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La regia d’opera in Italia – Davide Livermore: tradizione rivestita ed eclettismo

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L’ascesa di Damiano Michieletto degli anni 2000, già vista e analizzata nella precedete puntata, non è quella di un astro solitario perché nello stesso periodo inizia a cimentarsi nella regia d’opera un altro personaggio che arriverà a gareggiare col veneziano nel panorama nazionale degli anni seguenti. Stavolta bisogna partire da Torino, che a cavallo del nuovo millennio non ha ancora attraversato le varie riqualificazioni olimpiche, ma è comunque un luogo culturalmente vivace tra la presenza di Ronconi e un Teatro Regio che, grazie anche a direttori artistici di cultura e lungimiranza, tenta di portare le ultime novità internazionali.

In questo strano calderone nasce l’astro di Davide Livermore, un prodotto ibrido rispetto alle tipologie che abbiamo visto in precedenza, dato che si fa ben conoscere negli ambienti della prosa, soprattutto quelli sperimentali, ma allo stesso tempo è anche un tenore comprimario del Teatro Regio. Grazie a questa doppia frequentazione, Carlo Majer, direttore artistico del Regio dal 1991 al 1998, lo nota e lo porta a realizzare vari spettacoli per avvicinare il pubblico più giovane all’opera. Tuttavia è solo nel 2004 che Livermore approda a una vera grande regia sul palco del Regio: in mezzo ai tagli del FUS, Marco Tutino, direttore artistico di quegli anni, decide di mettere in scena Billy Budd di Benjamin Britten in prima torinese, affidando a Livermore la regia. Scaturisce così uno spettacolo essenziale che sfrutta la macchina scenica del palco per rappresentare i ponti della nave, in una analogia tra il mondo teatrale e quello nautico visivamente di impatto, tanto da farlo sembrare quasi un modello della regia dello stesso titolo realizzata da Deborah Warner 15 anni dopo in una coproduzione tra Madrid, Roma e Londra. Livermore esordisce quindi con uno spettacolo degno di nota, e quel Billy Budd verrà ripreso nel 2015 al Carlo Felice di Genova. Proprio nel capoluogo ligure Livermore trova un luogo di elezione e, già nel 2005, debutta al Carlo Felice. Il suo Don Giovanni viene allestito per le celebrazioni del giubileo mozartiano e inaugura una stretta collaborazione tra teatro e regista che perdura ancora oggi (senza contare che Livermore diventerà poi direttore del Teatro Stabile di Genova, giusto per marcare il suo dividersi tra opera e prosa).

Negli anni seguenti non mancano altre occasioni per farsi notare tra Venezia, Napoli e Bologna, ma il vero boom del regista avviene nel 2011 in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, quando Torino ritorna a essere una sorta di capitale dei festeggiamenti. Per l’occasione il Teatro Regio decide di mettere in scena I vespri siciliani e ne affida la regia a Livermore. L’allestimento, ripreso anche dalla Rai per una diretta televisiva in occasione della visita dell’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, viene acclamato dalla critica come un approccio nuovo, interessante e intelligente, a una delle opere più problematiche di Verdi. Al contrario di opere di stampo risorgimentale, come La battaglia di Legnano, nel libretto che Scribe appronta per Les Vepres Siciliennes (purtroppo a Torino presentati in italiano come da prassi) non vi è una vera e propria distinzione tra i buoni e i cattivi, che invece si confondono continuamente secondo una visione della vita umana relativista. Livermore sembra abbracciare questo aspetto nonostante l’occasione celebrativa, ambientando l’opera durante il crollo della Prima Repubblica, con molti riferimenti ai fatti di cronaca del periodo, in particolare quelli relativi alla lotta alla mafia. Inutile dire che molte scene sono visivamente accattivanti, a partire dal funerale del primo atto dove Elena denuncia le mancanze dello Stato in una diretta tv che viene poi interrotta mentre i siciliani sbandierano le prime pagine di denuncia dei quotidiani. Manca tuttavia una coerenza di linguaggio per unire i vari quadri che alla fine risultano solo dei tableaux vivants usati per creare un affresco poco approfondito: ne è un esempio il secondo atto in cui Procida canta la sua aria mentre dal fondo del palco emergono le macchine distrutte della strage di Capaci; tra queste si muovono poi anche gli altri personaggi, ma occupano lo spazio come se quella scenografia non esistesse o potesse essere un’altra intercambiabile. Il risultato è uno spettacolo con tante idee ma che manca di coerenza a livello tecnico, in una commistione di realismo e simbolismo che dà sempre una sensazione di teatralmente irrisolto.

Tuttavia questo non impedisce a Livermore di guadagnarsi le commissioni italiane più disparate e così, dopo il Demetrio e Polibio del 2010, nel 2012 torna al Rossini Opera Festival con Ciro in Babilonia, una produzione totalmente ispirata nell’estetica ai primissimi prodotti cinematografici, con citazioni evidenti da Cabiria. Da questo momento in poi il citazionismo filmico diventa una costante delle produzioni di Livermore, come dimostra pochi anni dopo, sempre a Pesaro, un suggestivo Turco in Italia (2016) interamente ispirato ai film di Federico Fellini. A tal proposito, non è un caso che la Tosca allestita a Genova nel 2016 sia stata appellata dalla stampa come “cinematografica” per via delle continue citazioni da Wim Wenders a Alfred Hitchcock che la costellano, fatto comunque che può funzionare in un’opera che è sempre stata vista come una perfetta antesignana del grande cinema.

Ma è proprio in questo periodo che Livermore conquista i palcoscenici più importanti d’Italia, dopo una lunga collaborazione con il Carlo Felice e le varie cariche a Valencia. Quindi, dopo un grottesco ma sostanzialmente efficace Barbiere di Siviglia a Roma nel 2016, che molto fece discutere, nel settembre 2017 Livermore approda alla Scala per una nuova produzione di Tamerlano di Händel con protagonista Plácido Domingo. Livermore e il suo team composto da Giò Forma (scene), Mariana Fracasso (costumi), Antonio Castro (luci) e D-Wok (video) concepiscono uno spettacolo kolossal che trasporta le vicende nel pieno della rivoluzione russa, tra treni che attraversano il palco e fastosi vestiti di inizio secolo, in un turbinio di immagini degno di una serie televisiva. Non c’è dubbio che si tratti di uno degli spettacoli più riusciti del regista torinese, che qui può sbizzarrirsi nelle trovate più disparate, a patto che non si prenda questa messa in scena come uno spaccato realistico della Russia del 1917: lo spostamento temporale serve dunque a suggerire una situazione e una atmosfera piuttosto che essere la linfa vitale da cui scaturisce una nuova drammaturgia, cosa che accade anche nella Elisabetta, regina d’Inghilterra di Pesaro di pochi anni successiva.

Grazie al successo di Tamerlano, la Scala ingaggia Livermore per ben quattro inaugurazioni di stagione consecutive, impresa unica nel suo genere: Attila (2018), Tosca (2019), il gala A riveder le stelle (2020) e Macbeth (2021). Sono spettacoli mastodontici, ben collaudati, ma che soprattutto funzionano bene per le dirette della Rai: sono infatti regie che sembrano innovative almeno nell’estetica ma che risultano poi estremamente tradizionali nell’essenza o anche nel concept drammaturgico. In Attila si attua una operazione simile a quella dei Vespri spostando l’azione al secondo conflitto mondiale (e anche qui scatta la domanda se l’intento è anticelebrativo o se tutto è semplice superficialità), con tanto di apparizione di Leone Magno che ricostruisce l’affresco omonimo di Raffaello delle Stanze Vaticane. Tosca è un continuo cambio di prospettiva, come se fosse un vero e proprio film, in un enorme sforzo di ogni componente del palco, tanto che la sovrabbondanza di particolari diventa quasi zeffirelliana, con finali d’atto di stampo sempre più simbolico. Macbeth è invece una grande distopia, simile per alcuni versi alla regia pensata da Černiakov per l’Opéra di Parigi nella sua ricerca della banalità del male, ma che finisce per assomigliare più a una fiction di media levatura.

Queste grandi occasioni mediatiche rendono Livermore il più ambito regista della penisola, tanto che nella riapertura dei teatri nel post pandemia del 2021 viene chiamato a varare ben sei produzioni in cinque mesi: Elisabetta regina d’Inghilterra a Pesaro, Traviata e Rigoletto a Firenze, Norma a Catania, Giovanna d’Arco a Roma e il già menzionato Macbeth scaligero. In queste occasioni si vedono tutti i limiti dovuti anche alla sovrabbondanza di impegni ravvicinati: ricicla scenografie già viste (quella di Giovanna è sostanzialmente la stessa dell’Otello dato a Genova nel 2012), usa spesso molte idee riprese da sé stesso, come le protagoniste che si sdoppiano in una presenza terrena e una celeste che assurge al cielo (Traviata, Rigoletto e Giovanna), oppure finisce per perdere intere idee drammaturgiche come nel secondo atto della Traviata fiorentina dove manca totalmente la situazione di distacco dal mondo della coppia protagonista. Al netto dei difetti, non mancano comunque alcuni elementi di interesse: il primo atto della Traviata risulta ben condotto e lineare nella narrazione, mentre riesce a trovare idee accattivanti per risolvere le arie rossiniane dell’Elisabetta, a partire dalla cavatina della protagonista, ridisegnata come Elisabetta II impegnata quindi a produrre uno dei suoi discorsi radiofonici.

A oggi, ottobre 2022, Livermore è il regista d’opera italiano più richiesto insieme a Damiano Michieletto, ma, al contrario di quest’ultimo, i suoi spettacoli appaiono tecnicamente meno ferrati, tanto da sembrare semplicemente una veste estetica nuova e moderna applicata a una gestione tradizionale di palcoscenico e interpreti. Questa finta avanguardia rende Livermore estremamente apprezzato dalle direzioni artistiche che riescono così ad avere spettacoli che fanno parlare di sé, ma che in fondo si rivelano poco più che innocui. A ciò si aggiunga che Livermore, dati i suoi ruoli istituzionali al Palau de les Arts Reina Sofía di Valencia e al Teatro Stabile di Genova, sa come muoversi negli ambienti dirigenziali dei teatri e intercettare le tendenze e i gusti dei direttori artistici. Tuttavia, Livermore rimane un caso quasi esclusivamente italiano e, a parte casi come i vari teatri spagnoli e australiani, viene ingaggiato dai teatri internazionali assai meno di Michieletto, le cui letture postmoderne hanno ormai il loro spazio nel repertorio registico europeo. Per le stesse ragioni, Livermore rimane a oggi un esempio senza filiazioni dirette, mentre Michieletto, nel bene e nel male, ha ormai ridato veramente vita a una scuola italiana di giovani registi pronti a misurarsi con lui e, in qualche caso, persino a superarlo. (continua)

Photo di copertina: Yasuko Kageyama

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