovatore dalle scenografie irrealmente fiabesche ma dove, a detta di chi c’era, gli interpreti recitavano come in una produzione di prosa. De Lullo infatti non fa mai differenze tra i due mondi, per lui è tutto teatro allo stesso modo. Si troverà ad inaugurare la stagione scaligera altre tre volte: una fortunata Lucia di Lammermoor con Abbado e Renata Scotto nel 1967, Ernani diretto da Antonino Votto con Plácido Domingo e Raina Kabaivanska nel 1969 e i Vespri Siciliani nuovamente con la Scotto nel 1970. Nel mentre si fa forte anche il sodalizio con Leyla Gencer con cui collabora nell’Alceste scaligera e nella Maria Stuarda fiorentina. Tuttavia è la sua Aida del 1972 (ancora Abbado sul podio) a essere un vero punto di svolta: gli orpelli da Museo Egizio alla Zeffirelli lasciano il posto a pochi elementi caratterizzanti e a una grande luce, mentre i giochi delle masse e dei singoli fanno il vero teatro. Per i suoi spettacoli (di cui purtroppo rimangono a testimonianza solo le foto e i pochi resoconti scritti) De Lullo collabora con un giovane scenografo che sarà nel bene e nel male una colonna portante del teatro italiano: Pier Luigi Pizzi (del quale ci occuperemo, insieme con Ronconi, nella prossima puntata) fa la sua gavetta accanto a un personaggio di tale statura per poi approdare anche lui alla regia operistica sulla fine degli anni ‘70.
Se da una costola di De Lullo nasce Pizzi, ben più interessante è guardare cosa nasce da quella di Strehler. Se l’operato in ambito operistico di quest’ultimo, più che una rivoluzione può essere considerata una rinfrescata condotta in una cornice di conservatorismo, risulta tuttavia un terreno fertile per fare gavetta e imparare la tecnica registica. Così quando nel 1976 a Bayreuth si allestisce il Ring del centenario, dopo i vari rifiuti e abbandoni di Peter Brook e Peter Stein, si affida la regia a un certo Patrice Chéreau: quasi sconosciuto, con sole due esperienze da regista d’opera alle spalle (Italiana in Algeri a Spoleto e Les contes d’Hoffmann all’Opéra di Parigi nel 1975), Chéreau si era fatto le ossa al Piccolo Teatro e applica gli insegnamenti di Strehler e una buona dose di genialità all’opera wagneriana. Il risultato è esplosivo: uno degli spettacoli più rivoluzionari del Novecento, prima contestato e poi mitizzato, crea un netto spartiacque nell’approccio registico e segna la vera fine della crisi dell’opera come genere. Chéreau svincola il Ring dal passato mitico, calandolo nella storia, ma riesce a renderlo credibile grazie alla naturalezza del gesto e al risalto dato alla fisicità degli interpreti ereditati dal regista triestino.
In Europa le sperimentazioni iniziano a fioccare, ma in Italia quasi non ci si accorge di questo, e le cose continueranno per un po’ nell’illusione di vivere la modernità, mentre il declino della scuola registica italiana è solo all’inizio. (continua)