Come già accennato nelle puntate precedenti, per trovare un personaggio che davvero lasci un segno importante nella regia d’opera italiana dopo Luca Ronconi bisogna aspettare il primo decennio degli anni 2000, quando Damiano Michieletto, veneziano classe 1975, appare all’improvviso sulla scena. Laureato in lettere e diplomato alla Paolo Grassi di Milano, quando Michieletto debutta al festival di Wexford nel 2003 con l’opera Švanda Dudák di Jaromir Weinbeger è un perfetto sconosciuto. A differenza di nomi come Visconti, Strehler o Ronconi, non parte dalla prosa per approdare all’opera una volta fattosi un nome, ma si fa le ossa direttamente sul campo. Il successo in terra irlandese gli apre le porte per l’esordio nel 2004 a Pesaro con Il trionfo delle belle di Stefano Pavesi e l’anno successivo a Firenze con Il barbiere di Siviglia. In un panorama povero di idee come quello registico italiano di inizio anni 2000 questi spettacoli rappresentano una ventata di aria fresca. La produzione di Barbiere, ad esempio, pensata per il palco estivo al Parco delle Cascine, viene ancora oggi rimontata con frequenza a Firenze sia all’aperto che al chiuso, grazie a una scena quasi spoglia e una regia che, per merito anche di un lavoro certosino sugli interpreti, rivela tra le pieghe comiche anche il risvolto amaro, quasi grottesco, della commedia rossiniana.
L’affinità con Rossini viene definitivamente sancita da tre collaborazioni con il Rossini Opera Festival: La gazza ladra (2007), La scala di seta (2009) e Sigismondo (2010). Michieletto affronta così tutti i generi in cui si è cimentato il pesarese e già in questi spettacoli, tutti ripresi e commercializzati in DVD, si notano tutti i suoi pregi e debolezze. Se la Scala risulta uno spettacolo vivace ed estremamente moderno in ogni sua componente, compresa la direzione attoriale degli interpreti, questa viene meno negli altri due titoli. Tuttavia l’elemento che colpisce in queste produzioni è la nuova cornice drammaturgica: La scala di seta diventa una sorta di Donne sull’orlo di una crisi di nervi, La gazza ladra è tramutata interamente in un sogno fatto da una bambina che diventa autrice del furto della preziosa posata, e Sigismondo viene ambientato in un manicomio dove il protagonista è in preda a un disturbo da stress post-traumatico, a seguito della sua partecipazione a una guerra. Per fare ciò sono fondamentali gli impianti scenografici ideati da Paolo Fantin, che insieme ad Alessandro Carletti per le luci e Carla Teti per i costumi, diventa partner indispensabile per la riuscita delle operazioni ideate dal regista veneziano.
Nonostante l’approccio molto classico alla recitazione, soprattutto nei titoli seri e semiseri (come dimostrano i due titoli rossiniani sopra citati), le visioni di Michieletto risultano accattivanti per un pubblico poco avvezzo alle ricontestualizzazioni drammaturgiche: gli appassionati non esitano a dividersi tra chi lo considera un genio e ama i suoi spettacoli e chi lo vede come epitome di tutti i mali dell’opera moderna. La verità potrebbe alla fine stare nel mezzo come dimostra una analisi un po’ più approfondita di qualche suo spettacolo iniziale: ad esempio, nella Gazza ladra a fronte di una scena semplicissima ma efficace e di una ricontestualizzazione di effetto, gli interpreti stanno fondamentalmente fermi nelle solite pose da melodramma, mentre la nuova narrazione viene condotta principalmente dalla figurante gazza/bambina, che nel concertato finale del primo atto cerca addirittura di restituire il cucchiaio, con scarsi risultati, fino a quando tutto non precipita e i tubi che dominano la scena cadono diventando un misto di inquietanti macerie o cannoni pronti a sparare, così che tutto il secondo atto si svolge in un clima opprimente e ostile. L’aspetto più incisivo di un allestimento del genere risulta quindi essere la creazione delle varie atmosfere, grazie alle quali si scopre la tragicità in un’opera in cui il patetismo è dietro l’angolo.
Quegli stessi anni vedono l’affermazione di Michieletto su scala nazionale con produzioni come Il cappello di paglia di Firenze a Genova (2007), Roméo et Juliette coprodotto tra Venezia, Verona e Trieste (2008), e la controversa Madama Butterfly di Torino (2010), ma è nella Zurigo di Alexander Pereira che viene definitivamente lanciato tra 2008 e 2012 con gli allestimenti di Lucia di Lammermoor, Corsaro, Luisa Miller e Poliuto, in cui dimostra un avvicinamento a un estetica da Regientheater tedesco, con risvolti psicoanalitici nello sviluppo degli spettacoli che rimandano palesemente ai massimi lavori di Claus Guth. In tal senso spicca la trilogia dapontiana allestita alla Fenice di Venezia nel 2010 e 2013, dove i rimandi alle allora recenti produzioni salisburghesi degli stessi titoli realizzate da Guth risultano fin troppo palesi; emerge tuttavia in questo caso una direzione attoriale semplice ma originale, arricchita da una recitazione modernissima come raramente se ne è vista sui palcoscenici italiani.
La consacrazione internazionale definitiva di Michieletto arriva quando Pereira, diventato sovrintendente del Festival di Salisburgo, gli affida la nuova produzione di Bohéme nel 2012, dove i personaggi si muovono come lillipuzziani su una enorme mappa di Parigi, e quella di Falstaff nel 2013, ambientata nella Casa di riposo per musicisti di Milano. Da lì si aprono le porte dei maggiori teatri europei, come la Royal Opera House di Londra, per cui realizza prima un controverso Guillaume Tell (2015), che quasi ricalca la Gazza ladra pesarese, e poi un più riuscito dittico verista di Cavalleria/Pagliacci che gli vale un Olivier Award.
Il vero capolavoro di Michieletto di quegli anni rimane comunque la produzione de Il viaggio a Reims che debutta a Amsterdam nel 2015 per poi girare tra Copenhagen, Mosca, Australia, fino ad arrivare all’Opera di Roma nel 2017. Ambientato tutto in un museo d’arte, i personaggi vengono lanciati nello spazio scenico come trottole fino a ricomporre in un tableau vivant l’Incoronazione di Carlo X di François Gerard. Il lavoro su quest’opera è talmente ben condotto e studiato da tramutare questo allestimento nel nuovo termine di confronto per mettere in scena il titolo rossiniano, con buona pace dello storico spettacolo di Ronconi.
L’abilità di Michieletto di confrontarsi con titoli in cui la drammaturgia è debole o lascia ampi spazi di manovra, proprio come il Viaggio, si ritrova nell’Alcina che debutta al Festival di Pentecoste di Salisburgo nel 2019, in cui domina ovviamente la presenza nel ruolo del titolo di Cecilia Bartoli: per lei Michieletto concepisce uno spettacolo coerente e moderno, tutto basato sulle ambivalenze e il potere dello specchio che andrà poi in frantumi lasciano alla protagonista l’ultimo lamento “Mi restano le lagrime”. Per quanto tale spettacolo sia bello ed efficacie, rimane qui come in altri allestimenti di Michieletto un senso costante di deja-vu: non a caso l’ambientazione generale di questa Alcina in un Grand Hotel riprende in qualche modo l’idea avuta da Robert Carsen quando mise in scena questo titolo a Parigi nel 1999. Michieletto insomma si ispira liberamente alle varie tendenze della regia operistica attuale e le mette insieme creando un tipo di spettacolo in cui l’estetica postmoderna vince sulla poetica generale. Il regista veneziano non è come un Carsen impegnato a mostrare la crisi tra realtà e finzione, un Guth che legge psicanaliticamente i testi, o anche un Ronconi che vede il teatro d’opera come meraviglia delle macchine: in Michieletto le idee e le tendenze si accumulano come carte da giocare a proprio piacimento, anche a scapito della coerenza. Ad esempio, in Cavalleria Rusticana/Pagliacci allestiti a Londra nel 2016, unisce i due titoli con vari rimandi improntando tutto a un severo iperrealismo, salvo poi far avere una visione a Santuzza durante la processione con la statua processionale della Madonna che la indica in un gesto di accusa, o trattare tutta la commedia di Pagliacci come se fosse una visione allucinata e onirica di Canio, realizzata molto bene, ma che va a tradire tutta l’impostazione data inizialmente allo spettacolo, tanto che finisce per risultare una scappattoia drammauturgica.
Ciò che colpisce sempre negli spettacoli di Michieletto, sono le scene di Paolo Fantin, che negli anni si fanno via via più complesse e immaginifiche, come testimoniato dalla Salome della Scala. L’impressione è che questo surplus visivo finisca alla lunga per imprigionare anche la fantasia del regista che si trova a dover fare i conti con una vera e propria installazione artistica che spesso basterebbe e avanzerebbe. Tuttavia è grazie a questo fattore che gli spettacoli di Michieletto riescono a essere sempre visivamente accattivanti per una larga fetta di pubblico, anche se il lavoro registico finisce poi per essere meno profondo di quello auspicato.
Per concludere, nei suoi spettacoli Michieletto dimostra di amare e conoscere le tendenze della regia moderna e le offre come un bignami al pubblico: nel caso dell’Italia, dove la rivoluzione del teatro di regia degli anni ‘90 è arrivata estremamente attenuata, questo metodo risulta spiazzante e quasi rivoluzionario; nel resto del mondo se ne prende atto in quanto tendenza come tante altre. Data la sua attitudine citazionistica, lo stile di Michieletto tende al manierismo più frequentemente rispetto agli altri, e non a caso la critica inglese continua ad esempio a guardarlo spesso con diffidenza. Ora resta solo da vedere se colui che ha fatto in qualche modo risorgere, come vedremo, la scuola italiana della regia d’opera riuscirà a non rimanere vittima della sua stessa tecnica e stare al passo con i tempi in continua evoluzione. (continua)