La regia d’opera in Italia – Dalla prosa alla lirica: Martone, Tiezzi e Muscato

Tra 2020 e 2022 il pubblico italiano si trova di fronte tre allestimenti di Rigoletto connotati da una lettura che colloca la vicenda fuori dalle coordinate temporali codificate dalla tradizione. Nel luglio 2020 il Teatro dell’Opera di Roma chiama Damiano Michieletto per realizzare insieme a Daniele Gatti la produzione di riapertura dopo le chiusure forzate del primo lockdown: nell’ampio spazio del Circo Massimo la sinergia tra regista, direttore e interpreti produce un Rigoletto cupo, opprimente, venato di una violenza senza uscita, ma estremamente azzeccato e attinente alle situazioni narrate da Verdi e Piave. Pochi mesi dopo a Firenze, Davide Livermore firma la sua versione dell’opera ambientandola in una New York da film, mischiando citazioni cinematografiche e richiami a vecchie regie come quella di Jonathan Miller, in un risultato non del tutto convincente. Si arriva così all’estate 2022 quando la Scala vara una nuova produzione destinata, forse, a mettere in soffitta l’allestimento di Deflo: per l’occasione viene scelto Mario Martone, il quale realizza un Rigoletto che ricalca in parte le vicende del film Parasite del regista sud-coreano Bong Joon-ho, anche grazie alle scene di Margherita Palli: una società quindi divisa in un mondo di potenti da cui dipendono gli oppressi, i quali però alla fine si ribellano ai loro superiori, come se la vendetta potesse redimere il passato; con l’uccisione del Duca e di tutta la corte Martone ribalta il finale in modo discutibile, all’interno di un allestimento che si rivela comunque azzeccato nel delineare la cornice e indirizzare quanto più gli interpreti.

Quando però Martone arriva al Rigoletto scaligero non è più da tempo una novità neanche su quel palco. Infatti Mario Martone, nato a Napoli nel 1959, è in primis un regista di prosa, approdato poi al cinema e infine all’opera. Inizia la carriera teatrale proprio nella sua città di origine alla fine degli anni ‘70 e ben presto diventa una delle voci di spicco di quell’ambiente. Il suo debutto nella regia operistica avviene nel 1989 a Roma con Charlotte Corday di Lorenzo Ferrero, ma per vederlo cimentarsi in un titolo di repertorio bisogna aspettare il Così fan tutte napoletano del 1999, reso poi celebre con la ripresa a Ferrara l’anno successivo sotto la bacchetta di Claudio Abbado. Come anche negli altri capitoli della trilogia dapontiana messi in scena a Napoli nel 2002 (Don Giovanni) e 2006 (Nozze di Figaro), Martone non stravolge la vicenda e l’ambientazione, ma, avvalendosi di una scenografia scabra di stampo settecentesco firmata da Sergio Tramonti, lavora molto sulla gestualità degli interpreti, fornendo una lettura scorrevole che, nel caso del Così, cerca di entrare in contatto con il pubblico grazie alle passerelle che si prolungano nella platea; il doppio piano visivo fornito da questa caratteristica permette di fare ricorso a una ricchezza di controscene, così che l’azione scorre a metà tra una pellicola cinematografica e un buon meccanismo teatrale arricchito dai cambi scene a vista. Da quel momento Martone diventa sempre più richiesto, e dopo una Lulu a Palermo (2001), approda al Rossini Opera Festival nel 2004 per una nuova produzione di Matilde di Shabran: un allestimento tanto celebrato per la semplice scena formata solo da una doppia scala elicoidale (ancora Tramonti) che simboleggia la misoginia del protagonista Corradino, interpretato come sempre da Juan Diego Flórez, ma visto oggi in video sembra un concerto in costume ben confezionato, dato che gli interpreti si limitano per la maggior parte a stare fermi durante le arie e i concertati, e vengono lasciati a creare dei personaggi piuttosto prevedibili durante i recitativi. Nonostante questa Matilde venga ripresa due volte a Pesaro e persino una a Londra nel 2008, la produzione pesarese più probante di Martone risulta essere Torvaldo e Dorliska del 2006, sia per un lavoro più minuzioso sui singoli, sia per una scenografia più accattivante che rende anche la sala stessa del Teatro Rossini un luogo del dramma, mentre dietro un cancello sul palco appare una minacciosa foresta da cui emergono tutti i personaggi persi nei loro destini: la vicenda di questa opéra à sauvetage diventa così un vero viaggio nelle tenebre ordite dal Duca d’Ordow, ma con il giusto lieto fine tipico delle opere semiserie.

Se sporadiche e poco probanti sono le esperienze estere di Martone (Ballo in maschera di Londra e Madrid del 2008, Macbeth agli Champs-Elysée nel 2015 e Falstaff a Berlino nel 2018), nel 2011 avviene il debutto alla Scala con il dittico Cavalleria Rusticana/Pagliacci, prima di otto produzioni create per il palcoscenico del Piermarini in undici anni. Già quel primo allestimento viene salutato dalla stampa come un capolavoro con cui Martone mette in scena lo sguardo della società sui singoli, collocando Pagliacci in una degradata periferia contemporanea del Sud Italia, mentre Cavalleria diventa una tragedia senza tempo, dominata dalla massa corale onnipresente in scena a osservare e pronta a sottoporre tutti al suo insindacabile giudizio morale. Seguono poi Luisa Miller (2012) e Oberto (2013), entrambi passati quasi in sordina anche se il secondo, ambientato negli ambienti di malavita italiana contemporanea, tra residenze pacchiane e guerre tra clan, viene molto lodato dalla critica, così come La cena delle beffe di Giordano (2016). Nel 2017 tocca a lui inaugurare la stagione scaligera con un Andrea Chénier, da molti definito di stampo cinematografico e dalla gestualità asciutta, ma che si rivela spettacolo tradizionalissimo e dove anche il lavoro sugli interpreti delle origini lascia spazio a una sostanziale prevedibilità. Tuttavia con questa consacrazione, Martone diventa uno dei registi di punta della Scala, dove realizza anche Chovanscina (2019), il già menzionato Rigoletto e una Fedora (2022) fallimentare sotto molti punti di vista. Attraverso questi e altri spettacoli Martone dimostra che i registi di prosa o cinematografici non sanno sempre gestire al meglio le problematiche di un testo in musica. Non è un caso che la sua produzione più convincente sia probabilmente The Bassarids di Henze che inaugura la stagione 2015/16 dell’Opera di Roma, in cui Martone scava nella tragedia da cui è tratto il libretto (le Baccanti di Euripide) e realizza uno spettacolo di impatto, anche grazie alla potenza della musica. Allo stesso modo Martone sa usare lo strumento dello streaming e del cinema, come dimostra Il barbiere di Siviglia, realizzato sempre a Roma ma in piena pandemia a fine 2020, in cui torna a usare l’intera struttura del teatro come palcoscenico, e che, anche al netto di qualche simbolo già visto, si dimostra comunque incalzante e ben curato in ogni suo aspetto.
Per concludere Martone sembra quasi sempre essere convincente nella cornice di (ri)adattamento, come dimostrano la dicotomia tra i due ambienti di Rigoletto o l’atmosfera da club berlinese di Falstaff, ma non sempre riesce a far seguire a tutti gli interpreti la nuova caratterizzazione dei personaggi, così che spesso si è portati a pensare che lo spettacolo avrebbe funzionato allo stesso modo anche senza le riscritture drammaturgiche che contraddistinguono la seconda fase della sua carriera da regista di opera.

Martone tuttavia non è l’unico regista di prosa prestatosi alla regia d’opera; molti tentativi di questa categoria finiscono per essere al massimo dei buoni spettacoli di routine, dove tutto può funzionare molto bene per la soddisfazione del pubblico senza per questo aprire nuove vie interpretative. Uno dei maggiori esponenti di questa tendenza è sicuramente Leo Muscato che approda all’opera nel 2009 con un interessante dittico composto da La voix humaine e Pagliacci nei teatri lombardi, dove Elle si aggira per strada col telefonino dopo essersi quasi schiantata, mentre i commedianti sono raffigurati nei loro rapporti mediante la scena di Antonio Panzuto che rappresenta uno spaccato di una casa con i diversi camerini dei protagonisti. Muscato ottiene sempre più commissioni e nel 2013 vince il Premio Abbiati come miglior regista per un Nabucco ordinario allestito a Cagliari, Sassari, e poi a Firenze. Proprio al Teatro del Maggio nel 2018 Muscato firma la sua regia più discussa, Carmen, in cui rielabora il finale in modo che sia la protagonista a uccidere Don José e non viceversa: una riscrittura che alla prova dei fatti risulta essere una mera trovata attaccata a una regia che per il resto scorre senza problemi tra riferimenti ad altri famosi spettacoli, come la Carmen di Calixto Bieito, e una narrazione tutto sommato fluida nella sua ambientazione ai margini della società moderna.

Tra gli spettacoli allestiti da registi di prosa prestati all’opera non mancano tuttavia anche i casi apprezzabili per le novità introdotte o per l’azzeccata realizzazione. Due esempi di ciò possono essere il recente allestimento bolognese di Otello firmato da Gabriele Lavia (2022), assai centrato nella cura degli interpreti e nelle immagini fornite dalla pur semplice scenografie, o quello più remoto de La sonnambula realizzato a Firenze nel 2000 da Federico Tiezzi; quest’ultimo rilegge tutta la vicenda come un sogno psicanalizzato di una Amina borghesizzata a fine ‘800. Non sempre però il lavoro di Tiezzi in questo ambito si rivela così interessante. Il suo debutto nel mondo operistico avviene virtualmente nel 1991 con Norma al Teatro Petruzzelli di Bari, che però brucia la notte successiva alla prova generale dello spettacolo; le scenografie di Mario Schifano, andate distrutte, vengono ricostruite quando l’allestimento viene ripreso qualche anno dopo a Trieste e Bologna, dove comunque questa Norma si rivela poco più che un buon classico prodotto assai tendente alla ieraticità, così come avviene anche nel Simon Boccanegra coprodotto nel 2009 tra Berlino e la Scala sotto la bacchetta di Daniel Barenboim.
Proprio nel 2009 Barenboim inaugura la stagione scaligera con Carmen, uno spettacolo che vede il debutto operistico di Emma Dante: una prova difficilissima, forse ardita, ma che segna l’inizio dell’incursione operistica da parte della regista siciliana che merita un capitolo a parte della nostra narrazione. (continua)

In copertina: Mario Martone
Photo: Brescia e Amisano